Una tomba per due
Palestina/Israele: una guerra senza “buoni” dove la politica giace sfigurata da sentimenti di rabbia e da sogni di vendetta. Da “Una Città”, mensile di Forlì.
Una citazione attribuita a Confucio diceche chi cerca vendetta dovrebbe scavare due tombe, una delle quali destinata a se stesso. Ciò che sta alla base della guerra tra Israele e Palestina sembrerebbe confermare questo adagio.
Gli intellettuali non dovrebbero passare il tempo a tifare per l’una o per l’altra parte, cosa che invece sembra essere diventata la norma; piuttosto, dovrebbero dedicare la propria saggezza a meglio illustrare i costi di una simile rabbia e sete di vendetta, magari avanzando proposte, fossero anche speculazioni, volte a evitare un’escalation e un dilagare del conflitto nella regione.
1.200 israeliani sono morti negli attacchi scatenati da Hamas il 7 ottobre, e oltre 240 persone sono state prese in ostaggio. Ma il ricordo di questi fatti va rapidamente svanendo. L’opinione pubblica mondiale ora si sta concentrando sui morti e i feriti di Gaza, sulle bombe sganciate da Israele, sugli edifici distrutti, e sul disastro umanitario di oltre un milione di sfollati. Non c’è nulla che possa giustificare tutto questo. Gli atti di ritorsione sproporzionati contravvengono le premesse basilari del diritto internazionale e finiranno per collocare Israele in quella tradizione di omicidi di massa ben simboleggiata nel “Guernica” di Picasso del 1937.
Il presidente Usa Joe Biden ha definito l’occupazione israeliana di Gaza “un grosso errore”. Annettere Gaza, governarla o insediarvi un governo fantoccio non farà altro che aggravare questo errore. È presumibile che i piani di Israele prevedano di prendere il controllo di Gaza per qualche mese, per liberare gli ostaggi e spazzare via Hamas. Ma dopo? Cosa succederà?
Al momento, neppure Israele sa con esattezza cosa vuole. Anche l’invasione ha poche chance di riuscire a liberare gli ostaggi, cosa per cui sarà necessario operare una trattativa con Hamas.
Cos’è Hamas
Questa organizzazione, che ha le proprie infrastrutture e le proprie radici saldamente integrate nella comunità di Gaza, non è una setta come potevano essere al-Qaeda o l’Isis, ma piuttosto un movimento fattosi regime che controlla un apparato politico-militare; è pertanto probabile che risorgerà ancora una volta, persino dopo i più feroci tentativi di estirparla.
Hamas governa Gaza con il pugno di ferro e credere che i suoi interessi, che sono quelli della Jihad islamica, coincidano con quelli del popolo a essa assoggettata, è un errore da principianti. Organizzazioni simili perseguono sempre i propri interessi e per raggiungerli sono ogni volta disposte a subire danni collaterali. Da tempo Hamas conduce una spietata guerra civile contro Fatah, la fazione moderata e corrotta che controlla la Cisgiordania.
Questo sanguinoso conflitto contribuisce a ridurre le speranze di più ampie trattative di pace, se non altro impedendo al popolo palestinese di parlare con un’unica voce, e togliendo a Israele la possibilità di avere una controparte unica con cui negoziare.
Peraltro, Hamas non ha alcun piano significativo per governare la Palestina, né in termini della soluzione a due stati né di quella a uno stato singolo. È ostile a una soluzione a due stati, perché in un solo stato palestinese la sua influenza sarebbe inferiore a quella di Fatah e, al contempo, è consapevole che gli ebrei israeliani non accetteranno mai con le buone di diventare minoranza in un vero stato bi-nazionale; Hamas, di fatto, giace in un limbo politico. Questo può spiegare il suo folle oscillare tra obiettivi secolari e teocratici, tra la moderazione e la violenza, tra i proclami democratici e la condotta autoritaria.
Né Israele né tanto meno Hamas hanno chiari gli obiettivi di questa guerra, ed è per questo che sarebbe importante raggiungere un cessate-il-fuoco.
Tutto si basa su questo. Ora che le vittime gazane vanno aumentando di numero, e mentre i media internazionali cominciano a cambiare l’oggetto della propria simpatia, lo stesso accadrà per l’opinione pubblica globale. Andando avanti così, Israele dilapiderà l’autorevolezza morale che le derivava dall’aver subìto la barbara aggressione del 7 ottobre ma, ciò che è peggio, il sostegno crescente ad Hamas non farà che comportare una sorta di legittimazione per la Jihad islamica, i cui obiettivi sono evidenti. Dal momento in cui la Jihad islamica si scisse dai Fratelli musulmani, nel 1979, e Hamas emerse dall’Intifada palestinese del 1987, queste hanno sempre sabotato ogni iniziativa che portasse verso una pace nella regione, inclusi gli Accordi di Abramo e le aperture alla pace offerte dall’Arabia Saudita.
Ad ogni modo, l’egoistico e irridente atteggiamento di Hamas verso i gazani era già evidente nella pretesa che i suoi cittadini stessero rintanati a nord, impotenti, a subire i bombardamenti strategici di Israele. In altre parole, Hamas ha imposto che i suoi sudditi gazani morissero “in nome della causa” - o, per meglio dire, in nome di Hamas - piuttosto che dare retta agli avvertimenti di Israele e permettere loro di cercare una relativa sicurezza a sud.
L’ultima volta che un’organizzazione ha imposto un simile suicidio di massa al proprio popolo, per quel che posso ricordare, eravamo negli ultimi giorni del regime hitleriano. Oltretutto, non è esclusa l’ipotesi che il conflitto si allarghi nella regione; Iran ed Hezbollah sono da sempre fedeli alleati di Hamas, cosa che ha senso, se si pensa al fatto che sono in diretta competizione con l’Arabia Saudita per l’egemonia nel Medio Oriente, o alle tensioni inter-religiose tra sciiti e sunniti e alle delicate tensioni con gli Stati Uniti.
Con il sostegno dell’Iran e dei suoi 150.000 missili, Hezbollah minaccia di entrare in guerra e creare un secondo fronte. Gli alleati occidentali, se vogliono evitare un cataclisma nella zona, dovranno usare tanto la carota quanto il bastone per persuadere le forze che valutano un intervento a perseguire la via della prudenza.
Ma ora che Israele si appresta a diventare sempre più il paria del mondo, la sua testardaggine si rafforzerà.
Le paure di Israele
I suoi timori sul rischio per la propria esistenza sono reali. Memori dell’Olocausto, che abbiano o meno ragione, i cittadini israeliani sono convinti che sia in atto una vera e propria ondata di antisemitismo, che a loro si applichi un doppio standard e che la storia mostri come ogni loro alleato si sia rivelato inaffidabile; pertanto, il loro Stato è legittimato a perseguire i propri obiettivi senza riguardo alcuno per l’opinione pubblica globale. Per il suo stesso bene, tuttavia, questa rabbia non dovrebbe trasformare Israele in un giustiziere intento a infliggere punizioni collettive ai gazani, ignorando la distinzione tra civili e combattenti.
Su Gaza ora incombe, come una spada di Damocle, il genocidio. Ma ci sono bagliori di speranza. Sotto la pressione dell’amministrazione Biden, che sta preparando aiuti militari del valore di 14,3 miliardi di dollari per consolidare le difese di Israele, quest’ultima ha concesso l’invio di aiuti umanitari, cibo, acqua e carburante a Gaza.
La creazione di un fondo internazionale di aiuti per ricostruire Gaza dovrebbe diventare una priorità dell’agenda internazionale, e i media globali dovrebbero aiutare a smascherare e additare le nazioni che non vi contribuiranno. Gli alleati occidentali dovrebbero anche valutare l’ipotesi di implementare un massiccio ponte aereo per Gaza, non dissimile da quello che permise di superare il blocco da parte della Germania Est su Berlino Ovest nel 1948. L’Egitto, e forse anche la Giordania, che nel “Settembre Nero” del ’70-71 avevano patito una dolorosa guerra civile tra i propri cittadini e i rifugiati palestinesi, dovrebbero anch’essi ricevere incentivi per costruire corridoi umanitari e campi profughi destinati ai palestinesi.
Le ferite inferte dai genocidi in passato non ci permettono oggi di ignorare la necessità di dotarci di regole civili. Alle vittime non è permesso tutto, né essere critici ci impedisce di esprimere solidarietà.
In questa guerra non ci sono santi: la politica giace sfigurata dai sentimenti rabbiosi e dai sogni di vendetta, ed è la ragione stessa a trovarsi sotto assedio. È questo che rende l’attuale conflitto tanto orribile e difficile da risolvere. Le legittime rivendicazioni di una parte sono negate dalle vittime dell’altra parte, eppure le rispettive storie avrebbero dovuto insegnare qualcosa a entrambi.
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Stephen Eric Bronner è un politologo e filosofo americano, professore di scienze politiche del Board of Governors presso la Rutgers University di New Brunswick (New Jersey), ed è direttore delle relazioni globali per il Center for the Study of Genocide and Human Rights.