La morte selvaggia di mons. Sartori
Nemico acerrimo della secolarizzazione, il vescovo di Trento ne è rimasto vittima nel momento supremo della sua vita.
Può sembrare paradossale ma forse poi non lo è nemmeno così tanto che la fase terminale della vita e la morte di mons. Giovanni Sartori, ultimo vescovo di Trento, ricalchi fedelmente in modo quasi paradigmatico le pagine del libro di Philippe Ariès, storico francese, che tratta de "L'uomo e la morte dal Medioevo a oggi".
Nella parte conclusiva Ariès parla del passaggio dalla morte "addomesticata", legittimata cioè ad avvenire tra le mura domestiche in un contesto familiare e comunitario del passato, alla morte "selvaggia" tipica del mondo moderno e contemporaneo, relegata in un contesto ospedaliere nella solitudine relazionale e resa afasica dall'artificio tecnologico.
Nel capitolo dedicato al "trionfo della medicina" dove si dice che la morte oggi è diventata di esclusivo dominio della medicina, Ariès parla della "immagine pietosa del moribondo irto di tubi", del "tempo della morte allungato e suddiviso in morte cerebrale, morte biologica, morte cellulare" e della discrezionalità del potere medico sulla gestione artificiale della vita e in ispecie della sua fase terminale. Una morte selvaggia in un mondo secolarizzato dove i medici sono diventati il nuovo ceto sacerdotale a cui si affidano le sorti della vita, detentori di un potere che la fede nella scienza medica (sostitutiva ormai della fede religiosa) tende ad attribuire loro in un'aspirazione d'immortalità.
E che i medici si prestino a questo gioco d'illusioni fino ad irretire in esso perfino uomini di chiesa come vescovi, preti e frati e fino a sfiorare o a superare i limiti di una deontologia professionale, lo dimostra proprio la vicenda di mons. Sartori a cui abbiamo assistito impotenti nelle scorse settimane.
Già la scelta di un trapianto di quella portata su un organismo ormai logoro la dice lunga sulla competenza diagnostica di questi professionisti e su quanto la loro collocazione sociale pesi nel discriminare tra soggetti socialmente protetti e soggetti socialmente non protetti, perfino al di là di ogni criterio di buon senso. Scelta questa che ha contribuito in partenza a collocare un vescovo in un 'area di privilegio e di prevaricazione su altre aspettative in lista d'attesa diffusamente percepite come prioritarie e maggiormente legittime, mentre in compenso ha collocato i medici nella vetrina della comunicazione sociale come possibili operatori di miracoli. Senza contare che questa scelta ha perfino distolto l'attenzione da testi biblici con cui le persone coinvolte avrebbero dovuto avere una certa familiarità, e che avrebbero dovuto metterle in guardia dalle pretese taumaturgiche dei medici, là dove il Vangelo avverte che mettere vino nuovo in otri vecchi è un errore che non bisogna commettere, se non si vuole incorrere in conseguenze inevitabilmente disastrose.
Ma una volta avviati su questa china è difficile fermarsi. E così la morte selvaggia si arricchisce di tutti i corollari previsti. Al malato non si dice la verità o la si edulcora inducendolo a partecipare alla decisione. Ai non addetti ai lavori non si concede ne il diritto di parola e nemmeno quello di essere correttamente informati, fino ad emettere comunicati rassicuranti fino a catastrofe avvenuta. La fede, perfino quella dei credenti/praticanti, viene trasferita nei poteri taumaturgici della medicina, al punto da costringere un partecipante al pellegrinaggio diocesano a Lourdes a intervenire sui responsabili dello stesso per sollecitare, dopo giorni d'inutile attesa, un 'intenzione di preghiera per il vescovo malato. La fase terminale viene così a svolgersi in un progressivo isolamento per la necessità di non correre rischi d'infezione, perché bisogna tenere il malato "sedato ", il che significa relegarlo in uno stato di incoscienza o di seminconscienza, gli si toglie la parola con la tracheotomia per esigenze di cautela onde evitare complicazioni, gli si toglie il conforto di una comunità lontana e disinformata, e lo si sigilla infine in una bara per esigenze legali di trasporto.
Povero vescovo e povera comunità
Ma la cosa più sconcertante è dover constatare che dalle cronache degli eventi, così come un normale cittadino-fedele è stato messo in grado di seguirli, non è stato possibile sapere se il vescovo è morto "con il conforto dei sacramenti", cosa di cui non vogliamo dubitare. Ma certo la notizia di questo aspetto particolare non ha avuto ne quella visibilità ne quel peso che in casi del genere si penserebbe meritare, e certamente non ha avuto quella partecipazione comunitaria che non solo il rituale della morte di un vescovo prevede, ma che il ruolo ricoperto con tanta adesione alle regole canoniche che mons. Sartori esigeva da tutti avrebbe preteso come dovuta. E il non aver ottemperato a questi previsti doveri canonici suona quasi come una paradossale espiazione delle sue severità e dei suoi interventi normalizzatori curiosamente impostagli dall'entourage curial-familiare che ne aveva condiviso con acribia la rigidità applicativa.
Certo una ben triste differenza rispetto ad altre morti vescovili recentemente registrate, come la morte di mons. Franceschi vescovo di Padova che, consapevole della fase terminale e dell'imminenza della morte a cui il tumore lo stava portando, si faceva somministrare in duomo, con la partecipazione del clero e della comunità di fede di cui era pastore, l'olio degli infermi appena consacrato nella cerimonia del giovedì santo. Così come la recente morte di don Tonino Bello vescovo di Molfetta in stretta comunione con la sua comunità fino ali 'ultimo istante. Come la morte del cardinale trentino di Chicago Joseph Bernardin.
Così come si racconta di papa Giovanni XXIII, che, posto di fronte alla diagnosi di un tumore, rifiutava la proposta di terapie invasile, sia per rispetto del ruolo che ricopriva, sia per dimostrare che affidarsi al Signore verso cui sapeva di andare è la testimonianza più bella che un credente può dare a chi resta qui ancora per un po'.
Sembrerebbe quasi - e gli esempi sopra riportati sembrerebbero dimostrarlo - che solo chi raccoglie la sfida di vivere la fede in un mondo secolarizzato accettandolo per quello che è nella sua ambiguità di proposte e cercando faticosamente con tutti gli uomini di buona volontà i criteri di discernimento per non farsene fagocitare, sia in grado di trovare il modo di porsi con coerenza anche di fronte alle vicende estreme della vita e trarne conforto per una testimonianza credibile di fede. Mentre coloro che si pongono di fronte alla secolarizzazione del mondo contemporaneo con atteggiamento di rifiuto e ritengono di contrastarlo semplicemente attraverso una rigida interpretazione di una presunta fedeltà all 'ortodossia, finiscono col diventare succubi inconsapevoli delle logiche e delle pretese dominanti di una secolarizzazione selvaggia che non di rado riesce a mimetizzarsi dietro le ossequienti manifestazioni di conformismo e di pratica religiosa di una cerchia di cortigiani.
In questa logica riteniamo che non sia paradossale la vicenda della malattia e della morte del nostro vescovo, fermo restando il rispetto per la dimensione umana e il mistero della persona, che se opportunamente svestita del ruolo avrebbe potuto emergere in ben altra luce.
Da interprete dell'ortodossia qual'era, riteniamo che non avrebbe certo proposto come esemplare di una morte cristiana una morte come di fatto è stata la sua. Ma forse proprio la sua interpretazione della fede non gli ha permesso di sottrarsi a quell'insidia dell'io che Freud da tempo ha individuato, che è appunto quella di viversi come immortale. La morte, per l'io, è sempre e solo la morte degli altri. E un io che tende a identificarsi fino quasi ad esaurirsi nel ruolo ricoperto corre rischi ancora maggiori in questa direzione.
Forse una fede più problematica, con minori certezze e pretese di monopoli ed esclusive salvifiche, può offrire un aiuto più efficace per affrontare anche la morte in una dimensione comunitaria, che condivide la fede non nell'immortalità ma nella risurrezione, offrendola magari se è il caso a tutti come testimonianza.
Ritengo che anche un'occasione perduta come la morte del vescovo di Trento possa proporsi come occasione di riflessione per un vissuto di fede da non abbandonare, come purtroppo ha finito col fare monsignor Sartori, nelle mani di uomini di apparato che sono portati a vivere di luce riflessa, spegnendosi la quale temono di scomparire nel nulla.