I falsi luoghi comuni della sinistra
Caro Ballardini, in tema di economia e giustizia anche la sinistra ha i suoi luoghi comuni da abbattere...
D'accordo. Ballardini avrà pure ragione quando ("I falsi luoghi comuni", QT del 12 settembre) ci mette in guardia da quelle affermazioni che crediamo vere per il solo fatto che ci vengono ripetute ossessivamente. Anche perché i mezzi d'informazione fanno e disfano luoghi comuni a velocità impressionanti: il caso del professar Di Bella da eroe a carnefice nel giro di poche settimane è emblematico.
Meno condivisibili sono gli esempi sui quali Ballardini si sofferma. E' giusto continuare a mettere in discussione le proprie convinzioni, chiedersi sempre se non si stia soltanto seguendo un gregge, ma in questa sinistra, di cui Ballardini fa parte assieme a chi scrive, c'è semmai da chiedersi se non siano proprio le sue opinioni i falsi luoghi comuni.
Prendiamo l'economia di mercato.
E' vero che considerare il mercato il taumaturgo di ogni male del mondo è una sciocchezza. Ma ancor più sciocco sarebbe prendersela con il mercato tout court. La sinistra italiana, almeno quella di ispirazione comunista, si è sempre posta l'obiettivo (utopico) di abbattere il capitalismo, tralasciando quello (ben più realistico) di governarlo. E non meno diffidente, verso il "laico" capitalismo, è sempre stata la Democrazia Cristiana. Il risultato l'abbiamo sotto gli occhi: l'Italia, il paese che ha avuto il più forte partito comunista d'occidente, si ritrova, rispetto agli altri paesi occidentali, praticamente senza uno straccio di legge antitrust (nemmeno nel delicatissimo settore dell'informazione, cosicché Berlusconi costruisce i nostri luoghi comuni!), senza una vera tutela dei consumatori, con un sistema economico arretratissimo, fondato - Stato a parte - su poche potenti famiglie ben ammanicate con il potere politico.
Il problema, invece, è proprio questo: come governare l'economia di mercato affinché produca benessere per tutti, anziché solo per alcuni, e si evitino il più possibile discriminazioni ed ingiustizie?
Le privatizzazioni, la cui necessità è bollata da Ballardini come falso luogo comune, potrebbero servire anche a questo. Non si tratta di verificare se una azienda in mano pubblica produce o meno perdite di bilancio: è sufficiente dimostrare se è vero il contrario, ossia se in mano privata produrrebbe profitti, se sarebbe in grado di reggersi sulle proprie gambe. Ciò sarebbe infatti sufficiente per giustificarne la privatizzazione. Un'azienda in mano pubblica si presta a dar luogo ad abusi ed ingiustizie: può alimentare il clientelismo della politica, può creare differenze di trattamento rispetto ai lavoratori privati, può dar vita ad una amministrazione dell'azienda assecondata alle lobby di partito. Insomma, esistono settori nei quali la presenza diretta del pubblico è (probabilmente) insostituibile, o comunque utile: scuola, sanità, sicurezza, ecc. Ma quale motivo c'è di far produrre allo Stato i fagioli in scatola?
E' inoltre dimostrato che la concorrenza (se tale è) produce solitamente un miglioramento della qualità dei prodotti ed un generale abbassamento dei prezzi. Anche nel caso limite delle benzine riportato da Ballardini: qui il prodotto da vendere è uniforme e semplicissimo (un liquido), i sistemi di produzione standardizzati (la distillazione del petrolio), il prezzo della materia prima pressoché identico per tutti (i dollari al barile del greggia battuti nelle borse), le tasse devotissime (circa il 70% del prezzo finale): in queste condizioni, una differenza di 30 lire al litro tra una compagnia e l'altra è una cifra tutt'altro che insignificante!
Analogo ragionamento andrebbe fatto sulla flessibilità. Rendere flessibile il mercato del lavoro è necessario proprio per evitare di allargare la forbice tra chi è dentro il sistema di garanzie e chi ne è escluso. Fino a quando si risolvevano i problemi col debito pubblico (e qui da noi si continua così, con la differenza che i nostri debiti li paga il Veneto) non si sentiva certo l'esigenza della flessibilità! Quando una azienda era decotta, finiva ad ingrossare l'IRI. Al sud lo Stato impiantava enormi complessi industriali, che finivano per produrre debiti altrettanto enormi. Le assunzioni in massa nell'ente pubblico facevano poi il resto. Ma oggi?
Prendiamo l'aspetto della flessibilità dei salari. Nelle economie di mercato v'è una relazione diretta fra produttività e costo del lavoro. Quando si viola questo equilibrio, ossia quando a salari elevati non corrispondono altrettanto elevati livelli di produttività, il risultato è la disoccupazione o l'inflazione (che produce a sua volta disoccupazione). In spiccioli, o le aziende se ne vanno altrove, oppure aumentano i prezzi dei prodotti.
Se il meridione ha un livello di produttività basso, vuoi perché le infrastrutture viarie sono malmesse, vuoi per la presenza della mafia, vuoi perché l'intero tessuto produttivo è debole e le poche aziende non trovano nelle vicinanze i fornitori, vuoi per qualsiasi altro motivo (ma non certo, ovviamente, perché i meridionali non lavorano!), allora non si scappa: o si riducono i salari (ma gli aggravi per le famiglie non sarebbero poi così insopportabili, visto che il costo della vita è laggiù più basso), oppure, semplicemente, le aziende migrano altrove, dove il rapporto produttività-salari è equilibrato.
Ma siccome con una legge sbagliata si può ostacolare una azienda ma non si può impedire ad intere regioni di mangiare, il risultato è che le aziende al sud ci sono lo stesso e la disoccupazione è ben inferiore a quella che risulta dai dati ufficiali, ma tutto avviene all'oscuro della legge.
Eccola la flessibilità da temere! I lavoratori in nero non hanno nessuna tutela, non accantonano contributi per la pensione, non sono assicurati contro gli infortuni. E le aziende "sommerse" sfuggono completamente al fisco con grave danno per le finanze pubbliche, ma soprattutto impedendo che sorgano aziende in regola.
Ma quale governo sarebbe in grado di togliere anche quell'unica fonte di reddito a un terzo delle famiglie del sud facendo chiudere tutte le aziende in nero? Nessuno. E allora le alternative rimangono due: far emergere il nero con la flessibilità (dopo di che accanirsi contro i furbi sarà doveroso), oppure rassegnarsi al fatto che al sud esistono due categorie di lavoratori: i privilegiati che lavorano per le poste o nei grandi complessi para-pubblici e i reietti senza alcuna tutela.
Certo, l'altra strada è quella di aumentare la produttività del sud. Ma purtroppo, come noto, questa è la storia del gatto che si morde la coda: si combatte la mafia creando occupazione o si crea occupazione combattendo la mafia ?
Veniamo al capitolo giustizia. Qui i falsi luoghi comuni della sinistra sono più difficili da scalfire, anche perché da Mario Chiesa in poi la questione ha assunto una evidente rilevanza politica.
Anche chi scrive, come ogni persona di buon senso, ritiene Di Pietro un eroe e Caselli un santo. E si sa che Berlusconi è un rappresentante di spicco di quella (vasta) categoria di italiani che si fa largo nella vita a gomitate, considera le leggi una noiosa scocciatura e l'evasione fiscale una sacrosanta autodifesa.
Ma con altrettanto buon senso va rilevato che v 'è pure qualcosa di malato nella giustizia italiana. D'accordo, il problema maggiore non è la spettacolarizzazione degli atti giudiziari o l'accanimento inquisitorio, ma anzitutto la lentezza dei processi (a partire da quelli civili).
Ciononostante, è innegabile che qualche buon argomento ce l'abbia anche chi se la prende con la giustìzia-spettacolo e l'atteggiamento persecutorio di certi magistrati.
Gli addetti ai lavori sanno bene che dietro l'obbligatorietà dell'azione penale (un principio pienamente condivisibile) si aprono in realtà enormi spazi di discrezionalità per la magistratura inquirente. Quella stessa discrezionalità che consente a Colombo di "accanirsi" contro Berlusconi, a Nordio di "accanirsi" contro il Pds, a Salamene contro Di Pietro e a molti magistrati italiani in cerca di celebrità di "accanirsi" contro personalità della politica, dello sport, dello spettacolo. La moda è arrivata addirittura oltreoceano, dove un certo magistrato si "accanisce" da tempo contro l'uomo più potente del mondo.
In questo quadro è difficile credere che, nel paese dei Corrado Carnevale e delle cinture di sicurezza dipinte sulle t-shirt, era impossibile evitare all 'Italia di fare una figuraccia di fronte al mondo inviando al capo del governo un avviso di garanzia proprio mentre questi presiedeva un vertice internazionale contro la criminalità. E se davvero così fosse, ciò sarebbe ancor più la conferma che qualcosa non va nella giustizia italiana. Sempreché si sia ancora in grado di distinguere una istituzione da chi la occupa pro-tempore.
Al di là del giudizio morale, si tratta di capire che la grande macchina dell'informazione spettacolo rischia di questo passo di fagocitarsi letteralmente la nostra giustizia, la cui autorevolezza sta infatti via via scemando assieme alle inchieste roboanti. E siccome non si può chiedere ai magistrati di smettere di indagare, ne alla stampa di non fare il proprio mestiere, per salvare la giustizia altra strada non c'è che quella di riformarla.