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QT n. 6, giugno 2018 Seconda cover

La nostra adunata

Tre racconti dai collaboratori di Questotrentino dell'adunata degli alpini a Trento

Un incontro

La prima volta che lasciai la caserma della Scuola Militare Alpina ad Aosta, in libera uscita dopo tre settimane di esclusione dal mondo dei civili, mi fermai alla luce di un lampione per guardare la mia ombra con la penna sul cappello. Cinquant’anni fa. Con lo stesso tranquillo orgoglio sedevo la prima sera dell’adunata alpina di Trento, giorni fa, al tavolo di un caffè in piazza del Duomo, cappello e penna in testa. Ospite di un amico, alpino pure lui, e di due signore che conosciamo. Una di loro, di Monaco, ha voluto fotografarci: era la prima volta che ci vedeva così e che vedeva gli alpini. Il mio amico è uno che basta si fermi un attimo in strada e qualcuno subito lo saluta, e s’intrattiene.

Intorno la piazza cominciava a brulicare di penne nere, qualcuna anche bianca come i capelli di chi le portava. Tante mogli bianche pure loro, e fidanzate giovani per i più giovani, e ragazzi e ragazze attirati dalla festa che stava cominciando. Al tavolo accanto due alpini sui cinquanta,come noi con due signore. Uno dei due guarda il mio amico, si alza e si avvicina: “Sono di Aosta, siete AUC?” Gli AUC erano gli allievi ufficiali di complemento, in addestramento un tempo alla Scuola Alpina. L’ha visto dal cappello. L’alpino non è molto alto, largo di fianchi e con un po’ di pancia, ben piantato dentro la maglia scura sotto il maglione aperto, viso mite e cordiale. Chiede di quando eravamo ad Aosta e ci racconta che ora le caserme sono state in gran parte chiuse, ci stanno solo gli alpini volontari, professionisti. Ci spiega le trasformazioni degli edifici e qualcosa della città, che più o meno non dev’essere cambiata granché da allora. Lui fa parte della Protezione civile con la sua Sezione dell’Associazione Nazionale Alpini, è stato in Emilia per il terremoto e stava per partire verso Livorno quando venne l’inondazione. Soprattutto è stato a lungo all’Aquila, sempre per il terremoto, dove i cittadini l’hanno accolto con straordinaria cordialità e l’hanno ospitato nelle loro case, quelli che potevano, assieme alle altre penne nere del soccorso. Lo ricorda con riconoscenza. Lui con riconoscenza verso di loro, le persone aiutate.

Gli alpini dell’ANA sono organizzati in squadre, ci spiega, con un coordinatore che li dirige, e finanziano loro stessi i mezzi e le attrezzature, pronti sempre a partire entro quattro ore dalla chiamata. È a Trento dall’inizio della settimana. Col suo gruppo sono venuti da Aosta ed hanno piantato le tende per quelli che stanno arrivando.

Ti piace Trento, Ettore?” Il mio amico ha letto il nome sul maglione. “Sì, è una bella città, ben tenuta, e poi è impossibile perdersi, basta arrivare in piazza del Duomo, è facile”. Non dorme da quasi 24 ore per il lavoro, ma non sembra risentirne. Lì accanto in piedi c’è un’altra penna nera, di una certa età e col giubbetto giallo brillante degli addetti al servizio. Controlla che la raccolta dei rifiuti avvenga nel rispetto della differenziata e ogni tanto ascolta, mi pare, la conversazione con Ettore. “Sapete cos’ho fatto appena arrivato a Trento?” “No, cos’hai fatto?

Ho comperato un ditale di ceramica, col disegno del castello di Trento “ (o del Duomo, ora non so bene).

Un ricordo, come mai un ditale?

Perché li portavo sempre alla mia mamma, lei cuciva e faceva la collezione. Adesso è morta da due anni e la collezione la continuo io, ne ho tanti”.

Vicino, nella piazza, c’è un tipo piuttosto allegro, magro e scattante, avrà cinquant’anni pure lui, che intrattiene a voce alta tre ragazze con domande piuttosto ardite sulle virtù erotiche delle vecchie e delle nuove generazioni,a confronto. Le ragazze ridono e con loro alcuni alpini anziani, corpulenti, allegri e pacifici in compagnia delle mogli. Quando il tipo, che non si sa se sia un alpino perché non porta il cappello, si fa insistente, gli altri gradevolmente deviano il discorso. Ettore riprende: “Come la mamma nella vita non c’è nessuno. La mia è morta da due anni e mi manca”. È semplice, nessuna retorica. Poi deve andare via con la sua compagnia.

“Ciao Ettore! Magari ci vediamo”. Mi mette una mano sulla spalla, “Speriamo di sì, forse domani”. Noi restiamo ancora un po’, con le nostre penne in mezzo a migliaia di altre, sempre più fitte.

Gianfranco de Bertolini

Andiamo a vedere ‘sti alpini...

Andiamo a vedere ‘sti alpini. Con questo programma sono uscito di casa. Sono un agorafilo (non so se esiste il termine, lo uso io come contrario di “agorafobo”, io non temo, non detesto, le piazze gremite di folla, anzi) e questa festa popolare dovrebbe piacermi. È venerdì sera, e la città è piena (anche se non invasa, hanno esagerato nelle previsioni), mi lascio trasportare dalla gente, attacco bottone con questo o quel gruppo. Di fronte a Sociologia hanno trasportato una botte, l’hanno adagiata per il lungo, e al suo interno hanno realizzato una piccola stube, una tavola e tre panchine attorno, bottiglie e boccali. Ci stanno seduti tre alpini dall’aria goduriosa, e con loro due ragazze, carine, incuriosite dalla situazione, dalla sua calda intimità. Intimità relativa, la botte è aperta verso la strada. Incuriosito e attratto a mia volta, mi affaccio anch’io: “Vieni, vieni” mi dicono gli alpini. Incomincio a scherzare con le ragazze, che subito corrispondono. Anche troppo. “Beh… veramente adesso potresti andartene” mi avvisano gli alpini. “È giusto così” rispondo, e tutti ci salutiamo.

Vado verso piazza Fiera. Musica e canti, più o meno intonati, da ogni dove. Al centro della piazza c’è una banda: attira l’attenzione prima ancora che si mettano a suonare, per la cura nelle divise e la serietà degli atteggiamenti. Siamo in tanti, attorno in cerchio. Poi si mettono a suonare: molto bravi, il cuore ti si allarga. A un cenno del direttore, si mettono in fila, e sempre suonando, se ne vanno. Succede un fatto strano: tutti, tutti, gli andiamo dietro. Come attirati, sedotti, da una forza magica, sembra che un filo ci leghi a quei suoni. Siamo come i topi, e poi i bambini, dietro al pifferaio di Hamelin.

Funziona così, sempre” mi spiega un amico, a suo tempo ufficiale degli alpini. È l’incantesimo che ha portato alle bande militari, alle fanfare, ai rulli di tamburi che ti trascinano sul campo di battaglia. Siamo in tempi più fortunati: qui invece ci portano in piazza Duomo, ed è entusiasmante vedere che sfiliamo attorniati da due ali di persone, tutte – dico tutte – con un larghissimo sorriso stampato sul volto.

Ettore Paris

Mi sono perso una bella festa

Giovedì 10 giugno, tardo pomeriggio. Il grande raduno alpino è ormai alle porte. Sto per riprendere la macchina nel cortile presso l’edificio destinato dal Comune a sede delle associazioni di volontariato. Una rete metallica e un cancello permanentemente chiuso separano il cortile da quello adiacente, di pertinenza del Liceo Linguistico Sophie Scholl. All’interno di quest’ultimo due alpini - cappello e piuma non lasciano spazio a dubbi - cortesemente mi invitano ad avvicinarmi alla rete divisoria per chiedermi un’informazione, penso io, in realtà per espormi un problema ben più complesso. Il loro raggruppamento è stato dislocato presso quella scuola e il relativo cortile. Hanno da poco scoperto che in un cortile scolastico è proibito accendere fuochi e quindi non potranno usare il loro barbecue.

Con un tono che evidenzia quanto siano affranti mi spiegano che è davvero un peccato, loro hanno portato una gran bella dose di carni e salsicce. Continuano chiedendomi se per caso io ho le chiavi del cancello e posso permettergli di cucinare appena al di là dello stesso e quindi fuori dai confini scolastici: a loro basterebbe pochissimo spazio.

Cercando di non darlo a intendere, tra di me penso: “Ma questi da dove vengono e, soprattutto, dove credono di essere arrivati?”. Però è la loro festa e bisogna pur dimostrare un po’ di empatia per una simile incresciosa situazione. Spiego che il cortile in cui mi vedono è di proprietà del Comune, che non ho alcuna chiave per aprirlo e che, se anche l’avessi, non potrei certo autorizzarli a trasformare parte del parcheggio in un’area picnic con fuochi al seguito. Seguono altre sconsolate considerazioni da parte dei due mancati cuochi e alla fine, più per mostrare quanto i trentini siano pieni di buona volontà che per reale convinzione che possa servire a qualcosa, gli butto lì un: “Se volete posso farvi avere nome e numero di telefono del referente del Comune a cui ci rivolgiamo per problemi relativi a questa sede. Datemi un vostro numero ed entro sera vi invio un sms”.

Le troppo entusiastiche reazioni mi inducono a raffreddarli un po’. Senza una formalizzazione della richiesta e conseguenti tempi lunghi - domani sarà già venerdì, giorno di inizio del raduno - spiego che è praticamente impossibile che un dipendente comunale si assuma la responsabilità, sulla base di una telefonata, e risolva il loro problema. Niente da fare: vogliono comunque tentare. In serata mantengo la promessa ed invio le informazioni.

Venerdì 11 giugno, metà mattina. Sto viaggiando in A22, direzione sud. Da tempo avevo deciso di fuggire da Trento in occasione della programmata invasione. L’ennesimo bip del telefonino mi induce a fermarmi all’area di servizio successiva e a leggere le varie notifiche.

Uno dei messaggini mi riempie di un misto di stupore e soddisfazione: “Caro Mauro, tutto risolto, grazie moltissimo. Vieni a trovarci durante il raduno e sarai nostro ospite”. Sorridendo penso che il loro motto deve davvero funzionare: “Per gli alpini non esiste l’impossibile”. Sono anche un po’ dispiaciuto per la decisione presa di non restare a Trento, ma ormai ho preso accordi che non mi consentono di invertire la rotta. Pazienza, quasi sicuramente mi sto perdendo una bella festa.

Mauro Nones