Alpini fra mito e Storia
Un corpo militare alfiere della pace? E perché tanto affetto nei suoi confronti da parte della gente? Uno scambio di idee fra Quinto Antonelli, storico, Mauro Bondi, dirigente dell’ANA e il direttore di QT.
Da qualche giorno per le strade di Trento si è conclusa la 91° adunata degli alpini. Abbiamo voluto farne un bilancio, riportando alcune piccole esperienze vissute durante l’adunata, ma soprattutto riflettendo più in generale sulla figura dell’alpino, tra storia e mito. Abbiamo voluto verificare se effettivamente in questi anni l’ANA (Associazione Nazionale Alpini) abbia progressivamente modificato il senso dell’adunata, facendone scomparire l’impronta belligerante e nazionalista, tipica di un’associazione combattentistica di reduci. Gli interlocutori sono Quinto Antonelli, storico, Mauro Bondi, avvocato ed esponente nazionale dell’ANA, e il direttore di QT Ettore Paris.
Bondi: L’ANA ha cent’anni di storia, ha attraversato due guerre mondiali e, nel mezzo, il fascismo. Occorre contestualizzare il periodo in cui è nata, quello in cui è cresciuta ed è conseguentemente cambiata. Nasce a Milano, all’indomani di una guerra che per la prima volta coinvolge numeri impressionanti di soldati: 6 milioni i mobilitati, 4 milioni i combattenti, 600mila i morti. Sono cifre che hanno cambiato l’associazionismo militare, che da aristocratico si è trasformato, coinvolgendo reduci, mutilati, feriti. Per di più fin da subito l’ANA non è composta solo da reduci, nasce come associazione aperta a coloro che hanno portato o porteranno la penna, anche se reclute in tempo di pace. Vive un suo primo momento di reducismo, poi c’è la fase del fascismo, di cui anche bisogna tenere conto. Dopo la seconda guerra mondiale risorge con qualche problema tra reduci della prima guerra mondiale che hanno vinto, e i reduci della seconda, che hanno perso; poi c’è la terza fase, dal 1976, con l’impegno nella protezione civile.
Antonelli: Vorrei fare una considerazione, partendo dalla scelta di fare la manifestazione a Trento, una scelta che non condivido, perché cade nel centenario di una conquista territoriale, l’annessione del Trentino, attuata militarmente senza il consenso delle popolazioni. Di fatto abbiamo celebrato una conquista territoriale e l’abbiamo fatto con una sorta di invasione di massa con caratteristiche magniloquenti, enfatizzanti. Questa concomitanza non mi è piaciuta granché.
Bondi: Questo problema ce lo siamo posti anche noi - ed è il motivo per cui abbiamo scelto come logo dell’adunata la colomba, per sgombrare il campo da ogni dubbio e chiarire che non avremmo voluto celebrare una vittoria ma la fine della guerra; concetto ribadito durante la cerimonia alla Campana dei caduti che ha aperto l’adunata. Ci sono stati anche motivi organizzativi: Trento chiedeva da almeno una decina di anni di avere l’adunata, e tra il 2017 di Treviso e il 2019 di Milano restava solo il 2018. Per fortuna le perplessità che hai sottolineato sono state superate da come l’adunata si è svolta: in quattro giorni non ho sentito parlare di vittoria e nemmeno intonare il Piave.
Antonelli: Senza voler essere polemico mi preme sottolineare che più volte i vertici dell’ANA hanno sottolineato il valore della continuità; nulla viene rifiutato della storia dell’alpino. Anche in occasione dell’adunata sono state rilasciate diverse interviste in cui ci hanno raccontato il mito degli alpini: che non avrebbero mai ceduto alla brutalizzazione della guerra, passando attraverso una guerra di aggressione come il primo conflitto mondiale, attraverso il fascismo e le guerre coloniali, mantenendo sempre una sorta di onore e di purezza.
Bondi: Per me è proprio così e proverò a spiegarmi. Intanto bisogna chiedersi come mai è nato il mito e come mai ci sono centinaia di migliaia di persone che vengono alle nostre adunate e ci testimoniano affetto. Il mito nasce proprio nella costituzione degli alpini. Facciamo un passo indietro al 1872, quando si decide di costituire questa fanteria specializzata, che ha due caratteristiche: la difesa delle valli e delle montagne che fa dell’alpino un soldato di difesa e non di aggressione; e un reclutamento territoriale: gli alpini venivano scelti e rimanevano nelle zone in cui erano nati e che conoscevano. A tutto ciò bisogna aggiungere un addestramento che le rendeva delle truppe scelte. Da qui uno spirito di corpo che celebriamo ancora oggi, anche se nel frattempo il mondo è cambiato; è questo spirito che ha costruito un mito che ha permesso alla figura dell’alpino anche di affrontare i drammi della guerra. Ed è per questo che la gente continua a provare affetto e a presentarsi in massa alle nostre adunate.
Paris: Gli alpini in effetti sono sorti perché i generali di allora si resero conto che i montanari hanno caratteristiche per cui possono risultare - dicevano - ridicoli in città, ma adatti alla montagna e alla guerra in montagna: anzitutto per la capacità di muoversi in un territorio difficile, ma anche per lo spirito di cordata caratteristico delle comunità montane, quello che ti porta a vedere l’insieme del gruppo piuttosto che il singolo. Caratteristiche importanti per la successiva trasformazione in Protezione Civile. Ma a questo proposito ho un dubbio: con la fine della leva obbligatoria e la trasformazione del corpo in professionisti, queste caratteristiche ci sono ancora?
Bondi: Questo è un problema; la scomparsa della leva di massa non solo porta via nuovi iscritti, fa anche mancare uno dei capisaldi: il radicamento sul territorio. E ora c’è anche la questione dell’integrazione femminile in un corpo sicuramente di stampo maschile. I soci che hanno fatto la naja sono sempre più anziani, il più giovane ha intorno ai quarant’anni. Per questo abbiamo creato la figura degli Amici degli alpini, giovani che devono superare una serie di prove e che alla fine hanno le caratteristiche e i valori degli alpini, al di là del fatto che non possono portare la penna. Tanto per fare qualche numero, gli Amici degli alpini in Trentino sono circa 5.000 a fronte di 20.000 alpini circa. Sono loro che portano avanti nella protezione civile lo spirito di corpo, sempre mantenendo il contatto con le truppe alpine operative.
Antonelli: Vorrei riprendere il discorso del mito. La mitologia deve fare i conti, a un certo punto, con la storia. Tu dici che l’alpino è una figura di difesa, ma l’alpino nella storia è stato sempre utilizzato in guerre di aggressione: nei confronti dell’Austria, poi della Russia, della Grecia, ecc. In entrambe le guerre mondiali ci fu una propaganda veemente ed efficace nei confronti del corpo, gli alpini risultarono affascinati dalla retorica del fascismo, sul Don ci andarono convinti. Il racconto vittimistico di alpini mandati in una guerra d’aggressione loro malgrado, non regge. La storia è una guastafeste delle mitologie. E anche nel dopoguerra, l’esercito non è stato neutrale: è stato utilizzato nelle repressioni anti-operaie. Utilizzato e a un certo punto profondamente politicizzato. Mi sembra che la storia ponga ad una associazione come l’ANA diversi problemi, che non si risolvono soltanto ribadendo la mitologia.
Bondi: Sono d’accordo. Bisogna però contestualizzare e distinguere. Faccio un esempio personale: mio papà è nato nel 1921, è cresciuto a pane e moschetto, in quegli anni alla logica del nazionalismo si sommava la retorica del fascismo. Quando è scoppiata la guerra aveva 19 anni e la sola idea di non arruolarsi, in quel contesto, era per lui segno di vigliaccheria. Lui, tre fratelli ed un cugino si sono arruolati volontari pur potendo studiare e rinviare. Tutta la sua generazione, cresciuta sotto il fascismo, fu plagiata da quell’indottrinamento. Per quanto riguarda gli alpini, è vero che chi aveva il comando decise di impiegarli in guerre di aggressione. Ma c’è comunque qualcosa che ha permesso all’alpino di rimanere il soldato “buono”, quello che pensa prima ai suoi compagni e poi a far la guerra. Siamo un corpo che percepisce il proprio compagno come un compagno di cordata; soldati disciplinati col senso del dovere e contemporaneamente sempre un po’ indisciplinati nel rapporto con i comandanti. Queste caratteristiche positive le vivi nel quotidiano, rimangono a dispetto della storia e sono riconosciute dalle persone, che percepiscono l’alpino come soldato del popolo. Questa percezione aiuta il loro impegno nella protezione civile, quindi ben venga. C’è sicuramente qualche passaggio di cui non andare troppo fieri, anche se non era responsabilità dei soldati di linea, ma i nostri valori rimangono e permangono più forti delle cose di cui non andiamo fieri.
Paris: Il mito si nutre della storia, la deforma e costruisce una sensibilità. Della loro storia gli alpini non ricordano la conquista di questa o quella cima, ma soprattutto una sconfitta: Nikolaevka. Una ritirata in cui riuscirono a salvarsi grazie alla capacità di tener duro, di soffrire insieme. Magari anche questo è frutto del mito, o parte di quella che potremmo definire strategia del vittimismo. Però ha una base storica; ed oggi è una realtà storica, significativa anche il fatto che sia proprio quell’evento a venire celebrato.
Bondi: Nikolaevka la ricordiamo perché è emblematica dello spirito alpino. Fa parte della nostra storia, come il monte Grappa. Rappresenta la capacità degli alpini di salvare, attraverso il sacrificio, il numero maggiore possibile di soldati, in quel caso aprendo un varco nell’accerchiamento russo e permettendo ai compagni di tornare a casa.
Antonelli: Anche su questo ho una visione diversa, non solo mia ma anche di tanti altri storici: la memoria seleziona e gli imprenditori della memoria (che sono soprattutto entità collettive o associazioni come l’ANA) sfruttano questa selezione per cui gli alpini ricordano se stessi come vittime, nella ritirata; ma c’è stato anche un momento dell’andata. Ricordare solo la sconfitta vuol dire occultare parte della storia; vuol dire porre l’accento su una sofferenza che purifica. Ho letto cose pazzesche su questo vittimismo, per cui troviamo nella letteratura anche comparazioni – nella sofferenza - tra alpini ed ebrei! Non si può fare questo discorso. C’è stata una guerra di aggressione, si è stati vinti, ci si ritira. L’andata e il ritorno fanno parte di un’unica storia; non si può ricordarne solo una parte.
Bondi: L’andata però fu decisa dai politici e dai generali. Bisogna distinguere tra vertici militari e soldati di truppa.
Paris: Il rischio è che il mito della sofferenza e della capacità di gestirla e di sacrificarsi per salvare un compagno, finisca con l’offuscare la negatività dell’aggressione bellica. C’è il pericolo che celebrando un corpo che è pur sempre militare si rischi poi di giustificare la guerra?
Antonelli: Anche io distinguerei tra il popolo degli alpini, che però spesso non ha una sua voce, e le posizioni ufficiali. Ho letto in questi anni il mensile L’alpino e quel che ne esce è la narrazione di una continuità che giustifica un po’ tutto; che cuce addosso all’alpino un ruolo sempre positivo. Ma la storia ci dice altro: ci sono stati degli episodi feroci e non solo in Russia. Penso alla lotta contro i partigiani jugoslavi. In quel frangente gli alpini si scatenarono. Questo sottolineare di essere sempre stati dalla parte del giusto, questa bontà dell’alpino, fa parte della mitologia, non della storia. Un atteggiamento da parte delle voci ufficiali un po’ più critico potrebbe avere anche un benefico effetto pedagogico sulla massa degli alpini, del popolo. Ma mi sembra che L’alpino, inteso come giornale, non si ponga questo problema.
Bondi: Certo, occorre portare alla luce anche ciò che non fa onore. Ma se facciamo una operazione puramente algebrica, nonostante gli episodi riprovevoli, la grande storia degli alpini rimane positiva. In Jugoslavia il problema specifico era che con i nemici, i partigiani titini, non valevano le regole della guerra, per questo la lotta fu particolarmente cruenta: i partigiani quando prendevano un italiano gli aprivano il petto e gli mettevano una gallina tra i polmoni e quando gli italiani catturavano un partigiano facevano altrettanto.
Paris: A cosa è dovuto un così indiscutibile affetto popolare attorno agli alpini? Dico indiscutibile perché lo abbiamo vissuto in questi giorni.
Antonelli: Non so se sono la persona adatta a rispondere. Certamente è una forma aggregativa rara nelle piccole comunità di montagna. È innegabile questo aspetto che ha un suo valore straordinariamente positivo. Penso a tanti paesi del Trentino, del Veneto e del Piemonte in cui l’associazione degli alpini spesso è l’unica forma di aggregazione esistente. Ma vorrei fare un’altra riflessione. Io, che considero un valore l’antimilitarismo, mi domando quanto questo possa essere condiviso dal popolo alpino. Ricordiamo che il pacifismo non è soltanto qualcosa di individuale, è professato dalla Costituzione in quel ripudio della guerra dell’articolo 11. E ripudiare la guerra vuol dire non solo rifiuto delle armi e dell’aggressività ma anche rifiuto di quegli elementi simbolici che rimandano al militare, all’esercito, come potrebbe ad esempio essere la penna alpina. Quello che chiedo a Mauro è: quanto quel grande popolo alpino potrebbe condividere di questi miei valori?
Bondi: Come diceva alla Campana dei caduti il nostro tedoforo Guido Vettorazzo (l’alpino classe 1921 che ha aperto l’Adunata e che abbiamo intervistato) chi ha combattuto non può essere favorevole alla guerra. Lo dice anche la letteratura: tutti quelli che la guerra l’hanno vissuta, da interventisti si sono ritrovati poi ad essere pacifisti. Io però faccio parte di quelli che vedono il mondo composto sia da pecore, nel senso non dispregiativo del termine, sia da lupi, nel senso dispregiativo, sia da cani da pastore. Un mondo senza guerra e senza armi sarebbe il più bello dei mondi; ma eliminare i lupi non è sempre facile. I lupi ci sono e probabilmente saremmo in loro balia se non ci fossero i cani da pastore che si assumono l’onere di difendere le pecore, che poi siamo noi cittadini. I cattivi vanno combattuti con le loro stesse armi e in questo senso io mi sento un pacifista, non alla Gandhi, ma alla Tex Willer.
dal “Decalogo del perfetto Alpino”
pubblicato su L’Alpino del 22 settembre 1919, diretto allora da Italo Balbo.
1. Ricordati che il fango delle tue scarpe ferrate è intriso del sangue dei tuoi compagni di eroismo. Esso è più nobile del più ricco e più intelligente degli ex imboscati, che ora tentano di svalutare le tue conquiste. […]
3. Ricordati che chi ti dice che non valeva la pena di combattere e vincere, ora sta godendo il frutto dei tuoi sacrifici. Se lo prenderai per la gola, farai opera meritevole davanti a Dio. […]
7. Ricordati che la parola “Bolscevismo” in lingua povera vuol dire Vigliaccheria, truffa, tirannia, fame. […]
9. Ricordati di odiare i nemici di dentro e di fuori anche in pace, come li hai odiati in guerra.
Tratto da: Marco Mondini, Alpini. Parole e immagini di un mito guerriero, Laterza, Roma-Bari 2008, dove viene introdotto in questo modo: “Nel Decalogo del perfetto Alpino, pubblicato sul numero 8 del giornale, il sacrificio del combattente era postulato come valore fondante di un richiamo alle armi per una guerra non ancora finita, e da proseguire fino all’annientamento del nemico interno antinazionale e rivoluzionario”. (pp. 120-121)