Il Trentino è ancora solidale?
Che c’entra la cattiveria anti-migranti di Fugatti con il Trentino della solidarietà diffusa? E’ stato uno svarione? Oppure il Trentino lo avevamo idealizzato? Opinioni e dati su un fenomeno grave e imbarazzante.
Le recentissime uscite del Presidente della Giunta provinciale Fugatti in tema di immigrazione, hanno profondamente sconcertato. Ci riferiamo alla dichiarazione di contrarietà all’utilizzo dei profughi, come volontari, nell’assistenza agli anziani nelle case di riposo; e alla rinuncia a un milione di euro stanziati dal Fondo migrazione e integrazione del Ministero dell’Interno per corsi di italiano per stranieri residenti. Due palesi dichiarazioni di guerra all’integrazione: non vogliamo che i profughi, non vogliamo che gli immigrati si integrino, che imparino l’italiano, che aiutino chi si trova in difficoltà. Sono il nemico, noi dobbiamo odiarli. Bene, questo è cattivismo autentico.
“È quella che io chiamo ferocia, ‘ferocia selettiva’” – ci risponde Vincenzo Passerini, bibliotecario, ex assessore provinciale all’Istruzione e presidente del Forum trentino per la Pace, fondatore di riviste e movimenti culturali, nonché presidente di varie realtà che si occupano di accoglienza, di profughi come di senza dimora. Il suo ultimo libro non a caso si intitola “Tempi feroci”.
“Secondo questo sentimento noi continuiamo ad essere positivi con tutti, continuiamo a sentirci buoni, però – come ieri con le leggi razziali – rispetto a una minoranza che la politica dominante ha escluso e demonizzato, noi possiamo essere feroci.”
Ma perché? Quale meccanismo mentale viene a scattare?
“Perchè questi, esattamente come si diceva ieri degli ebrei, non sono esseri umani come gli altri, ‘sono stupratori, ladri, spacciatori, ci portano via il lavoro’. È la stessa operazione fatta con gli ebrei, usurai, parassiti...”.
...fino al medico ebreo che, secondo la propaganda nazista, narcotizza la donna ariana per stuprarla e contaminare la razza?
“Esattamente. E questa diventa una legittimazione della ferocia: questi non-umani possono pure affogare, possiamo far finta di non vederli mentre stanno per morire. All’inizio di agosto un giovane africano salvato in mare ha detto: eravamo in otto, sono passati navi ed elicotteri, nessuno si è fermato, gli altri sette non ce l’hanno fatta”.
Il punto è: questa disumanità, quanto c’entra con la cultura popolare trentina? Caratterizzata, da un’etica della solidarietà, derivante dalle necessità di coesione che impone la vita in montagna. Questo è quanto ci diciamo sempre. Ma come stanno veramente le cose?
“Il tessuto di solidarietà e anche la predisposizione storica all’accoglienza, fondata su un certo modo di organizzare i servizi pubblici, dai Vigili del Fuoco al Soccorso alpino, alla mutualità cooperativa, al volontariato nel mondo cattolico e nella società civile, queste cose ci sono ancora. Però ha agito un inquinamento, leghista a livello nazionale, sovranista a quello internazionale, attraverso messaggi forti passati attraverso i media, dalla tv a Internet, e che travalicano il livello locale. Sono messaggi che ci ricordano quanto Primo Levi scriveva in “Se questo è un uomo” (pubblicato nel ‘46): c’è latente nell’animo umano, da sempre, un sentimento che dice “ogni straniero è mio nemico” e può manifestarsi sporadicamente; ma quando diventa la premessa di un’ideologia e di un programma politico, è l’inizio di una catena alla fine della quale c’è anche la distruzione fisica dello straniero. Un processo che va avanti atto dopo atto, prima l’esclusione da determinati diritti, poi la cacciata, poi fino all’uccisione, che ora si presenta come lasciare che affoghino”.
Prima e dopo la conoscenza
Tutto questo, come ha impattato sul Trentino? Per rispondere, possiamo avvalerci di un’interessante indagine promossa dalla Diocesi di Trento tra 55 Comuni e 38 parrocchie della provincia che hanno avuto sul loro territorio un’esperienza di accoglienza di migranti richiedenti protezione internazionale. “L’indagine evidenzia chiaramente – afferma la Diocesi - un ‘prima’ e un ‘poi’ rispetto all’interrogativo su com’era e come è cambiata l’opinione pubblica nelle rispettive comunità dopo l’esperienza di ospitalità. Se 40 Comuni su 44 (il 90%) rilevavano infatti un’opinione pubblica neutrale o negativa verso i profughi prima del loro arrivo, ben 25 (63% dei 40) passano a una valutazione “più positiva” se non ‘significativamente più positiva’. Discorso analogo per le parrocchie”.
Anche Passerini, che sul tema immigrazione ha tenuto una cinquantina di incontri in tutto il Trentino, conferma l’analisi della Diocesi.
“La gente legge poco, si affida a fonti altre, risulta facilmente influenzabile da una massiccia propaganda che tende a confermare ed estremizzare i pregiudizi. Quando però le persone vengono raggiunte da chi di persona porta dati ed esperienze, in genere cambiano idea. Alla fine dei miei incontri sempre c’è qualcuno che si avvicina e mi dice ‘lei mi ha raccontato delle cose che non avevo mai sentito, e che mi fanno riflettere’. Questo cambiamento è ancora più accentuato quando vengono a contatto con gli stessi profughi. Come è successo anche nei luoghi con clamorosi attentati intimidatori contro i progetti di accoglienza, a Lavarone, Baselga, Soraga, Roncone, o in altri posti dove ci sono state contestazioni molto aspre; con il tempo si è rovesciato l’atteggiamento, lo si è visto in maniera clamorosa a Lavarone (vedi anche “Ciao, Lavarone” su QT del marzo 2019, n.d.r.), dove quando Fugatti ha distrutto quel progetto di accoglienza, quasi tutte le donne avevano trovato un posto di lavoro. Insomma, alla prova dei fatti, come appunto conferma l’inchiesta della Diocesi, l’accoglienza viene giudicata positivamente, addirittura il 65% è favorevole a una permanenza dei rifugiati in loco, e stiamo parlando delle valli, non delle città”.
Però la stessa inchiesta della Diocesi rileva un permanere dei pregiudizi: il 59% degli intervistati sostiene comunque che anche dopo l’esperienza (positiva) dell’accoglienza, nell’immaginario collettivo pregiudizi e paure restano immutati. “Il dato sembra confermare – rileva l’indagine – la difficoltà di incidere in modo significativo a livello culturale: slogan e luoghi comuni paiono forse più incisivi di quanto vissuto nella quotidianità”.
Anche su questo punto concorda l’esperienza di Passerini. “Sì, permane un atteggiamento di riserva ‘questi sono buoni, non sono come gli altri’: è una schizofrenia che ho riscontrato in tutti i posti. A Caderzone dove fa le ferie Salvini l’accoglienza c’è, ma al contempo l’ideologia, la propaganda diffondono l’idea che i casi positivi siano l’eccezione”.
Di qui la ragione dell’intervento di Fugatti contro la presenza dei profughi volontari nelle case di riposo. Il profugo buono deve essere l’assoluta eccezione.
“Fugatti mente spudoratamente quando dice che queste cose le vogliono i trentini. Non ho mai sentito alcun trentino dire ‘non voglio che diano una mano al mio paese’, a non volere i bambini immigrati sull’altalena è stata la consigliera leghista, nessun trentino ha detto che non voglio che gli stranieri abbiano la tessera del bus per andare a lavorare, nessun trentino ha detto che vuole buttare in strada invece che dargli un tetto, come ha fatto Fugatti. I trentini non vogliono lo straniero per strada, nullafacente, ma è il governo che crea queste situazioni, alimenta un razzismo che non è più il sentimento latente ma lo trasforma in una ferocia selettiva. Come ha fatto il fascismo, trasformando il latente, storico antisemitismo in programmata ferocia omicida. Il ruolo della stampa come QT è continuare a contrastare questo progetto ideologico che vuole distruggere ogni progetto di accoglienza; e contrastare il clima su Internet che alimenta il mito dell’invasione. Questo lo si fa con l’informazione; e andando in giro a parlare alla gente, quello che io rimprovero ai politici è che rimangono nelle loro sedi, non li vedo a queste riunioni”.
Poi ci sarebbero le esperienze personali. Mi conceda il lettore questo siparietto, che si ripete varie volte. Quando in un bar c’è qualcuno che fa discorsi xenofobi, m sento in dovere di intervenire: “Di cosa stiamo parlando? La mia colf è ucraina, il sarto bengalese, il calzolaio tunisino, l’idraulico macedone, il signore che pulisce l’ufficio ucraino anch’egli. Al posto di loro non troverei nessun trentino. E allora?” In genere si avvia una discussione pacata, con lo xenofobo che ripiega: “Io ce l’ho con quelli che delinquono, non con quelli che lavorano”.
Commenta Passerini: “Il punto è che occorre trasformare queste esperienze personali, in letture complessiva della realtà. Tutti hanno presente la badante, l’indiano nella stalla, il raccoglitore di frutta: l’ideologia leghista dice che lo straniero buono è l’eccezione, il delinquente è la norma. La realtà è il contrario, il Mohamed che tu conosci è la normalità, l’eccezione sono quelli che delinquono. Bisognerebbe ragionare sui numeri, ci sono 50.000 stranieri in Trentino, 5.000 badanti, 7.000 raccoglitori in Val di Non, il 30% di lavoratori nel turismo, e poi nell’edilizia, nei trasporti, la stragrande maggioranza nelle consegne a domicilio. Senza di loro non andremmo più avanti”.
Il filo nero nella storia del Trentino
L’evoluzione dell’intolleranza in una parte della popolazione. Intervista allo storico Quinto Antonelli
“Parlo dal punto di vista di uno storico – ci dice Quinto Antonelli, studioso della cultura popolare, su cui non solo ha scritto una ventina e più libri, ma ha anche elaborato metodi di ricerca ed analisi “La parola solidarietà non c’è nel movimento cattolico, emerge solo recentemente, sia come termine che come senso. Il movimento cattolico trentino di inizio ‘900 è pervaso da uno spirito di crociata, contro i nemici, socialisti, liberali, framassoni e soprattutto ebrei. L’antisemitismo non appare solo sui giornali cattolici come “Fede e lavoro”, è radicato: quando i soldati trentini vanno in Galizia e lì incontrano gli ebrei ortodossi, con loro si rapportano con fortissimi pregiudizi. Ma questa diffidenza emerge sempre, anche da prigionieri in Russia, dove si comportano con grande e incongruo senso di superiorità rispetto agli altri, che chiamano – guarda caso – ‘africani’.
In Trentino c’è un filo nero di intolleranza, diffidenza, chiusura, vittimismo. Che diventa marginale, o addirittura sotterraneo in certi momenti storici, per poi riemergere, ridiventare visibile e magari anche maggioritario”.
Si possono individuare i momenti in cui i trentini tendono a diventare intolleranti?
“Devo precisare che questi sentimenti coinvolgono solo una parte della popolazione, non è il caso di generalizzare. Diventano più diffusi nei momenti di crisi, durante la prima guerra mondiale ma anche nella seconda, nel periodo di occupazione tedesca, che fu un periodo grigio, in cui emerge (dalle tante lettere in cui si denuncia il vicino, quelle in cui ci si prostra chiedendo favori) un diffuso collaborazionismo verso i tedeschi, che erano i nazisti, ma venivano visti come gli austriaci che ritornavano, grazie all’intelligente politica del plenipotenziario di Hitler Franz Hofer, cui i trentini aderirono. Poi ci furono gli esempi luminosi di resistenza fino al martirio, e quelli di generosa e coraggiosa solidarietà, dei trentini che aiutavano gli ebrei, i prigionieri fuggiti dai vagoni blindati, gli aviatori abbattuti; ma fu una minoranza; in genere la popolazione, in una situazione peraltro molto difficile, si rivelò molto egoista”.
E oltre i periodi bellici?
“Sono forse i momenti più interessanti, a iniziare dal dopoguerra, con l’Asar (movimento per l’autonomia e autogoverno regionali nell’immediato dopoguerra, n.d.r.). Nel 1946 l’Europa si presentava come un continente selvaggio, distrutto, in cui spunta questo movimento del piccolo popolo che guarda al proprio ombelico, con il leit motiv ‘via i terroni’, con un’enorme discrasia tra alcuni dirigenti come Valentino Chiocchetti che propugnavano il federalismo, e i tanti slogan, cartelli, giornaletti come “Autonomia “ che guardavano solo il proprio minuscolo territorio, diffidenti verso tutto il resto, mentre invece l’Italia attraversava, con la Costituzione, la ricostruzione ecc, un momento di grandi speranze e anche di positive realizzazioni”.
Poi l’Asar venne prosciugata dalla Dc...
“Sì, il grande partito nazionale, guidato da una figura come Degasperi si impose. E filtrò e depurò queste scorie, che però rimangono come elementi culturali di fondo, una serie di diffidenze che coesistono con altri elementi. Nel ‘68 furono del tutto represse dalla forza culturale di un movimento internazionale ed ugualitario, che riuscì a farsi opinione comune; mai nessuno allora, in nessuna parte del Trentino, si sarebbe permesso di pronunciare frasi di sufficienza verso i ‘terroni’ o i ‘negri’ o gli ‘sporchi ebrei’. Sono scorie che però poi sono riemerse con l’eclissi della narrazione e dell’ideologia dei partiti nazionali, che con tutti i loro difetti avevano tuttavia una visione larga, nazionale e internazionale”.
Andiamo oltre i partiti.
“Certo, ci sono i movimenti, l’associazionismo, i sindacati. Ma nel frattempo è cambiata anche la natura economica del Trentino, è cambiato il profilo degli operai, la dimensione del lavoro è meno collettiva, il sindacato rimane, e proprio sugli immigrati tiene duro, ma non ha più il ruolo di centro di elaborazione di idee.
Ecco come si spiega l’attuale deriva, che mi rifiuto di pensare che sia emersa dal nulla”.
Abbiamo un fenomeno come gli Alpini. Nati proprio per utilizzare la naturale tendenza al reciproco aiuto delle popolazioni montane, per farne truppe scelte in territori difficili, operazione militarmente riuscita. E poi, con la fine della dimensione popolare del corpo e il passaggio a un ristretto e selezionato professionismo si è avuta la riconversione della moltitudine di alpini, vecchi e nuovi, in volontari della Protezione civile. Non è questo un indice della tendenza solidaristica di cui stiamo parlando?
“In questa recente innovazione vedo poche analogie con la vocazione militarista precedente. Nasce con il terremoto del ‘76 in Friuli, è la riscoperta in tempo di pace di generose attività in favore delle popolazioni. Ma ha poco a che fare con la gestione dell’Associazione Nazionale Alpini dei decenni precedenti, di cui Nuto Revelli denunciava a metà degli anni ‘60 il carattere fascista, grevemente militarista, con virulenta attività contro gli obiettori di coscienza, definiti checche, recioni, froci...”.
Ma dentro l’ANA oggi coesistono culture diverse?
“Senza dubbio alcuno, gli alpini trentini sono degli interlocutori interessanti per le associazioni pacifiste, e di quelle che si occupano di integrazione”.
In tutto questo come si pone il fugattismo?
“Arriva, interpreta e stimola le peggiori delle pulsioni di cui abbiamo parlato, incarna questa cultura purtroppo esistente”.
Ma non è che esageri, quando si oppone ai rifugiati volontari nelle case di riposo? O rinuncia ai fondi per insegnare l’italiano agli immigrati?
“Questa non è politica, è ferocia; sono posizioni poco accorte, anche dal suo punto di vista”.
Ma nella cultura popolare trentina, c’è la cattiveria?
“Non la vedo, anche nei momenti più grigi c’era diffidenza, chiusura più che cattiveria. Semmai fastidio, indifferenza per le sorti altrui più che ostilità vera e propria. Anche perché nelle posizioni dei trentini c’è sempre un moderatismo di fondo, anche nelle manifestazioni di repulsione”. ?