Gaza, l’indignazione selettiva
Ovvero, la Bancarotta Morale dell’Occidente.
La notizia che gli Stati Uniti hanno pochi giorni fa opposto per la terza volta il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, presentata questa volta dai paesi arabi, che chiedeva la cessazione immediata delle ostilità a Gaza, ha definitivamente scoperto il gioco ambiguo della amministrazione Biden sulla spinosa questione del genocidio dei palestinesi. Da settimane il segretario di stato Blinken supplicava Israele di “non esagerare”, di moderare l’azione militare su Gaza, ma senza accompagnare queste esortazioni con argomenti convincenti che di solito, in situazioni analoghe, possono andare dalle sanzioni al richiamo degli ambasciatori. In realtà gli Stati Uniti potrebbero fare molto di più: bloccare immediatamente il flusso di armi e munizioni che arrivano in Israele senza interruzione dal 7 ottobre, o magari bloccare l’attuale legge in discussione al parlamento americano che, accanto agli aiuti all’Ucraina, prevede anche decine di miliardi di dollari aggiuntivi di aiuti militari a Israele.
Niente di tutto ciò viene fatto dall’amministrazione Biden. In compenso si sprecano le esortazioni, accompagnate da lacrime di coccodrillo per i “poveri civili palestinesi”, all’addiaccio affamati ammalati amputati ammazzati. Ultimamente Blinken si è spinto fino a dichiarare arditamente “non conforme al diritto internazionale” la continua espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Insomma, per non dire che sono illegali, secondo il diritto internazionale e secondo diverse risoluzioni dell’ONU, si ricorre per l’ennesima volta a tortuose perifrasi. Nel frattempo il governo israeliano, sensibile molto di più alla pressione interna che non a quella internazionale, ha fatto una proposta per il dopoguerra che suona a dir poco provocatoria. Tale proposta contempla un governo civile palestinese a Gaza (senza Hamas), ma la sicurezza e i confini resterebbero nelle mani dell’IDF, ovvero l’esercito israeliano. Si tratta né più né meno della situazione amministrativa che vive da decenni la Cisgiordania, definita da qualcuno una dittatura militare a malapena coperta dall’impotente governo civile di Mahmud Abbas (Abu Mazen): situazione che, negli anni, ha portato al moltiplicarsi dei coloni israeliani, protetti appunto dall’IDF, in barba agli accordi di Oslo che prevedevano di creare proprio in Cisgiordania il futuro Stato Palestinese sovrano. Nessuna meraviglia che agli occhi dei palestinesi, la proposta israeliana per il dopoguerra a Gaza suoni come una presa in giro.
Mentre scriviamo mancano pochi giorni al secondo appuntamento al Tribunale Internazionale dell’Aja dove gli avvocati di Israele dovranno presentarsi portando le prove di avere tentato nell’ultimo mese tutte le vie per risparmiare i civili di Gaza e garantire loro un afflusso adeguato di aiuti alimentari e sanitari.
Che dire? Un compito arduo per gli avvocati d’Israele: in quest’ultimo mese i morti civili palestinesi sono saliti da 20.000 a 30.000, la situazione alimentare si riassume in fame e denutrizione, ancor più grave nel nord di Gaza dove l’agenzia UNRWA dell’ONU è stata messa nella impossibilità di operare dall’azione combinata dei militari dell’ IDF e da una martellante campagna di delegittimazione dell’agenzia, accusata dagli israeliani di avere fiancheggiato i militanti di Hamas sin dal 7 ottobre.
Per quanto riguarda la parte sanitaria, a Gaza si dice apertamente che gli ospedali, privi di medicine energia elettrica e a corto di personale e di ambulanze, si sono trasformati da luoghi di cura in luoghi di morte. I medici devono spesso operare senza anestesia e regolarmente rimandano a casa i malati bisognosi di cure e medicine che non possono più dare; intanto anche le epidemie si diffondono.
“Vi saremo grati se ci manderete dei sudari”
Cosa diranno gli avvocati al Tribunale dell’Aja a discolpa di Israele? Che Israele in quest’ultimo mese ha solo esercitato il suo indiscutibile sacrosanto diritto alla difesa? La distruzione pianificata di Gaza come ambiente vivibile è sotto gli occhi di tutti; il piano di indurre i palestinesi a lasciare “volontariamente” Gaza e trasferirsi da qualche parte nell’ampio e accogliente deserto del Sinai è più che trasparente.
Mi ha colpito la dichiarazione che ho udito durante un tg nazionale alcune settimane fa di un povero padre in mezzo alle macerie e ai morti della sua casa a Gaza, il quale, a un giornalista che gli chiedeva se volesse fare un appello, così rispondeva testualmente: “Un appello? Quale appello? Qui c’è bisogno ormai solo di sudari. Ecco, cittadini del mondo, vi saremo grati se ci manderete sudari per avvolgere i nostri morti!”. Dichiarazione terribile, che inchioda i “cittadini dl mondo” alle loro responsabilità. Quel padre, privato di casa e famiglia da una bomba, ci dice tra le righe: da voi non ci aspettiamo più niente, voi che nel migliore dei casi avete colpevolmente taciuto sulla politica sistematica di sopraffazione del popolo palestinese che dura da 70 anni… Nel peggiore, avete fatto affari con i nostri carnefici, rifornendoli di aerei e di bombe. Cos’altro ci possiamo aspettare da voi che altro non volete se non che seppelliamo i nostri morti e togliamo il disturbo? Anche la Chiesa di Roma, rompendo un lungo tentennamento, ha recentemente denunciato attraverso le parole del cardinale Parolin la orribile “carneficina” che si sta svolgendo a Gaza, la mattanza in quattro mesi di 30.000 uomini, donne, vecchi e bambini, al cui confronto i 10.800 morti civili ucraini in due anni di guerra sembrano poca cosa, anche se i morti sono sempre innocenti.
E qui vorrei introdurre il tema della Bancarotta Morale dell’Occidente. Tutti noi abbiamo udito i nostri giornali e tg martellarci giornalmente sulle crudeltà dell’armata di Putin che a ogni bombardamento lasciava i suoi “danni collaterali”, quantificabili, in 730 giorni (due anni dal 24 febbraio 2022) in una media di circa 15 morti civili al giorno. Confrontiamo questi numeri, per avere un’idea della catastrofe di Gaza, con la media giornaliera dei morti palestinesi a Gaza dopo circa 150 giorni (5 mesi di guerra): il risultato è spaventoso, si tratta di una media di 200 morti al giorno, che fanno di questa guerra, condotta dall’esercito israeliano con i mezzi di distruzione più sofisticati, la più letale in assoluto, almeno dalla guerra del Vietnam. Qualcuno si è chiesto: ma a Gaza i civili morti rappresentano davvero danni collaterali? A questo si aggiunge la distruzione sistematica dell’ambiente urbano con oltre il 50% delle case distrutte o rese inabitabili; la distruzione completa del sistema viario, di scuole, delle centrali elettriche, del rifornimento idrico, persino di gran parte dei forni del pane.
Cosa diranno gli avvocati? Risponderanno: ma Israele ha diritto a difendersi. Davvero? Stimati specialisti di diritto internazionale fanno osservare che, come potenza occupante, Israele non può accampare un astratto diritto alla difesa, semmai questo compete agli abitanti dei territori occupati; se l’argomento giuridico non convince, pensiamo alla storia partigiana: in Italia come in Vietnam, o persino nella Palestina sotto protettorato inglese, dove gli ebrei del gruppo terroristico Irgum facevano saltare in aria gli alberghi e le jeep degli inglesi.
La rivolta degli schiavi
Non sono un giurista, e non spetta a me dire chi ha ragione in punta di diritto. Ma mi ha colpito leggere da qualche parte una interessante osservazione di carattere storico-comparativo. La rivolta e il massacro di circa 1100 israeliani il 7 ottobre è stata paragonata alle antiche rivolte di schiavi. I palestinesi, a torto o a ragione, spesso usano questa parola per descrivere la propria situazione: siamo in Cisgiordania o a Gaza sotto occupazione militare, con i nostri diritti calpestati da anni, le nostre case espropriate, i nostri oliveti sradicati, l’acqua delle nostre terre requisita dalle autorità israeliane che ce ne danno a loro discrezione e sempre meno del necessario ai nostri campi, con limitazioni ai movimenti dentro e fuori le nostre “riserve indiane”, con arresti arbitrari e detenzioni amministrative (ossia senza processo).
A tutto questo si riferiva Antonio Gutierrez quando all’indomani del 7 ottobre, osservava con parole di semplice buon senso: “Il 7 ottobre non nasce dal nulla, ma ha dietro di sé 70 anni di occupazione soffocante”. Una rivolta di schiavi appunto. Come ce ne furono, e numerose, nella storia dell’Impero Romano, ma anche in quella del Califfato Arabo. Rivolte di gente disperata e oppressa che, per qualche giorno o al massimo qualche mese, usciva dalle proprie “riserve” compiendo vendette senza pietà sugli oppressori romani o arabi, per poi divenire inesorabilmente oggetto di rappresaglie dieci volte più spietate che conducevano spesso allo sterminio totale dei ribelli.
Ecco, a Gaza ci è stata riproposta questa antica terribile storia, quella degli schiavi che massacrano i padroni con le loro donne e i loro bambini, per finire poi a loro volta massacrati senza pietà. Sono tutti assassini? Certo, schiavi e padroni, senza alcun dubbio, ma la domanda cruciale è: chi ha più colpa? Chi è all’origine di questa catastrofe? Non ce lo diranno i raffinati avvocati di Israele. Non ce lo diranno i sepolcri imbiancati della diplomazia internazionale, da Blinken a Borrell. Non ce lo diranno i tanti giornalisti che sono ormai divenuti degli esperti di indignazione selettiva, il marchio indelebile della Bancarotta Morale del nostro Occidente.
A questo proposito, ho letto con grande profitto una interessante intervista intitolata “I leader disgregatori minacciano la pace”, proveniente inopinatamente dalle pagine domenicali de Il Sole 24 Ore (18 febbraio, p. 5) a firma di Andrew Gilmour, della Fondazione Berghof. Quali siano questi “leader disgregatori”, che nel mondo da anni seminano il caos a piene mani, è questione sulla quale ognuno si sarà fatto un’idea, ma la parte più interessante dell’articolo è un’altra e merita una citazione, perché riguarda da vicino il mondo dell’informazione e i suoi metodi: “Mi preoccupa molto la selettività dell’indignazione. Sono sconvolto dai crimini di guerra in Ucraina perpetrati dalle forze russe... Sono altrettanto sconvolto da quelle che sembrano prove evidenti di gravi crimini di guerra a Gaza... Ma le persone che si oppongono ai crimini di guerra in un luogo spesso chiudono gli occhi su azioni simili altrove”.
E ancora: “La maggior parte del mondo fa fatica a comprendere il cieco sostegno occidentale - militare politico morale - alla distruzione di Gaza, all’uccisione di migliaia di civili”. E, dopo avere lamentato che la maggior parte dei paesi europei ha ignorato la recente ordinanza dell’Aja contro Israele per la prevenzione del genocidio “mostrando quanto sia sottile l’impegno dell’Europa nei confronti dello stato di diritto”, Gilmour trae la logica conclusione: “Non si può avere un ordine mondiale pacifico se le persone che sostengono di essere i principali sostenitori di un ordine [mondiale] basato sulle regole” si comportano in modo così selettivo” proprio con riguardo a regole che si pretenderebbero universali.
A proposito di genocidio
Gilmour, nell’intervista, faceva riferimento alla ordinanza con cui il Tribunale dell’Aja aveva accolto a fine gennaio il ricorso del Sudafrica che accusava Israele di “genocidio”, decidendo di non archiviare la causa, ma di dare in extremis un’ultima possibilità ad Israele: quella di presentarsi entro un mese a dimostrare, come s’è detto, di avere fatto nel frattempo ogni sforzo per prevenire il “genocidio”.
E proprio su quest’ultima terribile parola pronunciata dall’accusa a l’Aja, e che tanto sconcerto ha suscitato tra gente colta e meno colta, vorremmo fare qualche osservazione conclusiva.
Quando si usa questa parola il nostro pensiero va subito a momenti tragici della storia recente come la Shoah o il Medz Yeghern (la strage degli Armeni di inizio '900). Ma in effetti il concetto giuridico di “genocidio” su cui si basa oggi il diritto internazionale è un altro, e direi contro-intuitivo rispetto all’idea che ne abbiamo noi profani. Quando nel 1948 fu istituito il Tribunale Internazionale si adottò una definizione di genocidio che non implica necessariamente lo sterminio totale di un popolo, ma si applica anche a fattispecie diverse, purché in sostanza esistano due condizioni:
1). la constatazione di atti come massacri anche limitati, deportazioni, espropri, impedimento di rifornimenti alimentari (elemento oggettivo) che si inquadrano – ed ecco il punto cruciale – in
2) una cosciente volontà di distruggere o rendere impossibili le condizioni di vita per una entità nazionale (elemento soggettivo). E ben si comprende la ratio profonda di questa definizione: nel 1948, dopo la tragedia della Shoah, i giuristi dell’ONU compresero che non si può considerare il crimine di “genocidio” solo a posteriori, a cose fatte, come purtroppo accadde agli ebrei d’Europa negli anni ‘40, ma che occorreva prevenire e fermare molto prima la mano di governi e gruppi criminali con chiari programmi genocidi o di cancellazione di altre entità nazionali (le dichiarazioni razziste di certi personaggi come i ministri israeliani Ben Gvir e Smotrich non a caso sono parte integrante delle prove presentate all’Aja a carico di Israele).
Il rifiuto del Tribunale dell’Aja di archiviare l’accusa di genocidio, che ha fatto infuriare il governo di Tel Aviv, significa (per il momento) solo una cosa: l’accusa del Sudafrica non era infondata e la conseguenza più spiacevole è che per anni Israele sarà alla sbarra di fronte al mondo intero con accuse infamanti, che gli rovesciano addosso un crimine orrendo, sia pure in scala molto minore rispetto a quello senza pari che subì ormai quasi 80 anni fa. In sintesi: neppure gli eredi della Shoah possono permettersi oggi di agire da emuli del nazismo. Questa la grande lezione dei giudici del Tribunale Internazionale.
La capiranno gli attuali leader israeliani? Non credo. Il popolo d’Israele prima o poi lo capirà, perché anche dopo la fine di questa guerra si dovrà di nuovo confrontare con la verità, profonda e universale, di una frase più volte ripetuta da papa Giovanni Paolo II: “Non può esservi pace senza giustizia”.