Preti a trent’anni
Viaggio dentro le parrocchie per capire come vivono i nuovi discepoli di Cristo. Il 6% dei preti ha un’età tra i 25 e 34 anni. Una minoranza con un’identità in transizione che oscilla tra voglia di svecchiare una Chiesa che non sa parlare alla gente e residui di tradizione.
In principio seguire la chiamata di Dio significava sottrarsi al mondo. Lontano dal baccano e dalle tentazioni i “preti in erba” accettavano sacrifici e rigide regole. Nei seminari le vocazioni alla cura delle anime pullulavano. Oggi invece è tutta un’altra storia. La guida del gregge è un ruolo che ha perso attrattiva. La crisi è sotto gli occhi di tutti: un quarto delle parrocchie italiane sono accorpate perché manca il pastore. Un fardello di lavoro che grava su preti sempre più anziani che poco possono contare sull’aiuto di nuove leve. In Trentino, dagli anni ‘70 ad oggi, i candidati al sacerdozio sono più che dimezzati. Basti dire che nel 2009 le nuove ordinazioni sono state appena quattro (vedi grafici).
Qui cercheremo di capire come le nuove reclute rispondano a questa chiamata dentro e fuori le mura del seminario, per approfondire i vissuti di un ruolo così totalizzante immerso in una realtà sempre più sorda ai moniti della Chiesa.
Far breccia nelle vite dei preti non è facile. Sono abituati ad ascoltare i segreti più reconditi dei fedeli, non ad invertire i ruoli del confessionale. La gente dimentica che sono uomini in carne ed ossa. Per rassicurare i fedeli devono offrire un’immagine forte di sé, facendo trapelare il meno possibile le loro debolezze. Metterli a nudo, quindi, non è una mossa giusta da fare. Molti alzano un muro e rifiutano l’intervista. È palpabile, al primo approccio, il conflitto tra il copione del prete tradizionale, tutto d’un pezzo, e il lasciar libero sfogo ai sentimenti che pulsano dentro. Don Paolo, don Marco e don Mattia, li chiameremo così, hanno deciso però di fare uno strappo: raccontare senza veli qualcosa di sé. La loro voce è squillante. Sono molto giovani. Hanno modi di fare sciolti ed affabili. Scatta subito il desiderio di dargli del tu. La conversazione scorre via veloce e rilassata.
Un lungo cammino
“Oggi non scegli certo di diventare prete perché ti conviene. Non ci sono più i privilegi del passato. Non a caso tanti hanno cambiato strada, perché non se la sentivano più” - esordisce don Paolo con battuta pronta. Insomma le crisi hanno portato una ventata di consapevolezza del ruolo. Sono finiti i tempi in cui si metteva piede in seminario fin da piccoli per far sbocciare lentamente l’anelito al sacro (il seminario minore a Trento non esiste più dal ‘76). I giovani approdano agli studi teologici magari dopo la laurea e con un bagaglio di esperienza alle spalle. La pura chiamata di Dio è la leva che li trascina, che capovolge la loro esistenza.
È difficile fare una radiografia di una chiamata vocazionale. Di fronte a questa richiesta don Marco ha bisogno di riflettere un po’, di rovistare fra i tanti mattoni che stanno alla base di questa scelta. Si prende una pausa di silenzio, poi procede spedito nel racconto: “Ricordo che il sacerdote mi faceva venire in mente la burocrazia, il giudizio, la lontananza, il ruolo. Nell’età in cui ti ribelli a tutto ho poi incontrato un prete giovane che si dava molto da fare per coinvolgere noi ragazzi. Mi colpiva nella sua semplicità, nei valori, anche nella sua felicità. Dio all’inizio non l’ho mai sentito. Non mi ha parlato direttamente, ma attraverso persone che mi hanno affascinato, anche dentro il seminario. Poi vengo da una famiglia bella, che mi ha trasmesso molti principi”.
Anche per don Paolo i ricordi di seminario sono tuttora freschi. Le immagini si riaccendono continuamente nella sua mente. Lì ha trascorso un bel pezzo di vita. Dentro quelle mura è entrato da piccolo, dalla prima media. Non si diventa prete per concorso, ma dopo un percorso lungo e selettivo. Di quegli anni don Paolo rievoca le luci e qualche ombra: “Il seminario a Trento è molto più aperto rispetto ad altri contesti. Già dai primi anni ti attivi sul campo: entri nelle mense dei poveri, nelle parrocchie, o puoi andare in missione. Questo, anche se non si dice, è uno degli aspetti positivi del ‘68. Poi certo devi farti la tua gavetta. Non nascondo che durante uno studio lungo quindici anni ho avuto diversi momenti di crisi. Man mano che crescevo mi sono sorti dubbi su un servizio che ti esclude la famiglia”.
Il potere del prete
Dici prete e pensi ad una scelta coraggiosa ed anacronistica. Specie in tempi in cui s’inseguono valori considerati irrinunciabili quali successo, denaro e potere. Don Marco sa che la gente lo vede come un marziano. È pienamente consapevole che il suo ruolo ha perso smalto rispetto al passato. Un prete, con la sua aura di sacralità, non suscita più quel manto di riverenza che gli assicurava prestigio ed autorità. Ma ciò non abbatte don Marco, anzi gli dà una marcia in più: “Penso che sia una fortuna il fatto che gli hanno tolto tutto. Così al prete è rimasto un solo potere: quello di affascinare. Personalmente voglio una religione del fascino, dell’attrazione. Devo riuscire a trasmettere qualcosa di cui il cuore umano ha bisogno. Non ho nessun’altra arma a mia disposizione”.
Anche a don Mattia e don Paolo la perdita di visibilità del ruolo non desta alcuna preoccupazione. Sono generazioni fresche, che non hanno conosciuto il potere del prete in veste di leader indiscusso della sua comunità. “Oggi - spiega don Mattia - parlerei di stima e fiducia nel prete. Questa te la guadagni sul campo se riesci ad entrare in sintonia con la gente che ti circonda”. Insomma le nuove leve sono certe di rappresentare un porto sicuro per le loro anime, specie quando il mare è in burrasca. “Siamo più di uno psicologo - ribatte don Paolo - perché quello ti ascolta per interesse. Questa è la nuova autorità del prete che pian piano si sta riscoprendo!”.
Solitudine e tentazioni carnali
Vivere in una piccola parrocchia, magari abbarbicata in un paesino di montagna. Lontano dagli affetti più cari, e, soprattutto, senza l’amore di una donna. Hanno fatto voto di essere casti e puri prendendo le distanze dai vizi. Ma come fanno questi preti in un mondo ossessionato dagli imperativi del sesso facile? Questo è il rovello di molta gente, ammette candidamente don Paolo. Forse un prete sposato potrebbe capire meglio i problemi della coppia, ma un coinvolgimento forte con l’altro sesso lo distoglierebbe dalle attenzioni da dedicare ai fedeli. Insomma, ci si sfoga con lui proprio perché è solo.
La solitudine del prete, comunque, non è solo uno stereotipo, ma può essere vista sotto diverse angolature. La prima è la dimensione spirituale. “Personalmente - chiarisce don Marco - quando arrivo in parrocchia, dopo aver incontrato varie persone che ti parlano dei loro problemi, ho voglia di stare solo. La solitudine interiore ti può far male, ma poi l’apprezzi perché riprendi il filo che ti riporta a Dio, anche pregando”. C’è però una dimensione del vivere quotidiano in cui il morso della solitudine si fa sentire a volte in modo intenso. “Non avere una famiglia o una moglie con cui andare a dormire la sera - prosegue don Marco - ogni tanto ti pesa, specie se sei giù di corda. È più che altro un’esigenza fisica. Certo se hai buone relazioni e ti senti prezioso per qualcuno nella comunità riesci a sopportare tutto ciò. Altrimenti arrivano l’acidità e la tristezza”. Don Marco ammette che la sua non è solo una scelta lavorativa, ma di vita, e per rafforzarla ci deve lavorare parecchio: “Certo incontri ragazze simpatiche e attraenti, però lasciare tutto quello che ho costruito per dei sentimenti aleatori sarebbe una follia, anche se so che con il tempo potrebbe succedere”.
Infine c’è una dimensione dell’essere solo che accomuna ogni uomo nelle ultime stagioni della vita. Anche il prete quando è vecchio conta poco. “È vero - spiega don Paolo - che la solitudine fa parte del prete. Quello che però non dovrebbe succedere è che sia lasciato solo. A volte vedi parroci che servono solo per la Messa o parcheggiati nell’infermeria e ciò rattrista molto”.
Nuove reclute e mondo gay
Quello delle anime che vanno “contro natura” è un tasto spinoso per la Chiesa cattolica che ha espresso dure parole di condanna verso la coppia gay, bollata come amorale, in quanto non vocata alla procreazione.
Poi è seguita una piccola breccia nel muro di tabù che circonda il tema. Un tendere la mano verso chi incappa in questo “problema”. Lo stigma di “coppia irregolare” però continua ad aleggiare pesantemente sui credenti gay che chiedono di vivere la fede in comunione con la Chiesa senza discriminazione. “Gli ultimi documenti della Chiesa stessa - puntualizza don Paolo - dicono che è una diversità. Se uno viene a confessarmi la propria omosessualità vuol dire che sta male. Allora si cerca di capire, senza giudicare. La persona va amata, anche se vive una vita diversa. Penso ci vorrà del tempo per avere un’accettazione meno rigida”.
E se a confessare la propria omosessualità fosse un prete? Di fronte a questa domanda don Marco sceglie con cura le parole: “Io metto al primo posto l’accoglienza e il rispetto. Però devo dire che faccio fatica. Non solo per l’orientamento della Chiesa, ma come uomo. Trovo naturale l’attrazione fra i due sessi. A volte penso che in questa scelta abbia potuto incidere l’educazione infantile, l’assenza di un genitore, oppure che sia successo qualcosa di strano lungo il percorso. Se fosse un prete a confessarmi la sua omosessualità mi dispiacerebbe per lui, perché il prete deve avere una buona umanità. So che parlo per preconcetti. Se una pianta invece che dritta nasce un po’ storta non è che bisogna tagliarla, ma mi sento in dovere di dire che è storta. Anche se non gli darei alcun consiglio”
Paure e fatiche
Il primo aggettivo che balza in mente per descrivere questi giovani preti è senza dubbio “genuini”. Ti parlano della loro parrocchia con entusiasmo e voglia di fare, e se ne fregano del clamore e degli ingranaggi del potere. Ciò che percepisci è che sono uomini dell’essere, non dell’apparire.
Capita che le cariche ecclesiali dirigano dall’alto senza capire i reali problemi che il prete vive nel quotidiano e allora si corre ai ripari destreggiandosi un po’. “Nel tuo piccolo - commenta don Marco - trovi le tue soddisfazioni, i tuoi hobby. Allora non stai a fare una battaglia in Curia con le forche. Personalmente faccio fatica a prendere decisioni con altri, forse perché come prete ti abitui a stare solo. Certo i vescovi sono uomini col loro carattere. Alcuni sono dei burocrati, altri vivono il presbiterio come una famiglia. Il vescovo è un diplomatico, sta tanto con le persone, magari con molte strette di mano e pochi incontri in cui parla con il cuore. Seguono poi foto e articoli. C’è chi bada meno all’apparenza e più all’aspetto umano”.
Ma don Mattia e don Marco ci tengono a non farsi appiccicare addosso l’etichetta di “burocrati della fede”, anche se ammettono che il prete oggi è schiacciato da troppe incombenze cartacee che tolgono ossigeno all’attività pastorale. Questo fardello pesa come un macigno: “Non sopporto le mani invischiate nella burocrazia. Penso che la mia sia una fatica che accomuna tutti i preti - chiarisce don Marco. In parole povere ti trovi ad amministrare come un’azienda la tua parrocchia. A volte rischi di sentirti un manager fra ditte ed appalti. Anche se sono opere utili per evitare la rovina di chiese e dipinti”.
Fare il prete con tutte le faccende terrene o più spirituali da sbrigare corre su un binario parallelo all’essere uomo. “La fatica più grossa - spiega don Mattia - molte volte siamo noi stessi. Nell’essere preti ci portiamo dietro quello che siamo. Esempio: uno che è espansivo nelle relazioni è facilitato nel creare comunità, un altro più chiuso farà maggior fatica a essere ogni giorno ‘con gli altri’. Per me far quadrare i conti della parrocchia, i lavori alla chiesa, è sempre fonte di preoccupazione, mentre un altro col pallino della malta non ha problemi”.
Un sacerdote dentro le mura della chiesa non è immune da stress e fatica, ma nemmeno dalle paure. Che cosa preoccupa un prete quando getta lo sguardo fuori dal perimetro rassicurante della sua canonica? Don Marco risponde senza indugi: “Mi spaventa il fatto che riesci ad avere un favore se conosci la persona che conta. Mi spaventa un mondo dove devi farti avanti a gomitate e devi sempre guardarti alle spalle. Questo succede anche nella Chiesa, seppur in modo meno evidente, perché il marcio non c’è solo nella società”.
Quando il gregge non segue il pastore
Fare presa sul gregge non è semplice in una società che si laicizza. I rapporti dei fedeli con la Chiesa si son fatti tiepidi perché i suoi moniti appaiono distanti dal vivere concreto della gente. Certo, i fedeli ascoltano rispettosamente le indicazioni di vescovi e sacerdoti in materia di sessualità, procreazione assistita, testamento biologico. Alla fine, però, ciò che fa pendere l’ago della bilancia nelle scelte è la propria coscienza, non la catechesi. I giovani, in particolare, sono quelli più distanti dalla Chiesa dei riti e dei precetti. Sebbene l’80% di essi dichiari di credere in Dio, solo il 15% segue le pratiche religiose con una certa continuità. Sbiaditi i ricordi della Prima Comunione e finita la festa della Cresima, gli adolescenti latitano. Colpa dei preti?
“I giovani - spiega in modo limpido don Paolo - sono figli di questa società. Le loro basi religiose sono labili anche perché non vi è più la catechesi tramandata in famiglia in modo naturale. Hanno bisogno di Dio. Un desiderio nascosto e talvolta deluso perché lo vogliono a comando, magari quando gli serve perché sono in crisi. Quello che io cerco di fare è di presentarmi come figura ‘vicina’ trovando un nuovo linguaggio perché l’ecclesialese oggi non funziona più”. Dunque captare la voglia di spiritualità dei ragazzi è un’impresa ardua perché credono in un Dio “fai da te”. Vissuto nella propria intimità. Senza bisogno d’intermediari. Una sorta di coperta di Linus. In parole semplici, molti credono in un Dio senza Chiesa.
“I giovani d’oggi - incalza don Marco - hanno poche regole, rigetto dell’autorità politica e religiosa. Seguono invece il cuore e la passione. Vedo ciò come positivo, perché prima del ‘68 c’era una castrazione orrenda. Certo sarebbe bello che usassero anche la testa oltre al cuore. I precetti della Chiesa sono giusti perché difendono un amore alto e ideale, per non bruciare tutto subito. Per me, però, viene prima la persona che il precetto. Se fatica ad accettarli non l’allontano”.
Si coglie in questi giovani preti la ricerca di una Chiesa meno selettiva che aiuti la gente a trovare Dio. Don Marco non è preoccupato dal pluralismo religioso che galoppa “rubando clienti”. È un palo fra le ruote che lo spinge a rinnovarsi. Non gli fa paura il confessionale un po’ vuoto, la chiesa con i banchi meno gremiti quando predica. Sa che i riti troppo standardizzati hanno perso la carica comunicativa del passato. Quello che gli importa è lasciare un’impronta positiva nel cuore dei fedeli. “Sono felice - dice - che la gente non venga più in Chiesa perché è obbligata. I condizionamenti del tipo ‘se non vieni non ti do i sacramenti’ non funzionano più. La ritualità vuota non è Dio. Di questa religiosità possiamo farne a meno. C’è bisogno di raccontare Dio, non i nostri riti. Il rito è come una bicicletta: bisogna guidarlo bene. Saperlo rivestire di umanità e passione. E puoi fare ciò se hai vissuto in mezzo a gente che ti ha toccato dentro. Vorrei lanciare uno slogan: ‘Non c’è bisogno di Messa, non c’è bisogno di chiesa. Oggi c’è bisogno di qualcuno che ti faccia sentire prezioso, che ti faccia sorgere domande. Questo è il compito del prete!’”.
Don Marco deve correr via veloce. Il campanello suona: i ragazzi della catechesi lo aspettano fuori facendo un gran baccano. Quando li incontra si lascia prender dal batticuore: lui ha poca fantasia nel raccontare le storie del Vangelo. Poi, sottovoce, ci confida con una punta d’orgoglio un sogno nel cassetto: “Mi piacerebbe che qualcuno venisse da me dicendo: ‘Don Marco, è così bello vederti fare il prete che vorrei seguire la tua strada’”.
“Una Chiesa giudice anziché compagna di viaggio”. Intervista a Riccardo Grassi.
“Il 62% dei giovani trentini si definisce ‘cristiano cattolico’, ma a ciò non corrisponde, nella maggioranza dei casi, una reale adesione alle indicazioni e ai precetti della Chiesa”.
Lo dice un sociologo esperto nel sondare umori e comportamenti del mondo giovanile. Riccardo Grassi è ricercatore presso l’Istituto IARD di Milano. È autore del libro “Giovani, religione e vita quotidiana”(Il Mulino) ed ha curato varie ricerche sul tema anche in Trentino.
Come si manifesta la religiosità dei giovani trentini?
“I contenuti religiosi sono percepiti come una sorta di manuale etico, che evidenzia più la dimensione del peccato che dell’attenzione al prossimo. La Chiesa è vista quindi con distacco, come giudice anziché compagna di viaggio. Allo stesso tempo esiste un forte rapporto individuale con la divinità, soprattutto nei momenti difficili. Al di là della comunità religiosa d’appartenenza c’è un bisogno soggettivo che porta a cercare risposte altrettanto individuali sperimentando percorsi e comportamenti assai diversi”.
Che influenza ha la religione sui loro comportamenti quotidiani?
“Anche tra chi partecipa attivamente alla vita della Chiesa, si osserva sovente un divario tra le azioni all’interno dei contesti religiosi e quelle condotte al di fuori. Mantenere comportamenti coerenti col proprio credo appare particolarmente difficile in relazione ai modelli consumistici individualisti che condizionano gli adolescenti. C’è il rischio di una religiosità frammentata che non riesce ad imporsi come modello di guida prevalente nelle scelte quotidiane”.
Il genere incide nella dimensione religiosa?
“Nel tramandare la fede c’è una forte componente matrilineare. Le mamme e le nonne, infatti, hanno un ruolo importante nell’educazione delle nuove generazioni”.
Il rischioso mestiere del prete
Basta guardare le statistiche per rendersi conto che, almeno alle nostre latitudini, oggi quella del prete è una vocazione. Non ci sono altre ragioni che spingono un giovane a entrare in seminario se non quella che generalmente viene detta “chiamata di Dio”. Non ci sono ragioni né di ordine economico né di prestigio sociale o personale, né di carriera: tutto questo può avvenire ma succede dopo, quando si diventa giocoforza più disillusi. Ma da giovani non è così. Si fanno le cose con slancio e entusiasmo. Anche il prete.
Ci troviamo di fronte a una scelta dettata esclusivamente dalla fede. Occorre evidenziare però che, a differenza di un tempo, c’è una maggiore varietà di opzioni e una notevole libertà di scelta per chi voglia vivere la propria fede in maniera più radicale: ci sono monaci, laici consacrati, appartenenti a movimenti ecclesiali, coppie con molti figli, single al servizio dei poveri, affiliati a qualche comunità. Insomma, ci sono molti modi per essere bravi cristiani.
Diventare sacerdote è tutto un altro discorso. Il celibato, la solitudine, la fatica di una vocazione che spesso fa rima con professione cioè con la burocratica appartenenza alla Chiesa, vista più come società di servizi che come comunità di fedeli, diventa una scelta rischiosa appannaggio di pochi.
Il prete come funzionario, come burocrate, come esperto del sacro. Senza però avere nessun tipo di autorità, se non su anziani. Questo è il timore più grande anche per i credenti, come testimonia quel personaggio di Pirandello che aveva lasciato la tonaca proprio per non perdere la fede. Questa paura riecheggia nelle parole dei preti intervistati.
Inoltre i giovani sacerdoti si trovano di fronte a un quadro religioso in perenne mutazione e a spinte contraddittorie e centrifughe. Perché mai è necessario il celibato se preti di rito greco cattolico (che sono in tutto e per tutto uguali ai cattolici romani) vengono dall’Europa dell’est con la moglie e magari i figli per guidare le sempre più numerose parrocchie popolate da ucraini, moldavi e rumeni? Perché diventare preti se i laici avranno sempre più spazio nella vita della Chiesa?
Esistono però anche tentativi centripeti volti a ridare al prete un’aura sacrale, un’autorità perduta e uno status clericale ben definito. Le vocazioni provenienti dal sud del mondo non danno impulso a una Chiesa innovatrice, bensì sono formidabili truppe per una Restaurazione fuori tempo massimo. Il rapporto con la Chiesa gerarchica non è un problema solo per i fedeli laici ma per gli stessi sacerdoti che lavorano “in cura d’anime”: si evince facilmente, soprattutto dal non detto degli intervistati, la fatica della relazione con i superiori. Un fatto sempre accaduto, ma che si acuisce visti i numeri molto bassi di nuovi preti. Da qui il timore di essere riconosciuti quando si raccontano anonimamente le proprie perplessità, il desiderio di occuparsi di aspetti più importanti delle diatribe di Curia, la difficoltà di coltivare lo spirito critico.
Eppure chi compie questa scelta dimostra un grande coraggio, come è per chiunque decide di seguire, nonostante tutto, i propri ideali.
Piergiorgio Cattani
Voglia di gioco
La giornata di un sacerdote ha un ritmo incalzante. Quando si è al timone di più parrocchie è inevitabile correre qua e là per gestire al meglio tutti i compiti. C’è la visita agli ammalati. Poi alla casa di riposo. Per parlare con gli anziani, non per confessarli, specifica don Marco. Affascina l’argomentare spirituale di questi giovani preti. Nelle parole scandite e soppesate, che viaggiano nei cieli, fa capolino la voglia di togliere per un po’ l’abito talare e tuffarsi in spazi di libertà. Perché c’è un desiderio che il ruolo non ha scalfito e batte forte dentro: quello di sentirsi ragazzi. “Dopo la Messa - racconta don Marco - spesso arriva un mio socio con la moto. Così al bar ci scappa qualche partita di ping pong. L’altra sera siamo stati lì fino a tardi. Poi, tornato in canonica, ho trovato il fuoco spento, era freddo, non c’era niente per cena. Ma mi ero divertito tanto”.
La testimonianza di un ex prete
“Nella scelta di lasciare fu determinante la prevaricazione dell’esser prete sull’umanità della persona. Come uomo avrei agito in un modo, ma il ruolo era una specie di gendarme che mi dava l’alt. Dovevo portare una maschera, recitare una commedia. Mi ribellai a ciò”.
Correva l’anno 1972, quando Pier Giorgio Rauzi, dopo 12 anni di onorato servizio in parrocchia, decise di abbandonare la tonaca. Una scelta che maturò in modo convinto durante questo percorso. Oggi Rauzi è docente di Sociologia della conoscenza all’Università di Trento.”Io credevo nei principi del Vangelo, - spiega il sociologo - ma non volevo essere un professionista del sacro, poiché mi appariva come una cosa insopportabile, una corporazione. Se uno prende il Vangelo e tutta la Scrittura, non ci trova dentro il prete. Ricordo che per me era terrificante recitare tutti i giorni il breviario con letture e preghiere. A volte si faceva insieme ad altri preti ed ognuno leggeva per sé. Si recitava in fretta, l’importante era essere a posto con la coscienza, anche se avrei voluto soffermarmi sul significato. Insomma ho capito che si può essere buoni cristiani senza un ruolo che ti sia d’impaccio”.
Cosa direbbe a un giovane che decide di farsi prete?
“Gli darei tutta la mia solidarietà. Gli direi che gli voglio molto bene. Nella penuria di vocazioni la nuova soggettività dei preti m’incuriosisce. In un’indagine sulle ordinazioni dei sacerdoti, dal secondo dopoguerra agli anni ‘90, incidevano due variabili sociologiche: la famiglia numerosa e l’esser figli di un coltivatore diretto. Per il contadino, il figlio prete era un salto da una classe subalterna ad una dominante. Quando queste variabili sono sparite sono calate anche le vocazioni. Io ho molti dubbi, comunque, che i preti d’oggi rispondano alla pura chiamata di Dio”.
Oggi che significato ha la figura del sacerdote?
“In una ricerca degli anni ‘70 il prete contava più del sindaco. Oggi la percentuale sarebbe insignificante. La Chiesa istituzionale è vissuta come un’agenzia di servizio. In certi momenti della vita si ha bisogno del prete. Perché il sacro rassicura. A lui ci si affida anche per la socializzazione del figlio, perché una figura morale gli può insegnare che non si uccide e non si ruba. In una società secolarizzata questi agganci sono piccoli, ma molto forti. C’è uno scritto di Bonhoeffer, un teologo luterano ucciso da Hitler, che contestava la presenza della fede religiosa nei momenti di fragilità dell’uomo. L’esperienza del Vangelo doveva essere calata nelle occasioni di festa e gioia. Altrimenti è come l’avvoltoio che aspetta il cadavere”.
Si sente ancora un prete?
“Io del passato non butto via niente. Tradotto: se tornassi indietro rifarei lo stesso percorso, perché mi ha dato un accumulo di ricchezza intellettuale. Oggi quel ruolo non avrei nessuna voglia di ricoprirlo. Però non faccio mistero che nelle mie competenze quotidiane, anche in famiglia, questo bagaglio esce fuori”.
Cosa non sopporta?
“Gli intrighi politici, non tanto dei preti, che vedo meno invischiati, ma delle gerarchie ecclesiali. Che Ruini dica che bisogna sabotare il referendum sulla procreazione assistita è una politica di merda. Per poi dire che la gente ha obbedito a lui, quando semplicemente non è andata a votare”.