Essere socialisti oggi
Crisi, significato e valore del socialismo di oggi.
Stimolato dai messaggi di due "compagni" socialisti (v. Ballardini, non mi vergogno di essere socialista Il sarcasmo dell'ex-socialista Ballardini), provo a riflettere su cosa significhi oggi essere socialisti. I due messaggi hanno un vizio comune: di essere rivolti al passato. E’ certamente un utile esercizio riandare ai fatti di un tempo, valutarli con la freddezza di una mente sgombera da passioni e risentimenti. Ma è questo l’atteggiamento dello storico, certamente non inutile anche per oggi se la storia dev’essere maestra di vita e monito a non ricadere negli stessi errori trascorsi. Ma i problemi di oggi sono assai diversi, diversa essendo la situazione in cui ci muoviamo: è illusorio credere di poter rispondere alle esigenze dei nostri tempi semplicemente riesumando sigle e progetti anche gloriosi di un tempo che fu. Come appunto la rinascita del nuovo Partito Socialista Italiano di Boselli e compagni.
Cominciamo a chiederci per quale motivo tutti, o quasi, i partiti della tradizione socialista europea sono oggi in difficoltà. Tolta la bella eccezione di Zapatero in Spagna, in Inghilterra Gordon Brown sta tentando di rimediare ai disastri recati al Labour Party da Blair, che aveva ridotto la Gran Bretagna ad essere l’ultimo stato della Federazione americana. In Germania la scissione di Lafontaine, evento eccezionale in quel paese, ha costretto la SPD ad un’alleanza coi conservatori. In Francia, nel Benelux e persino in Scandinavia le sorti dei partiti socialisti sono anche peggiori. In questi giorni abbiamo visto in Polonia una partita giocata fra due partiti di destra con i socialisti esclusi dal gioco, ed anche nella Confederazione Elvetica i socialisti sono calati per lasciare spazio ai Verdi.
La ragione di questo quadro sconsolante sta, a mio avviso, in una deficienza culturale del movimento, che non ha saputo supplire, con una elaborazione di analisi e proposte aggiornate, al decadimento della profezia socialista come era stata concepita sul finire dell’800.
La stessa sorte, anzi ancor peggiore, è toccata ai partiti comunisti. Se i Brand, i Kreisky, i Palme erano gli uomini che avevano guidato il movimento socialista europeo nel ‘900, a rappresentare quello comunista non furono tanto Togliatti e Berlinguer, quanto piuttosto Stalin, Breznev, Mao. Ed appunto questi nomi, e ciò che essi hanno rappresentato, ci aiutano a capire le ragioni della crisi di tutto il movimento che nel ‘900 si era incarnato in due filoni, come avviene anche in tutte le religioni, fra di loro in combutta ma simili per le premesse e per i fini. Il crollo dell’URSS ha trascinato con sé il comunismo mondiale, ma ha messo in discussione anche il progetto riformatore delle socialdemocrazie.
Gli uni e gli altri miravano al superamento del capitalismo inteso come sistema economico basato sul libero mercato e regolato dalla legge del profitto. I socialisti hanno creato con metodo democratico lo stato sociale che ha conferito un volto umano al capitalismo senza però superarlo. I comunisti l’hanno travolto con la violenza rivoluzionaria costruendo un sistema economico depurato dallo stimolo del profitto privato e retto da un rigido dirigismo statale, ma non ha funzionato ed è crollato. La reazione è stata furiosa e il trionfo dell’ideologia del libero mercato e del privilegio del capitale ha finito per investire criticamente anche lo stato sociale. Non a caso oggi i riflettori sono puntati su pensioni, costo del lavoro e spesa pubblica, che dovrebbero diminuire per favorire la competitività della impresa e del sistema italiano.
L’utopia dell’uscita dal capitalismo è dunque tramontata. Non fa più parte nemmeno del bagaglio ideale della cosiddetta sinistra radicale. E’ covata forse da gruppetti minoritari esterni alle istituzioni che coltivano irrealistici progetti eversivi, e che sono sintomo di una nevrosi che affligge una società opulenta ed ingiusta. Il problema dunque si è ridotto ad essere quello di eliminare o almeno contenere e mitigare gli effetti perversi del sistema capitalistico. A ciò è chiamata la politica, una politica di sinistra, una politica socialista.
I piani di intervento possono essere molteplici. Uno è la creazione e lo sviluppo di imprese che privilegiano il lavoro anziché il capitale, come le cooperative. Altro è prerogativa del movimento sindacale: se i metalmeccanici hanno un salario vergognoso, non può rimediarvi il governo, ma il sindacato di categoria che ha questo specifico compito. Il Governo può fare molto, anche se le dinamiche del mercato oggi hanno dimensioni transnazionali e quindi una vigilanza su di esse esige almeno un governo europeo, di là da venire.
Ma anche il Governo nazionale può contrastare gli effetti selvaggi dell’economia se dispone di un adeguato ed unitario consenso popolare. A questo devono provvedere i partiti. Da qui la necessità di unificarli, e l’estrema pericolosità di frammentarli. Unirsi con gli ex democristiani? Non lo aveva fatto anche il PSI con i centro-sinistra degli anni ’60, e il PCI col compromesso storico? Dove sta lo scandalo oggi, che questa unione avviene anche per tenere lontano dal potere il berlusconismo arraffone? E non è vero che quanto più sinistra e laicità è presente nel PD tanto meno peseranno in esso le posizioni moderate e confessionali? Ecco, aderire al Partito Democratico è oggi un modo responsabile e maturo di essere socialisti.