La svolta dell’Iran di Ruhani
Come, in maniera sorprendente, la Repubblica Islamica sta evolvendosi.
Sono tornato da poco dall’Iran dopo un giro di conferenze presso università e centri culturali fra Teheran e Shiraz. L’ultima volta c’ero stato nel 2007 e non ho potuto fare a meno di osservare un grande cambiamento di clima e di costume. Il velo, per esempio, sta per così dire svanendo. Non che le donne non lo indossino, ma ormai è chiaro che ognuna lo indossa a modo suo. Ci sono le donne più religiose che continuano a tenere il loro nero chador sulla testa senza far sfuggire una sola ciocca di capelli; ma a Teheran sono innumerevoli le donne di ogni età che ormai hanno solo un grazioso fazzoletto colorato portato con civetteria e molto arretrato sopra la testa, così da scoprire completamente il collo, le orecchie e quasi tutta la capigliatura.
Queste sino all’altro ieri erano bollate come “le mal-velate”, che facilmente potevano venire fermate dai guardiani della rivoluzione e portate in caserma per interrogatori spiacevoli e multe salate. Ora lo stesso governo di Ruhani ha emanato una direttiva agli organi di polizia con l’espressa raccomandazione a “lasciare in pace le donne”. Teheran oggi brulica di eleganti locali serali, frequentati da giovani e meno giovani, che sono aperti solo fino a mezzanotte per il “decoro islamico”, ma in cui liberamente s’ incontrano uomini e donne e in cui, vera novità, capita di essere serviti al tavolo da spigliate sorridenti ragazze (professione ritenuta disdicevole fino a non molto tempo fa per una donna).
Certo la elezione del religioso liberale Ruhani alla presidenza della Repubblica Islamica, al posto del “laico” conservatore Ahmadinejad, oggi praticamente scomparso dalla scena politica, avrà avuto il suo peso nel determinare questo mutamento di costume, che peraltro, occorre rimarcarlo, interessa soprattutto la capitale Teheran - una megalopoli di 14 milioni di abitanti - più che le periferie e la provincia. Ma colloqui e conversazioni che ho avuto modo di fare con intellettuali, manager e studenti, con gente della strada e taxisti, mi hanno restituito un’immagine più complessa e sfaccettata della situazione dell’Iran di questo ottobre 2013. Il paese ha vissuto come una liberazione la fine dell’era di Ahmadinejad, a cui oggi tutti accollano la colpa di avere danneggiato gravemente l’immagine e soprattutto le finanze del Paese, stremato dall’embargo decretato dai paesi occidentali. C’è ovunque un’ansia di voltar pagina, di chiudere con questo periodo buio in cui il Paese si è sentito messo sul banco dei “brutti e cattivi”. Uno studente incontrato a Shiraz presso il mausoleo del poeta Hafez - il Petrarca dei persiani, letto in traduzione da un Goethe entusiasta - visitato ogni giorno da centinaia di pellegrini che vengono a deporre fiori e a declamare le sue poesie, mi diceva: “Ma com’è possibile che sulla vostra stampa, sulle vostre televisioni passi il messaggio di un Iran barbaro e aggressivo, pericoloso, quando in questo paese non c’è giovane che non ami la poesia di Hafez, non c’è casa che non abbia il suo Canzoniere?”.
Questo argomento della poesia potrà sembrare curioso, ma è una chiave importante per capire il paese. Il dott. Mohammadkhani, direttore di “Shahre Ketab” (Book City), la più grande catena di librerie, mi diceva che in questo paese si vendono ogni anno circa un milione e mezzo di copie del solo Canzoniere di Hafez. E gli altri poeti della grande tradizione classica - da Ferdowsi, autore del “Libro dei Re” (l’epopea nazionale degli Irani) al più sapienziale Sa’di di Shiraz, dal grande poeta mistico Rumi, fino al celebre cantore del vino Omar Khayyam - conoscono edizioni su edizioni, ristampe su ristampe, veri long sellers amati e letti non solo dagli studenti universitari di lettere, ma anche e spessissimo da gente comune, che cita in continuazione versi dei poeti a mo’ di proverbi. O - come mi è capitato più di una volta - declama in originale allo sbalordito turista di passaggio (e poi tenta perfino di commentare in inglese) i più bei sonetti della tradizione classica. C’è persino l’uso, quasi un gioco di società, di aprire a caso il Canzoniere di Hafez e gettare l’occhio sul primo verso che capita per trarne auspici o trovare una risposta - che mi assicurano è sempre pertinente - a una propria ansiosa domanda. I cantanti tradizionali poi, amatissimi dalla gente di ogni ceto, mettono in musica soprattutto i versi dei poeti classici.
Ho spesso sentito iraniani pormi questa domanda: da voi i giovani amano Dante e Petrarca (sì: me li nominavano espressamente!), li leggono sempre? Non posso descrivere il silenzio imbarazzato che si dipingeva sui loro volti alla mia scontata risposta: no, non li leggono proprio. Che paese è - mi pareva si chiedessero tra sé e sé - quello in cui i giovani non conoscono più i loro più grandi poeti?
Ma altre conversazioni interessanti le ho avute con qualche intellettuale iraniano gironzolando per le vie della capitale o di Shiraz. C’è grande attesa, grande speranza nella rapida evoluzione in senso positivo della situazione politica internazionale. Un paese col 70% della popolazione sotto i 40 anni di età attende solo che venga tolto il tappo delle sanzioni e dell’embargo per riprendere a crescere a tassi cinesi: ne ha tutte le energie e le potenzialità. La gioventù è molto colta, e non solo perché legge i poeti classici: in Iran l’uso di Internet è generalizzato, l’élite tecnocratica ha studiato in America o in Francia, viaggia e conosce le lingue.
Ma sono soprattutto i giudizi sulla situazione interna che mi hanno spesso stupito per la profondità e obiettività dell’analisi. Vi sono almeno due linee interpretative sulla recente apertura. La prima, quella pessimista, dice in sostanza che il regime si è aperto per una mera ragione di sopravvivenza: ha inglobato la fazione pragmatico-liberale del vecchio ex-presidente Rafsanjani, a lungo in disgrazia ed emarginato, perché ha capito che solo lì c’erano energie e risorse adeguate per fronteggiare la crisi economica e internazionale, e i pericoli incombenti (possibile attacco di Israele). Il nuovo presidente Ruhani è politicamente un allievo del vecchio Rafsanjani, che oggi si sta godendo la sua rivincita. Ma, si lascia intendere, se la situazione economica si normalizzasse e le sanzioni sparissero, chi può escludere che l’ala conservatrice e più intollerante del regime (la sua anima nera) non riprenda il sopravvento? La guida suprema, l’ayatollah Khamenei, palesemente appoggia il nuovo presidente e la svolta liberale, dopo avere però sostenuto per anni proprio i conservatori di Ahmadinejad: chi ci dice che non si tratti di una scelta dettata unicamente dall’emergenza fatta da un regime messo alle corde dalle sanzioni? In quest’ottica, mi sono sentito dire persino: meglio che l’embargo non lo tolgano troppo presto!
L’altra linea interpretativa, diciamo quella più ottimista, sostiene che in fondo la Repubblica Islamica ha dimostrato ancora una volta la sua vitalità, la sua capacità di adattarsi alle situazioni e comprendere le sfide poste dall’interno di una società in crescita tumultuosa, che guarda nonostante tutto fiduciosa al suo futuro. La Repubblica Islamica, pur attraverso alti e bassi, secondo questa linea interpretativa ha sempre saputo proteggere il suo bene maggiore: una forte dialettica conservatori-riformatori che si è palesata attraverso l’alternanza di governi più aperti e liberali, come l’attuale o quello dell’illuminato e progressista Khatami, e governi certamente più radicali e ideologici con aspetti di grave intolleranza. Tutto il grande sommovimento della cosiddetta Onda Verde, il movimento democratico di qualche anno fa represso ma non annullato dalla polizia di Ahmadinejad, si è riversato elettoralmente su Ruhani, che gode pure dell’appoggio dell’ex-presidente Khatami, insomma di tutti i progressisti del paese.
Ho chiesto: perché i democratici di Khatami hanno fallito nelle loro riforme, perché l’Onda Verde ha fallito ed è stata duramente repressa, mentre ora Ruhani, che riassume e rappresenta anche queste correnti fortemente progressiste, ora vince a man bassa e governa senza apparente opposizione? La risposta più acuta che mi è stata data è molto semplice e tuttavia rivelatrice: il regime non poteva tollerare una riforma venuta dal basso, sull’onda di manifestazioni di piazza; ma quegli stessi contenuti liberal-democratici ora vengono riproposti con una riforma calata dall’alto, con una scelta, certamente oculata e lungimirante, che permette alla casta dei religiosi di presentarsi come capace di auto-riforma, pronta anzi a pilotare il Paese verso il nuovo. Scelta indubbiamente intelligente, che permetterebbe al potere degli ayatollah di rifarsi una verginità dopo gli anni oscurantisti di Ahmadinejad, e di allargare immensamente la base del consenso. Sì, perché oggi chi torna dall’Iran ha la netta sensazione che sia in corso un’ampia ri-legittimazione della Repubblica Islamica creata dal grande rivoluzionario e nemico dell’ultimo scià, l’ayatollah Khomeini. Non si sente più aria di contestazione in giro, c’è piuttosto la convinzione che l’Iran stia davvero cambiando. La rivoluzione islamica è stata archiviata? No di certo, ma il passato è passato, si è aperta per tutti una pagina nuova.