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Cosa succede nell’Iran in subbuglio?

“Noi combattiamo, noi moriamo, ma l’Iran ci riprendiamo!”

L’Iran è scosso, da più di un mese e mezzo, da manifestazioni diffuse in tutto il paese, nelle città e nei villaggi, che mostrano lo sdegno popolare per l’assassinio di Mahsa Amini, la giovanissima donna iraniana di origini kurde arrestata dalla polizia perché “malvelata” e deceduta dopo tre giorni, verosimilmente per le percosse subite. L’episodio rischia di essere per il regime degli ayatollah quello che fu nelle lontane primavere arabe il suicidio dell’ambulante tunisino cui la polizia aveva per l’ennesima volta sequestrato la bancarella e le mercanzie con cui il poveretto tirava a campare. Insomma rischia di diventare la miccia di un incendio che potrebbe portare con un effetto a valanga alla fine stessa della Repubblica Islamica, fondata da Khomeyni nel lontano 1979. Gli slogan scanditi per le strade da migliaia di donne ormai “svelate” e dai loro compagni sono inequivocabili: “Marg bar diktatur” (Morte al dittatore); “Jomhurì-ye eslamì? Ne-mikhàhim, ne-mikhàhim!” (Repubblica islamica? Non la vogliamo, non la vogliamo!). Per le strade ormai sempre più donne e ragazze girano senza velo, né la polizia osa più intervenire, almeno per il momento, evidentemente avendo avuto l’ordine di non gettare ulteriore benzina sul fuoco. Questo perché il regime sospetta, probabilmente a ragione dalla sua prospettiva, che su queste proteste facciano affidamento i tradizionali nemici dell’Iran, ossia Israele e Arabia Saudita in primis (peraltro non proprio due campioni dei diritti civili…) e soprattutto gli Stati Uniti.

Non è un caso che a Vienna, dopo un inizio promettente che aveva diffuso un certo ottimismo, si siano in sostanza arenati a fine estate i colloqui per ripristinare l’accordo nucleare tra Iran, Stati Uniti e un gruppo di stati terzi (Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna), che avrebbero dovuto portare alla soppressione delle pesantissime sanzioni commerciali e bancarie contro l’Iran. Ma l’amministrazione americana, forse avendo sentore dei tumulti che stavano per scoppiare in Iran, si è d’un tratto irrigidita per non fare un favore al suo governo regalandogli un accordo di cui la gente ha estremo bisogno per togliersi dal collo il cappio delle sanzioni, che ha portato a una disastrosa svalutazione del riyal e a un aumento di prezzi esorbitante, ulteriore causa di malcontento verso il regime.

L’avvento al potere in primavera del nuovo presidente Ebrahim Raisì, un “duro” dell’ala più conservatrice, ha segnato un giro di vite sui costumi della società iraniana. Sotto la precedente presidenza del moderato Ruhanì si era assistito a un certo ammorbidimento delle regole islamiche per cui il velo, pur obbligatorio per le donne che escono di casa, veniva portato con molta libertà e persino civetteria, per esempio arretrato sulla testa fino a mostrare gran parte della chioma, o addirittura tolto in auto. Il nuovo presidente Raisì, con una mossa avventata, ha istituito la gasht-e ershàd (alla lettera: ronda della retta guida), una sorta di polizia morale che ferma per strada le donne “malvelate” e le porta in commissariato dove se va bene e si scusano se la cavano magari con una contravvenzione. A Mahsa (bellissimo nome persiano che significa all’incirca “lunare/simile alla luna”) evidentemente le cose sono andate diversamente e, verosimilmente, a una risposta giudicata irrispettosa o a un atteggiamento di sfida, è seguito il pestaggio e tutto il resto.

Ora il regime è di fronte a scelte difficili. Complicate anche dal fatto che, nel 40° giorno dalla morte, la ritualità sciita prevede che amici e parenti si riuniscano per commemorare il defunto, per cui sui social è corso l’invito a farne l’occasione per una nuova massiccia protesta di massa per le strade della capitale e delle altre città iraniane, cosa puntualmente avvenuta il 26 ottobre. Alle proteste delle ultime settimane le autorità iraniane hanno risposto in modo violento ma molto selettivo, usando cecchini che sparavano su quelli che venivano individuati come capi della rivolta, e poi procedendo ad arresti mirati e intimidazioni. Qualcosa di simile ma su più larga scala accadde all’epoca della caduta dello scià Rezà Pahlavì alla fine degli anni 70, allorché il sovrano ordinò a un certo punto di sparare sulla folla con le mitragliatrici, uccidendo migliaia di dimostranti ma peggiorando la situazione. Quaranta giorni dopo il massacro dei dimostranti, folle oceaniche si radunarono nuovamente nelle strade e lo scià finalmente comprese che aveva perso la partita.

Oggi il regime degli ayatollah corre un rischio analogo: sparare sulla folla indiscriminatamente significherebbe comportarsi come il morente regime dello scià, significherebbe una totale e inemendabile autosqualifica sul piano morale. Tra i giovani e le giovani iraniane che protestano, all’indirizzo dei basijì (la milizia del regime) e dei funzionari di polizia vola spesso l’epiteto sprezzante: “Bisharaf!” (lett. Svergognàti /privi di ogni senso dell’onore).

Non vi sono dubbi però che gli oltre quarant’anni di potere incontrastato hanno cementato un blocco di chierici, di militari (i famosi Pasdaran o Guardiani della Rivoluzione) e loro supporters che non ha nessuna voglia di cedere alla piazza, anche se probabilmente sta avanzando tra loro la consapevolezza che, per dirla con Tomasi di Lampedusa “bisogna cambiare tutto perché tutto resti come prima”.

Naturalmente c’è un punto irrinunciabile per questo blocco di potere: il carattere islamico dello stato che non a caso si chiama “Repubblica Islamica d’Iran”. Ma appunto cos’è che ne fa una repubblica islamica, forse il velo? Su questa questione c’è stato in Iran un lungo e acceso dibattito, nelle strade, sui media e nelle rarefatte atmosfere del seminario teologico di Qom, in cui i duri e puri hanno fatto del velo delle donne la loro bandiera, come a dire: se cade quell’obbligo, cosa chiederà ancora la piazza? E alla fine cosa resterà della rivoluzione di Khomeyni, cosa resterà della repubblica islamica? Ma fortunatamente si è fatto strada anche un partito diverso che sottolinea che l’Islam non è il velo, né ha senso nella società contemporanea imporre obblighi controproducenti, che allontanano piuttosto che avvicinare la gente alla religione. È un punto cruciale: è sotto gli occhi di tutti in Iran la crescente disaffezione soprattutto tra i giovani (il 70%della popolazione ha meno di 40 anni) verso i valori religiosi nonché l’abbandono delle pratiche religiose.

Come si è detto, in questi frangenti sempre più donne girano senza velo in Iran, e la “polizia morale” in sostanza si astiene dall’intervenire. Il regime, in grave difficoltà, non transige sui principi, ma nella pratica chiude un occhio e le donne cominciano a pensare che un esito positivo la loro battaglia lo ha già dato. Potrebbe essere una illusione, che una prossima violenta repressione potrebbe far cadere; ma potrebbe anche trattarsi di un tacito compromesso con cui il regime spera di cavarsela e di far passare l’ondata delle proteste. Se però questo non accadesse, se la piazza delle donne “svelate” prendesse il sopravvento e si creasse una situazione controrivoluzionaria, da gran ribaltone, probabilmente il regime userebbe qualche carta di riserva. In teoria ne avrebbe due, la prima: richiamare al potere l’ala riformista che fa capo agli ex-presidenti Khatamì (e in misura minore a Ruhanì) e ai due leader democratici della cosiddetta “Onda Verde” del 2009, Karrubì e Musavì, per lungo tempo agli arresti domiciliari. Ma è una soluzione probabilmente tardiva, che segnalerebbe la debolezza del regime e forse non placherebbe neppure la piazza, ormai furibonda con tutti i religiosi e i rappresentanti della repubblica islamica.

La seconda: l’instaurazione della legge marziale e la presa del potere da parte dei Pasdaran, i Guardiani della Rivoluzione, con tutto quello che ne seguirà: forse un momentaneo passo indietro della corporazione religiosa che si affiderebbe in sostanza ai militari del corpo d’elite dell’esercito e la sostituzione del vecchio e malato ayatollah Khamene’ì, la Guida (Rahbar) della Repubblica Islamica, che le folle dei dimostranti additano in ogni piazza come il dittatore. Si tratta di un esito tutt’altro che improbabile, soprattutto in vista di tutelare non solo il lascito della rivoluzione di Khomeyni, ma anche l'integrità territoriale del Paese. In effetti il timore più grande degli iraniani, di qualsiasi opinione, è che il Paese cada in una guerra civile in cui inevitabilmente rialzerebbero la testa movimenti indipendentisti nelle aree kurde, baluci, arabe, e forse persino azere. L’Iran è un ex-impero, e tuttora la sua popolazione per il 35/40% è di etnia non-persiana. Superfluo aggiungere che dietro queste quattro etnie, finora integrate abbastanza bene nella società iraniana, secondo il regime “soffiano” potenze straniere: il rischio che a una guerra civile tra sostenitori pro e anti-regime si accompagni anche una devastante guerriglia interna e la frammentazione del paese su basi etniche non è piccolo. L’Iran di oggi guarda terrorizzato a quanto avvenuto nel vicino Irak, dopo la sciagurata invasione americana, o nella Siria, due paesi dilaniati dalla guerra delle opposte fazioni e in balia di potenze straniere. In questo senso gli iraniani dell’interno, di ogni colore, sono sanamente nazionalisti; diverso è il caso degli iraniani della diaspora, in gran parte insediatasi negli USA, in cui è forte la tendenza semplificatoria e a mio avviso fuorviante a vedere in una controrivoluzione violenta o peggio nell’invasione del Paese da parte di potenze straniere un male minore e l’inizio magari della risoluzione dei problemi. In questi ambienti si coltiva l’idea nostalgica di rimettere sul trono il figlio in esilio dello scià, che vive negli Stati Uniti, magari contando su una sollevazione dell’ex esercito imperiale. Si tratta di soluzioni molto diverse e con diversissime conseguenze sul piano geopolitico: una presa del potere dei Guardiani della Rivoluzione non comporterebbe mutamenti sostanziali nel quadro delle alleanze internazionali dell’Iran, oggi molto vicino a Russia e Cina; al contrario, un ritorno, peraltro dato dai più come improbabile, del figlio dello scià comporterebbe un cataclisma nella regione, col ritorno dell’Iran nel campo filoatlantico e la rottura dell’asse sciita Iran-Irak-Siria-Libano. In ogni caso, un eventuale intervento in questa fase di potenze straniere complicherebbe la vita al movimento delle donne iraniane perché regalerebbe al regime il pretesto perfetto per schiacciare senza remore una protesta politico-culturale spontanea. Una protesta che si espande a macchia d’olio e certo sta avvenendo anche come esito del malcontento e del disagio causato dalle sanzioni, che colpiscono soprattutto i ceti meno benestanti della popolazione; ma è una protesta che nasce in primis da una nuova generazione di donne e uomini nati dopo il 1979 che sognano un paese diverso, un altro Iran.

Insomma, il movimento delle donne iraniane e il loro slogan “Zan, zendeghì, azadì!” (Donna, vita, libertà!) sta davvero scuotendo dalle fondamenta un regime che si credeva granitico, ma che sarebbe errato credere non abbia le risorse per reagire.

Saprà la Repubblica Islamica mostrare quella duttilità che la gravissima situazione richiede o si avviterà in una spirale di repressione sempre più violenta e intransigente? L’auspicio è che le forze in campo possano trovare alla fine un compromesso ragionevole che eviti scenari da incubo e sappiano esplorare una via d’uscita che spiani la strada alla costruzione di un nuovo Iran in cui le donne, con o senza la repubblica islamica, possano finalmente vedere garantiti i loro diritti.