Un’Autonomia così? Meglio non averla
Dalle Acciaierie di Borgo alla riforma Dalmaso: la perdita verticale di credibilità delle strutture della Pat, il devastante debordare della politica, i disastri causati dai dirigenti proni e incompetenti. Ora la palla dovrebbe passare al Pd…
“Diossina, non ci sono pericoli” assicurano in commissione consiliare gli assessori Alberto Pacher (Ambiente) e Ugo Rossi (Sanità), basandosi sui dati dell’Appa (Agenzia provinciale protezione ambiente), cui in ogni caso chiedono “un’ulteriore campagna di misurazione del livello d’inquinamento”. Il cittadino che legge la notizia che fa? Non ci crede. Questo il 12 dicembre.
Quattro giorni dopo si apprende che il Comitato Barbieri Sleali e l’Associazione Medici per l’Ambiente hanno ottenuto dall’Istituto Mario Negri di Milano e dall’Università di Lione la disponibilità a misurare, e gratuitamente, gli inquinamenti da diossine e metalli pesanti. Il cittadino tira un sospiro di sollievo.
In questa successione di eventi sta la débacle dell’Autonomia che si è consumata attorno alle Acciaierie di Borgo Valsugana: i politici, i tecnici, le istituzioni trentine si sono mangiati ogni credibilità, per avere qualche certezza sui pericoli per la nostra salute ci si deve rivolgere fuori provincia. Forse in Piazza Dante, chiusi nell’autoreferenzialità dei propri giochi, non se ne sono resi conto. Ma la vicenda di Borgo, che segue quella della discarica di Monte Zaccon, dice una cosa tremenda: un’Autonomia così praticata, è meglio se non ci fosse.
La foglia di fico
Vediamo i fatti, come li ha fatti emergere la magistratura (coadiuvata dai Corpi della Forestale veneti, non da quelli trentini), limitandoci agli ultimi anni. Le acciaierie, in quanto potenzialmente molto inquinanti, sono soggette alla Autorizzazione Integrale Ambientale (AIA) che viene rilasciata valutando l’insieme degli impatti ambientali, quindi in teoria un’autorizzazione particolarmente rigorosa, che il Trentino, primo in Italia, applica nel 2005 attraverso l’Appa. Nel 2005 per la diossina il limite era di 10.000 nanogrammi per metro cubo (ng/m3), e l’Appa lodevolmente ne applica uno più severo, 20 volte inferiore, 500 ng/m3. Solo che nel frattempo le conoscenze si erano evolute, si era meglio valutata l’estrema cancerogenicità della diossina, e la legislazione aveva drasticamente ridotto il limite, di ben 1000 volte, 0,5 ng/m3. L’Appa lo sa (la magistratura ha appurato che nei Pc dei tecnici indagati c’erano corrispondenze in proposito) ma fa finta di niente, e lascia il limite invariato. La cosa è talmente grossa che neanche la direzione delle Acciaierie si fida di una tale autorizzazione, e quando le analisi che lei commissiona danno risultati di gran lunga inferiori al limite dell’Appa ma superiori al limite che dovrebbe essere applicato, si industria per taroccarli.
Ma questo non è l’unico “buco” dell’Appa. Come sanno gli abitanti della Valsugana e dimostrano le fotografie, tra cui quelle scattate dai periti dei magistrati, i fumi - e quindi l’inquinamento - non escono solo dal camino, ma anche dal tetto. L’Appa invece non lo sa, e i controlli li fa solo sul camino; dal tetto la diossina è in libera uscita. L’Appa non è neanche a conoscenza dell’esistenza di tre canali di scarico che, senza filtri e senza controlli, sversano liquidi inquinanti.
Ma anche a prescindere da tutte queste omissioni, gli stessi controlli dell’Appa sono una burletta. Anche qui viene ribadito quanto già visto in tanti altri casi: i controlli vengono effettuati solo dopo congruo preavviso. Sono gli stessi operai a testimoniarlo: “Dell’arrivo dei tecnici dell’Appa lo sapevamo, la direzione ci ordinava di caricare lamierino e altro materiale pulito”, cioè poco inquinante. Insomma l’Appa funge da foglia di fico. Come si è giunti a questo?
Le reali finalità
A questo punto, a prescindere dalle eventuali responsabilità penali, la dirigenza andrebbe rimossa. Ma le responsabilità vanno oltre. Riguardano chi questi dirigenti ha nominato, gli input politici che gli ha dato, le finalità che ha fatto perseguire. Perché è chiaro che l’Appa non è concepita a tutela dell’ambiente, ma a tutela delle attività che impattano sull’ambiente.
Conosciamo bene i meccanismi, anche culturali, che si instaurano. La politica pretende che l’Agenzia si faccia carico di problemi politici, che non le devono competere, come ad esempio la salvaguardia dell’occupazione. Per cui i controlli non devono più appurare la nuda realtà, devono invece descriverne una che permetta di salvare capra e cavoli. E la competenza dei dirigenti sta tutta nella capacità di arrivare al risultato desiderato.
La controprova l’abbiamo già avuta. In un caso di alcuni anni fa, gli sversamenti delle Distillerie Cipriani, l’Appa effettuò controlli a sorpresa: emerse una situazione intollerabile, che portò alla chiusura dell’azienda da parte della magistratura. L’esito fece infuriare il mondo politico, a iniziare dall’assessore competente (Mauro Gilmozzi). Evidentemente da allora l’Appa si è del tutto normalizzata.
Scuola: la consultazione burletta
Analoga dinamica vediamo nella riforma Dalmaso della scuola. Ricapitolando i punti chiave (già visti sul numero scorso, vedi “Un solo ordine: tagliare! E taglieremo!”) la (contro?)riforma si caratterizza per una scuola più lunga, in cui il biennio delle superiori, molto meno caratterizzato nei vari indirizzi, si prefigura come un completamento della scuola dell’obbligo (in linea con la tendenza dell’università, dove la laurea triennale è poco più di un liceo e la formazione specifica viene spostata alla laurea specialistica e ai corsi post-laurea e al dottorato, spingendo il ciclo dell’istruzione fino alla soglia dei trent’anni); meno ore a scuola, secondo il “modello Salvaterra” (precedente assessore all’istruzione e boss dell’associazionismo giovanile), per cui i ragazzi devono completare la formazione non a scuola, ma nella società (cioè, nelle associazioni e nei corsi privati, per chi ne ha la possibilità, nei bar per tutti gli altri); meno ore nei laboratori, costati un occhio della testa, ma ora si vuole risparmiare (sugli insegnanti, non sulle costruzioni); eliminazione degli istituti professionali e la diaspora dei relativi studenti (duemila) i più bravi negli istituti tecnici, gli altri nella formazione professionale (privata, per la quale c’è sempre un occhio di riguardo).
Tutti questi obiettivi possono essere condivisi o meno (noi non li condividiamo); il punto è che sono stati perseguiti attraverso una consultazione burletta, una presa in giro di centinaia di insegnanti fintamente coinvolti; in realtà le decisioni sono state prese dalla struttura provinciale e imposte al mondo della scuola e anche a quello della politica, attraverso un atto d’imperio: voi discutete pure sui dettagli, ma ormai noi abbiamo deciso così. Noi chi? Qui sta il problema.
Il pool di cervelli che ha confezionato il prodotto è fatto di dirigenti provinciali dalla dubbia competenza: come Carlo Basani, occupatosi di tutt’altro in decenni di servizio in Provincia, ma imposto all’Istruzione da Dellai, contro il parere dell’assessora Dalmaso; o come Paolo Renna, insegnante che ci risulta ben poco apprezzato da studenti e colleghi, dedito alla politica invece che alla scuola, ma proprio per questo promosso prima a dirigente scolastico, poi ai vertici dell’assessorato. Anche qui siamo alle solite: la promozione dei fedeli e incompetenti. Anzi peggio: a tali persone si affida il compito di ridisegnare, con atto d’autorità, l’istruzione trentina.
A questo punto, che la scuola si ribelli è doveroso.
Il crollo di credibilità
I due casi, controlli ambientali e riforma dell’istruzione, evidenziano lo stesso punto critico: il logorarsi della struttura provinciale, nei suoi uomini e nella sua credibilità. All’Appa in Trentino non crede più nessuno; nella scuola i dirigenti, ossia i presidi, sono degli yes man, la Sovrintendenza scolastica è stata soppressa, tutto fa capo a super dirigenti provinciali ogni giorno spernacchiati nelle aule insegnanti. Un disastro insomma, per un’Autonomia che proprio dell’autorevolezza della struttura burocratica ha sempre fatto un grosso punto di merito; anzi, una delle ragioni di essere. Un disastro però, in cui c’è del metodo.
Tutto va fatto risalire al 2000 quando, di fronte al no del Comitato per la Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) agli impianti in Val Jumela, Dellai - per la prima volta nella storia della Pat - se ne frega e dà lui il via libera al progetto, quindi epura i membri del Comitato, ne nomina di nuovi, e da questi si fa rilasciare il parere positivo. Negli uffici della Provincia il segnale è chiaro: per non essere emarginati, per fare carriera, bisogna seguire i desideri del Presidente. Le successive nomine/promozioni chiariscono ancor meglio il concetto: la competenza, se è d’intralcio alla fedeltà, è una colpa. La struttura provinciale perde la sua autonomia, i vari organismi dovranno rispondere non secondo scienza e coscienza, ma secondo le aspettative presidenziali.
Il Pd a che serve?
In questo quadro assume ruolo centrale il Partito Democratico. Assume? Dovrebbe assumere. Anzitutto per una questione di logica politica: è il primo partito della coalizione al governo, quindi ne porta in pieno la responsabilità; ma concorre ben poco alla determinazione della linea, tutta in mano a Dellai. È lui che stabilisce le linee guida, lui che governa con pugno d’acciaio la struttura (imponendo perfino agli assessori del Pd, dirigenti a lui fedeli e a loro invisi, oltre a Basani imposto alla Dalmaso, c’è stato il caso di Paolo Nardelli, stimato dirigente chiamato da Pacher all’Ambiente e rimosso da Dellai), si impone in giunta agli assessori, arriva perfino a decidere sulle interrogazioni che la maggioranza (cioè i consiglieri del Pd) presentano in aula.
A questo punto, il Pd, a che serve? I temi in oggetto (ambiente, istruzione, funzionamento delle istituzioni) dovrebbero essere elementi portanti del suo programma. E se su essi il Pd non ha una linea, o ne subisce passivamente una confliggente con la propria, è la sua stessa ragion d’essere a scolorire. Per esempio, di scuola il PD al suo interno ha discusso molto, con animati incontri con e tra insegnanti, talora alla presenza dell’assessora Dalmaso. Bene, in tutti questi incontri mai si è avuto sentore dei reali contenuti della riforma che in parallelo veniva cucinata dai dirigenti dell’assessorato e che poi ci si è trovati a dover digerire. Appunto: allora, riunirsi al Pd, che senso ha?
Di qui una serie di conflittualità, che le sirene dellaiane di volta in volta rappresentano come “personalismi” (ora del Presidente del Consiglio Giovanni Kessler, ora del consigliere Bruno Dorigatti, ora del capogruppo Luca Zeni) naturalmente fuori luogo. In realtà si tratta di normale dialettica politica, anzi, di timidi tentativi di una forza politica (maggioritaria solo come numeri) di dare segni di vita.
In realtà Dellai è più debole di quanto si creda. Le recenti elezioni a Cles hanno dimostrato che anche nelle valli il Pd, se supportato da persone e idee credibili, può vincere, anche contro l’Upt (e Dellai, che in campagna elettorale a Cles si era molto speso). E al contempo il progetto nazionale dell’Api (dove Dellai è terzo leader, dopo Rutelli e Tabacci) segna il passo, anzi è entrato in crisi: scavalcato a sinistra da Casini che propone contro Berlusconi una sorta di riedizione del Cln con dentro tutti fino a Di Pietro, non si capisce cosa sia, come si caratterizzi e dove si situi, tra Casini e Berlusconi. A questo punto per Dellai, appannate le chances nazionali, è vitale il prosieguo positivo del governo provinciale, e quindi i buoni rapporti con il maggior alleato, che andrebbe tenuto nella dovuta considerazione.
Nicoletti (Pd): “Si è premiata la fedeltà sulla competenza”
Ecco quindi riaprirsi per il Pd nuovi spazi. Che però deve decidersi ad occupare, partendo da una difesa tenace delle proprie linee programmatiche, peraltro condivise dalla grande maggioranza della popolazione. Di questo parliamo con Michele Nicoletti, il nuovo segretario uscito - per pochi voti - vincitore dalle primarie, e che contro le prevalenti fosche previsioni, è riuscito ad instaurare una leadership unitaria e (almeno finora) concorde e propositiva con gli altri candidati, Tonini e Pinter.
Con lui parliamo di questi problemi, partendo dalla perdita di autonomia di funzionari e dirigenti provinciali.
“Siamo consapevoli di questi temi, emersi durante le primarie e nei dibattiti nei circoli. Alla pretesa della Pat di porsi come entità autonoma, con forme di statualità che l’Autonomia non ha mai avuto, non corrisponde un apparato all’altezza. Ci sono sì buone personalità e competenze, ma in questi anni è stata premiata la fedeltà anziché la competenza e la libertà di pensiero. Ora se ne paga lo scotto: se occorre spirito innovatore, non si è all’altezza, né rispetto agli standard europei né rispetto a quelli italiani. Nell’apparato - mi dicono - si ha paura di esprimersi, il che è negativo, perché la ricerca della miglior soluzione ha bisogno di dialettica. È ora che la politica si renda conto che deve rispettare la burocrazia”.
Come cambiare? E chi può farsi carico del cambiamento?
“Sta a noi, che fortunatamente siamo al governo.”
A dire il vero non è facile sapere che pensa il Pd. O tace o è appiattito sulla Giunta.
“Dobbiamo anzitutto recuperare un nostro spazio politico, una linea che dobbiamo rendere pubblica, anche se non necessariamente dobbiamo imporla. Ad esempio, sul tema cruciale dell’intesa tra governo e Autonomia, questa linea, non concorde con quella di Dellai, l’abbiamo espressa. Poi c’è una questione di metodo: di fronte alla complessità dei problemi dobbiamo promuoverne lo studio, il confronto con gli operatori, il che è mancato clamorosamente sulla vicenda della scuola, e su di essa a gennaio promuoveremo una giornata di confronto”.
Esiste il problema Dellai, un presidente che ha sommato su di sé un’abnorme concentrazione di potere, che esercita con energica decisione?
“Con la riforma elettorale, l’elezione diretta del presidente e la nomina di assessori di sua fiducia questa concentrazione c’è e suscita qualche preoccupazione: potere politico, controllo della struttura, condizionamento di corpi della società (dai medici ai presidi) anche attraverso la politica dei contributi. È un modello che va tenuto sotto controllo. Anche perché se Dellai è un decisionista, non vorrei che gli succedesse un autoritario”.
E quindi?
“L’esigenza di governare non deve tradursi in perdita di autonomia e libertà della società, fondamentali per il suo sviluppo. Dobbiamo quindi introdurre elementi di autonomia istituzionale, a iniziare dal ruolo - da noi già posto - del Consiglio provinciale, ma anche dei consigli comunali rispetto ai sindaci. Come pure autonomia della scuola, che non può essere trattata come appendice della Provincia; e si porrà anche il tema dell’autonomia di università e ricerca.
Abbiamo sostenuto questi 11 anni di governo Dellai, isola di centrosinistra in un Nord del centrodestra; e lo sosteniamo tuttora. Però il nostro ruolo è promuovere l’innovazione oltre la governabilità. Innovazione a tutti i livelli: economico, politico, istituzionale, culturale. Bisogna modernizzare la struttura del Trentino”.
Acciaierie: e il sindacato?
Siamo arrivati dove non si doveva arrivare: allo scontro fra le vittime di un sistema, con gli operai contrapposti agli ambientalisti e ai comitati che lavorano per tutelare la salute pubblica.
Nel caso delle Acciaierie di Borgo è evidente come mille responsabilità ricadano sulla Provincia e sui suoi servizi, e sul precedente sindaco del paese. Da anni i comitati e le associazioni denunciavano quanto avveniva attorno alle acciaierie: non si trattava solo di rilascio di fumi inquinanti, si parlava di uso improprio di discariche, di bonifiche agrarie. Le risposte degli enti, quando arrivavano, sono sempre state evasive. Così si è continuato, per anni.
Ma grandi responsabilità, culturali e sociali ricadono anche sui sindacati. In troppi casi essi hanno eluso i problemi ambientali, isolando le poche voci che al loro interno ponevano temi strategici: la difesa della salute dei cittadini e dei lavoratori contro l’uso improprio delle acque e del territorio.
Sarebbe compito del sindacato ora ricucire la frattura che divide gli operai delle Acciaierie dal comune sentire delle popolazioni della Valsugana; portare le istituzioni e l’imprenditoria al dovere della verità, alla ricerca di un progetto condiviso che liberi la valle dalla presenza di corpi estranei, individuando nuove opportunità occupazionali, garantendo che nessun lavoratore rimanga nemmeno sottoccupato, e specialmente costruendo un progetto che impedisca per sempre l’arrivo in Provincia di aziende che non offrano garanzie certe in tema di salute pubblica.
Luigi Casanova
Le gerarchie feudali della scuola trentina
La longa manus del potere politico provinciale sulla scuola trentina emerge anche da un elemento singolare, presente all’interno dell’ultimo bando di concorso per dirigente scolastico in Provincia di Trento. Nella valutazione dei titoli validi per la stesura di una prima graduatoria dei candidati, il regolamento assegna: 3,3 punti per ogni anno di lavoro svolto come docente in una qualsiasi scuola della Provincia e 3,4 punti per ogni anno di lavoro tenuto presso il Dipartimento Istruzione di Trento o presso l’Iprase (altro organo provinciale). Per qualsiasi anno di lavoro tenuto in una scuola del resto d’Italia, invece, il punteggio previsto è di 1,5 punti. È evidente a tutti, quindi, il diverso trattamento riservato a coloro che hanno lavorato in Provincia rispetto a chi proviene da fuori.
Le motivazioni di una simile decisione non riguardano tanto la sbandierata tutela verso chi ha offerto negli anni la propria professionalità al territorio trentino, ma sono prettamente politiche: attraverso questo piccolo segnale si intende indicare ai futuri dirigenti scolastici che il loro compito consisterà nel guidare le scuole con assoluta fedeltà e prostrazione al potere politico provinciale.
Il fermento suscitato negli istituti superiori trentini dalla “riforma” Dalmaso, ad esempio, è stato avversato dai dirigenti scolastici (tranne rare eccezioni), timorosi che le voci dei propri docenti potessero risultare sgradite a Piazza Dante, da cui dipendono in tutto e per tutto.
D’altro canto, il dirigente scolastico assomiglia sempre più al valvassino di medievale memoria, ultimo scalino della gerarchia feudale. Sopra di lui, i valvassori (i dirigenti provinciali come i vari Turri, Renna e, soprattutto, Ceccato e Basani). Più in alto, il vassallo (l’assessore). In cima, il Principe. Sotto, esclusi, i docenti, gli studenti e la didattica. Con buona pace di chi ancora crede nell’autonomia scolastica.