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Israele di fronte a scelte difficili

Gli aspetti militari della crisi israelo-palestinese e le conse?guenze negli umori dell’opinione pubblica mondiale.

Mentre scriviamo è stata da poco archiviata una delle più gravi e pericolose crisi di una massiccia rappresaglia missilistica iraniana su Israele il giorno 14, cui è seguito un contrattacco israeliano più limitato il giorno 19 su un campo militare iraniano a Isfahan, non lontano da una centrale nucleare.

La gravità e la provocatoria strumentalità dell’attacco israeliano a Damasco sono apparse evidenti a tutti gli osservatori, ma pochi pensavano all’ampiezza della reazione iraniana, dato che in casi simili l’Iran si era limitato a incassare in silenzio esercitando una sorta di pazienza strategica. Ma in questo caso si era prodotto quello che gli strateghi chiamano una rottura dell’ “equilibrio di deterrenza” reciproca, e il governo degli ayatollah si è trovato in una situazione simile a quella del 3 gennaio 2020, allorché Trump annunciò al mondo: “Abbiamo ucciso con un drone a Baghdad il generale iraniano Soleymani, la mente dei Pasdaran che fomentano il terrorismo jihadista anti-americano” ecc. ecc. L’ 8 gennaio, inaspettatamente, l’Iran lanciava una salva di circa 20 missili di alta precisione sulla base aerea americana di Ayn al-Asad nel West Irak, distruggendo hangar e edifici e mandando all’ospedale per “gravi traumi cerebrali da esplosioni” circa 110 militari americani (che, preavvertiti dall’Iran, si erano nascosti in bunker sotterranei).

Come si capisce, i parallelismi con l’attacco missilistico a Israele del 14 aprile sono notevoli: si è trattato in entrambi i casi di atti di rappresaglia, compiuti con missili di precisione, ma con l’intento di non fare morti (gli iraniani avevano preannunciato tempi e luoghi dell’attacco), con l’evidente scopo di evitare una contro-rappresaglia da parte di un nemico (gli USA nel 2020, Israele oggi) che dispone di armi nucleari e potrebbe fare molto male. In entrambi i casi l’Iran ha dimostrato di avere un obbiettivo razionale e preciso: ristabilire immediatamente l’equilibrio della deterrenza, riuscendovi in pieno. Nel 2020, l’attacco iraniano alla base americana aveva fatto comprendere che nessuna delle circa 80 basi americane in Medio Oriente era più al sicuro.

Una vittoria? Non proprio…

Ma analizziamo l’attacco missilistico a Israele del 14 aprile. Conoscendo l’eccellenza della “triplice cupola” di difese aeree antimissilistiche israeliane, l’Iran ha adottato un piano efficace: ha spedito una avanguardia di circa 180 droni lenti con motore a elica, più una trentina di missili da crociera con motori a reazione più veloci, e infine un centinaio di missili supersonici, che perfettamente sincronizzati con gli altri ordigni, sono arrivati su Israele tutti insieme. L’effetto è stato di saturare la difesa anti-missilistica e sfondarla almeno con una decina dei più potenti missili del terzo tipo e un numero imprecisato di droni.

La propaganda di guerra israeliana e dei paesi NATO, all’unisono, ha immediatamente inneggiato alla magnifica prova del sistema anti-missilistico israeliano e degli aerei americani-israeliani-britannici-francesi e perfino giordani che, tutti insieme, avrebbero abbattuto il 99 per cento dei missili e droni iraniani. Notizia ripetuta a pappagallo, con la consueta capacità critica che distingue i nostri tg e giornali nazionali sin dai primi giorni della guerra di Gaza: ripetizione perfetta dello schema di copertura giornalistica, già collaudato con la guerra russo-ucraina, in cui si prendono per oro colato i bollettini di guerra di una sola parte. Come in quest’ultimo caso, in cui una martellante copertura a senso unico aveva convinto larga parte del pubblico che l’Ucraina poteva solo vincere la guerra, così anche in questo caso recentissimo l’impressione che si ricavava dai reportage dei giornalisti (non solo italiani in verità) era che Israele avesse riportato una clamorosa vittoria e che l’attacco iraniano si era risolto in un flop.

Ma è andata proprio così? Pare che Israele, esattamente come gli USA dopo il contrattacco iraniano del gennaio 2020 in Irak, si sia d’improvviso reso conto della vulnerabilità estrema delle sue strutture più vitali: gli aeroporti militari e la base nucleare di Dimona (che custodisce le testate e bombe nucleari d’Israele), in pieno deserto del Negev, presi di mira dai missili iraniani.

Ma le notizie peggiori per i comandi israeliani sono altre due:

1. il raid missilistico iraniano è stato assistito sin dall’inizio da reti satellitari cinesi e russe;

2. senza gli aerei americani-britannici-francesi-giordani la grandinata di ordigni spediti dall’Iran avrebbe letteralmente bucato come un colabrodo la famosa triplice cupola, come a dire: la sicurezza aerea di Israele, in caso di attacco di quelle proporzioni e non coi razzi artigianali di Hamas, dipende dagli alleati, su cui non è detto si possa sempre contare. Ciliegina sul tutto, Israele ha speso qualcosa come un 1,3 miliardi di dollari nel tentativo di bloccare i missili iraniani, pericolosamente assottigliando in poche ore le sue riserve di missili anti-missile; l’Iran ha speso meno di 50 milioni di dollari in questa “azione dimostrativa” e ha impiegato una parte minima dei suoi circa 150-200 mila missili e droni di ogni tipo. E neppure quelli più recenti, i missili ipersonici non intercettabili, capaci di volare a Mach 10, oggi costruiti solo da quattro paesi al mondo: Russia, Cina, USA e appunto Iran. I danni effettivi causati da questa ondata di missili e droni sembrano modesti, ma il punto non è questo. L’Iran ha voluto far capire che è in grado di sfondare la triplice cupola e di colpire il territorio israeliano come e quando vuole, anche se non intende certo causare danni tali da innescare una guerra totale. Gli ayatollah sono degli autocrati, non dei fessi: sanno che in una guerra totale contro Israele e gli USA soccomberebbero perdendo il potere. Nessun regime sopravvive a una débacle militare.

In una parola: l’Iran ha dato un avvertimento a Israele, rivelandone – questo il vero immenso danno arrecato – tutta la vulnerabilità di fronte a un nemico serio e armato di tutto punto, non le bande di miliziani scalzi di Hamas.

Infine, benché l’Iran non abbia ancora l’arma nucleare, gli analisti militari sottolineano che - se messo con le spalle al muro - facilmente potrebbe reagire caricando sui suoi missili delle “testate sporche” contenenti materiali radioattivi, batteriologici, chimici; oppure bombardando il deposito di armi nucleari di Dimona, nel deserto del Negev, con conseguenze facilmente immaginabili.

Ma per Israele le notizie cattive non sono finite. Se il governo Netanyahu è sempre meno popolare tra la sua opinione pubblica per via soprattutto della questione degli ostaggi, ancora peggio vanno le cose sul fronte della opinione pubblica internazionale.

La perdita dell’innocenza

Intendiamoci, i governi dei paesi NATO gli hanno rinnovato solidarietà a ogni occasione e, pur invocando la pace a parole, continuano a rifornire Israele di armi senza limiti. Ma i governi sono una cosa, l’opinione pubblica un’altra. La visione, sia pure spesso censurata e riduttiva, del massacro inarrestabile dei palestinesi e della distruzione sistematica delle loro case di Gaza, le notizie sulle angherie senza fine subite dai palestinesi in Cisgiordania ad opera dei coloni, hanno ribaltato il primo spontaneo moto di simpatia verso Israele che si era verificato nelle prime settimane dopo il 7 ottobre. Man mano che giungevano le notizie della strage di civili a Gaza, uomini donne vecchi e bambini; e arrivavano i reportages raccapriccianti su cecchini israeliani che uccidevano medici, giornalisti e poveri sfollati in cerca di un sacco di farina distribuito dai camion; e le immagini di bambini morti di denutrizione per il lungo blocco degli aiuti decretato dal IDF (l’esercito israeliano) o le foto dell’ospedale di al-Shifa ridotto a un rudere annerito e i terribili sospetti di fosse comuni sotto gli ospedali del resto della Striscia… ebbene, tutto questo lentamente, prima quasi impercettibilmente, ha portato a un mutamento sismico del sentimento della pubblica opinione internazionale che, nell’ultimo mese, si è trasformato in una valanga di risentimento generalizzato per il genocidio in atto a Gaza, una parola ormai sdoganata dal Tribunale Internazionale dell’Aja, dove il governo israeliano è chiamato a rispondere di accuse infamanti.

D’improvviso, e questo credo sia il danno più grave per Israele, l’aureola di popolo

martire è passata dalla testa degli israeliani a quella dei palestinesi. In tutto il mondo Israele ha perso l’innocenza: a partire dalle università europee e americane, è montata una ondata di proteste anti-israeliane e anti-sioniste, mentre cresce il movimento BDS (Boycott, Divestment, Sanctions) contro Israele. Un disastro di immagine, di reputazione, di onorabilità di proporzioni ancora difficilmente valutabili, su cui il popolo d’Israele con l’antica saggezza che lo caratterizza e ancora lo distingue dalla sua classe dirigente, sarà chiamato a riflettere e a lungo. Forse è tutto il progetto sionista, nato a fine '800, che oggi Israele dovrebbe ridiscutere a fondo, se il suo risultato ultimo è la tragedia di Gaza e Cisgiordania; se l’esito è un paese che riceve missili da Libano, Siria, Irak, dalla Striscia e persino da Yemen e Iran; se nelle università e sui social di mezzo mondo i giovani parlano apertamente di “nazi-sionismo”. Oggi in Israele, ed è un buon segno, si stanno consolidando gruppi anti-sionisti e pacifisti; ma assai più forti e tracotanti sono quelli guerrafondai, con un piede nel governo, che in un delirio di onnipotenza inneggiano alla distruzione, in sequenza, di Hamas, Hezbollah e Iran…

Basterà la caduta del governo Netanyahu a mettere in soffitta questi piani dissennati? C’è da dubitarne.

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