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Quando mio figlio…

Nascere e crescere nel paese dell'apartheid e poi emigrare in Israele, impegnarsi contro l’occupazione, fino a quando il figlio viene ucciso da un cecchino palestinese; lo smarrimento, poi l’incontro con le mamme palestinesi in lutto e con Parents Circle. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Robi Damelin. A cura di Barbara Bertoncin e Stefano Ignone.

Ho aderito al Parents Circle quando mio figlio è stato ucciso per mano di un cecchino palestinese. Sono stata contattata da loro, che mi avevano sentito parlare a una manifestazione contro l’occupazione. Così mi hanno invitata per un weekend a Gerusalemme, dove ho incontrato famiglie palestinesi e israeliane che avevano in comune l’aver perso un parente. Quando ho visto quelle mamme palestinesi, ho capito che provavamo lo stesso dolore e che assieme potevamo essere una forza a favore della riconciliazione. In capo a tre mesi, ho lasciato il mio ufficio e ho cominciato a viaggiare in giro per il mondo con i partner palestinesi, capendo che il nostro è un messaggio internazionale, che non vale solo per israeliani e palestinesi. Se noi, che abbiamo pagato un prezzo tanto grande, siamo in grado di parlare con un’unica voce di riconciliazione, possiamo rappresentare un esempio anche per altri. Questo è l’impegno che mi sono presa dopo la morte di mio figlio.

Una notte ho sentito bussare alla porta. Quando ho aperto mi sono vista davanti tre soldati; ho sbattuto loro la porta in faccia, non potevo ricevere altre brutte notizie. Ma loro hanno continuato a bussare, così alla fine gli ho aperto; mi volevano comunicare che avevano trovato il palestinese responsabile della morte di mio figlio David. Lì le cose sono diventate difficili, perché da quel momento c’era una faccia che potevo associare a quell’assassinio.

Ho iniziato a chiedermi: ma tutte le cose di cui parlo, la riconciliazione, la nonviolenza, sono cose che dico con onestà? Mi ci sono voluti alcuni mesi, in cui mi sono interrogata se avessi ancora l’integrità morale per continuare a svolgere questo lavoro.

Alla fine ho scritto una lettera alla famiglia del cecchino, raccontando della nostra organizzazione, di noi palestinesi e israeliani che abbiamo perduto un parente stretto nel conflitto, e del fatto che siamo convinti che l’obiettivo di lungo termine sia di creare un ambiente favorevole per un futuro accordo di pace. Il lavoro che abbiamo fatto e continuiamo a svolgere come Parents Circle è volto appunto a creare le condizioni per un processo di riconciliazione.

Nella lettera ho parlato anche di David. Ho detto loro che era uno studente all’Università di Tel Aviv, che stava studiando per conseguire un master in filosofia dell’educazione, che faceva parte del movimento pacifista e non voleva svolgere il servizio militare nei territori occupati.

Molti genitori – ho scritto - muoiono insieme ai figli. Altri intitolano loro dei monumenti, delle biblioteche, io non sapevo cosa fare. Così ho deciso che avrei dedicato la mia vita a fare educazione alla pace, perché David era così e quella sarebbe stata la mia maniera per commemorarlo.

Sempre nella lettera ai genitori di quel cecchino, il cui nome è Tha'ir Kayid Hammad, avevo detto loro che ritenevo dovessimo incontrarci. Due palestinesi hanno poi consegnato la mia missiva. Mi dicevano: “Ah, se tutti sottoscrivessero questa lettera, sarebbe il segno che possiamo ottenere la pace”.

Ci sono voluti tre anni per ricevere una risposta, direttamente dal cecchino, il quale mi ha scritto che ero pazza, che avrei dovuto stare alla larga dalla sua famiglia, e che lui già aveva ucciso dieci persone per la causa della Palestina libera. Io nel frattempo avevo saputo che da bambino aveva assistito all’omicidio brutale di suo zio per mano dell’esercito israeliano e aveva perso altri due zii durante la seconda Intifada. Per cui ho pensato che per quello era caduto nella spirale della violenza, che forse quelle morti erano legate al suo bisogno di vendicarsi.

I coloni fanno quello che gli pare

Dopo il 7 ottobre il Paese è cambiato. Soprattutto gli uomini, e in particolare i soldati, vivono un forte senso di umiliazione, perché è la prima volta che Hamas contrattacca e, sotto vari punti di vista, vince. La vita di ciascuno, in Israele, è interconnessa con quella degli altri, siamo un Paese così piccolo che tutti conosciamo qualcuno che è rimasto ucciso, ferito o rapito il 7 ottobre. C’è così tanta rabbia, paura, dolore in tutti. E tutti vorrebbero una soluzione istantanea.

E invece il conflitto si sta propagando negli altri paesi creando sempre più antisemitismo e islamofobia. Tutte cose che fanno paura. Nei miei viaggi negli Stati Uniti e a Londra ho percepito tutto questo e fenomeni analoghi si registrano in Europa, nei campus, nelle scuole. Sembra che le persone non riescano a distinguere un ragazzo ebreo che studia medicina alla Georgetown University dal governo israeliano.

Tra l'altro sembra che tutti si siano dimenticati della Cisgiordania, che è sotto coprifuoco dall’8 ottobre. Questo significa che migliaia di uomini non possono più venire in Israele a lavorare, un autentico disastro, perché queste persone da ottobre non hanno portato a casa un soldo. Ciò a sua volta produce un incremento della violenza domestica, cosa che succede sempre in periodo di guerra. Pensiamo alle donne intrappolate a casa con i figli, perché in Cisgiordania nessuno di questi bambini va più a scuola. Non c’è libertà di movimento e i coloni fanno quello che gli pare senza dover render conto a nessuno, perfino incoraggiati da alcuni parlamentari e da almeno un ministro. La Cisgiordania è una pentola a pressione che può scoppiare in qualsiasi momento. Se non si interviene, tutto questo ci condurrà a qualcosa di ancora più terribile.

Per quanto riguarda noi di Parents Circle, è quasi un miracolo che riusciamo ancora a lavorare. Ma è difficile lavorare insieme, perché ognuno guarda i propri media. Guardare Al Jazeera o i notiziari israeliani è come vivere in universi paralleli. Devi continuamente diffidare, chiederti chi sta dicendo la verità, quali notizie sono false, cosa è vero... Però andiamo avanti. In questo momento gran parte del nostro lavoro consiste nell’andare a far visita alle famiglie che hanno subìto un lutto. È una cosa penosa.

Prossimamente incontreremo alcune delle famiglie che hanno avuto dei lutti il 7 ottobre. Maoz Inon è tra questi: i suoi genitori sono stati uccisi nel corso dell’attacco di Hamas, e lui ha subito cominciato a impegnarsi per porre fine al bagno di sangue. È una persona fantastica. Lui e tutta la sua famiglia, così come la famiglia di Vivian Silver, una donna incredibile, che si prodigava affinché i bambini di Gaza fossero curati negli ospedali israeliani, li accompagnava e quando stavano meglio li riportava a Gaza. Aveva fondato “Women Wage Peace”, aveva lavorato con i beduini… All’inizio pensavamo fosse tra i rapiti e che una volta tornata sarebbe stata una delle prime a riprendere un discorso di pace. Ma poi si è scoperto che era morta tra le fiamme dopo aver cercato di nascondersi all’interno di un armadio.

Io cerco di capire come sia stato possibile tutto questo. Se penso a un giovane cresciuto a Gaza, che ogni due anni della sua vita ha subìto una guerra, senza rifugi, senza posti dove andare a nascondersi, senza libertà di movimento. Uno come lui non può andarsene in Egitto, né attraversare Israele. In Egitto ci vai se hai tanti soldi.

Insomma, questi ragazzini sono bloccati lì senza speranza. Che tipo di adulti possono diventare? Di quali atti di barbarie possono rendersi capaci? Cosa sei disposto a fare se raggiungi il culmine della disperazione? Poi però penso ai bambini di quei kibbutz, che si sentivano al sicuro, invincibili. Anche se piovevano razzi, avevano un bunker in cui rifugiarsi, pensavano che se la sarebbero cavata comunque. E poi è arrivato il 7 ottobre…

E che dire dei bambini di Sderot, di Ashkelon, di Ashdod, città nei dintorni di Gaza, che hanno subìto le piogge di razzi da così tanto tempo? Con quale paura sono stati costretti a vivere?

Il lavoro nelle scuole

Come Parents Circle non siamo affiliati a nessun partito. Siamo un’organizzazione trasversale e oggi comunque non esiste alcun partito israelo-palestinese, anche se mi piacerebbe che ci fosse. Ma da quando è scoppiata l’ultima guerra, delle settecento famiglie facenti parte di Parents Circle solo tre hanno lasciato l’associazione. Credo sia un risultato incredibile.

Noi lavoravamo con studenti e insegnanti da vent’anni, portando un israeliano e un palestinese nelle classi dei diciassettenni, ragazzini che avevano così l’occasione, per la prima volta nella loro vita, di incontrare un palestinese. Da questi incontri potevano ascoltare la storia di un palestinese, vederlo nella sua umanità, confrontarsi col suo senso di perdita e conoscere una realtà nonviolenta impegnata nella costruzione delle condizioni necessarie a un processo di riconciliazione. In un’atmosfera sicura, potevano anche porre delle domande a un palestinese che si rendeva disponibile a interloquire con loro. Credo fossimo l’unica ong israelo-palestinese ammessa nelle scuole. Itamar Ben Gvir, leader dei coloni, già prima di diventare ministro aveva fatto di tutto per ostacolarci. Poi, una volta diventato ministro, insieme al ministro dell’educazione, ha fatto in modo di bandirci dalle scuole. Molti presidi ci hanno detto che non avrebbero rispettato l’ingiunzione del ministero e che avrebbero continuato a invitarci perché riconoscono che il nostro progetto è prezioso; è l’unico che presenta ai ragazzini una visione alternativa. Abbiamo cominciato a organizzare gli incontri fuori dalle scuole. Inoltre stiamo facendo i passi necessari per impugnare quel divieto davanti alla Corte suprema.

Ogni anno celebriamo il “Joint Memorial Day”, una sorta di Giornata della Memoria congiunta in cui commemoriamo i morti di entrambe le parti, a cui partecipano anche i palestinesi. Negli ultimi anni il governo ha provato a impedircelo. Ogni volta ci siamo rivolti alla Corte suprema e ogni volta abbiamo vinto noi. Hanno anche provato a fermare il campo estivo che facciamo da anni e a cui partecipano cinquanta tra ragazzini palestinesi e israeliani tra i 14 e i 18 anni. Perfino questa nostra attività è finita al centro di un dibattito parlamentare. Alla fine sono state le ambasciate americana e tedesca a intervenire, così siamo riusciti a fare il nostro campo estivo.

Dopo l’ultimo campo, i 50 ragazzini che avevano partecipato sono andati nell’edificio Onu di Gerusalemme per firmare un documento sulla nonviolenza e la riconciliazione. Ma tre settimane dopo è arrivata la guerra, per cui si sono arrabbiati gli uni con gli altri. Sono ragazzini, non puoi pensare che dei quattordicenni... Non ci sono mezze misure nel loro modo di percepire le cose. Ci sono voluti dei mesi per riportarli al punto di volersi incontrare di nuovo. C’è molto lavoro di “riparazione” da fare, ora.

* * *

Robi Damelin, nata a Johannesburg, è immigrata in Israele nel 1967. Prima di allora era impegnata nel movimento anti-apartheid. Nel marzo del 2002, suo figlio David, 28 anni, è stato ucciso da un cecchino mentre prestava servizio militare come riserva.

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