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QT n. 4, 19 febbraio 2000 Servizi

Dal Midas ad Hammamet: le speranze tradite

A 25 anni dall’elezione a segretario del PSI, forse si può leggere la vicenda politica di Craxi senza pregiudizi ma anche senza condiscendenze.

"Placate le emozioni, le passioni e i risentimenti provocati dalla morte di Bettino Craxi, è possibile, a un quarto di secolo dalla sua elezione a segretario del PSI, leggerne in modo non fazioso, ma nemmeno fideisticamente accondiscendente, la parabola politica? Può aiutare, in questo sforzo, la lettura di tre libri scritti da intellettuali che non furono pregiudizialmente ostili al leader socialista. Anzi, per quasi un decennio dalle colonne di Mondo Operaio, la rivista teorica del PSI, essi svilupparono una battaglia per il rinnovamento della sinistra italiana con la dissacrazione di antichi tabù e diedero con ciò al fiero autonomismo socialista di Craxi, una legittimazione culturale. Sono i libri di Luciano Cafagna "La grande slavina", di Federico Coen e Paolo Borioni "Le Cassandre di Mondo Operaio" e quello recentissimo di Massimo Salvadori "La sinistra nella storia d’Italia".

Ha scritto Luciano Cafagna: "Craxi fu, per molti, una lunga attesa. Ma, mentre si attendeva e si continuava ad attendere, finì non solo il suo lungo governo, bensì la sua carriera politica".

Alle elezioni politiche del luglio 1976 il PSI aveva ottenuto un risultato elettorale quanto mai deludente, fermo al 9,6%, con i comunisti giunti al maggior successo da essi mai ottenuto con il 34,4. In quel clima di crisi profonda di un partito frustrato e deluso, sotto la soglia del 10%, ridotto a subire l’iniziativa politica della DC e del PCI, Bettino Craxi, fu eletto segretario, con una larga intesa fra le varie correnti del partito.

I socialisti italiani avevano da tempo definitivamente rotto col mondo del socialismo reale e accolto il metodo e i valori della democrazia occidentale. Il loro approccio ad un’organica concezione riformista appariva ancora confuso anche nel periodo più fertile dell’elaborazione programmatica del primo centro-sinistra.

Per una stagione sembrò che la segreteria di Craxi potesse far superare al PSI l’handicap programmatico ed ideologico, conciliando la tradizione autonomista con le battaglie della sinistra socialista per un socialismo antiburocratico e autogestionario. Nell’illustrare le linee fondamentali della sua segreteria Bettino Craxi, alla fine del 1976, espresse in questi termini il progetto del partito: "Noi vogliamo una società nella quale la partecipazione popolare sia istituzionalizzata a tutti i livelli, in cui il potere delle oligarchie sia ridotto ai minimi termini fino a scomparire intanto sottoposto a precisi controlli e collegato alle esigenze funzionali della società. Scartata la soluzione collettivistica, che anziché eliminare la separazione tra potere e cittadini la accentua privando questi ultimi anche della democrazia politica non abbiamo davanti a noi che una via se vogliamo combinare la programmazione democratica con il decentramento dei servizi e l’autogestione delle unità produttive. La ricerca socialista deve dirigersi verso un progetto autogestionario.

Era la riproposizione, 40 anni dopo, del socialismo liberale di Carlo Rosselli. Una linea politica che fu riproposta al congresso di Torino del 1978, quello del "L’Alternativa dei socialisti", con Craxi che affermava: "Se vogliamo procedere verso il pluralismo socialista, dobbiamo muoverci in direzione opposta a quella indicata dal leninismo: dobbiamo diffondere il più possibile il potere economico, politico e culturale".

Un anno dopo, nelle elezioni politiche del 1979, il PCI subiva una perdita secca, la DC teneva saldamente al centro, il PSI restava al palo. Una sola strada avrebbe potuto dare uno sbocco in maniera qualitativa ai risultati elettorali di quell’anno: la creazione di un’alternativa di governo perseguita da un’opposizione democratica unificata all’insegna dell’eurosocialismo. Furono invece poste, come nota Massimo Salvadori, le premesse di quanto sarebbe avvenuto nel decennio successivo, con la corresponsabilità di tutti i maggiori partiti e delle loro leadership: "Il maggior partito di opposizione sarebbe stato condannato a consumarsi nella crisi del comunismo; il partito socialista sarebbe rimasto ancorato alla posizione di abile sfruttatore dei guasti di un sistema politico malato e il maggior partito di governo si sarebbe ridotto a difendere un sistema di potere minacciato dalle indebite pretese dell’alleato tanto necessario quanto scomodo, perché sottrattosi al vincolo di subalternità cui lo si sarebbe voluto destinato".

Craxi decide di chiudere una fase politica: quella della contesa a sinistra sul terreno del duro confronto ideologico. Il congresso di Palermo del 1981e il ritorno dei socialisti al governo con la DC di Forlani, sostituirono molte parole d’ordine. Si cominciava a mettere all’incasso la straordinaria "rendita di posizione" che il PSI poteva ottenere dall’alleanza diretta con la DC, cui bisognava far pagare il giusto prezzo in nome della "pari dignità". A Palermo fu sanzionata, con l’elezione diretta del segretario, il sovrastante ruolo del leader rispetto ad ogni altra istanza di partito. Il PSI diventò un partito retto da una leadership via via più monocratica, legittimata dalla riconosciuta superiorità del capo, capace di portare un partito elettoralmente debole ad insperate posizioni di potere.

Le elezioni politiche del 1983 segnarono un forte arretramento della DC, una flessione del PCI e ad un incremento, dal 9,8 all’ 11,4% per il PSI. Si apriva la stagione di Craxi capo del governo.

Con obiettività Salvadori ricorda i risultati positivi del primo governo a guida socialista e di più lunga durata nella storia della Repubblica: "Risultati positivi si ebbero nella lotta all’inflazione e all’alto costo del lavoro, anche se la dilatazione della spesa pubblica continuò senza freni. Un successo fu la vittoria conseguita, in uno scontro quanto mai aspro con il PCI, col referendum del 1985 sulla scala mobile. Un ruolo attivo ebbe Craxi nell’integrazione dell’Italia nel sistema economico europeo con la firma a Milano dell’Atto Unico del 1985. La fermezza e la dignità nazionale si espressero con "Sigonella" e con la condanna dell’invasione USA di Grenada".

Ma i "talloni d’Achille" di Craxi, del PSI e della Repubblica rimasero irrisolti. Erano i temi della "Grande riforma" e della questione morale. Commentando l’incarico di formare il Governo dato da Pertini a Craxi, il direttore di Mondo Operaio Coen scriveva: "Si tratta di assegnare a questa legislatura un compito essenzialmente costituente. La presidenza socialista avrebbe una legittimazione politica e non solo numerica, come espressione di un disegno politico tendente a promuovere e incanalare per il verso giusto l’evoluzione in atto nel quadro politico in direzione dell’alternativa e dell’alternanza".

A proposito della questione morale, sulla stessa rivista (del partito quindi e non certo di una parte avversa), pochi mesi prima si scriveva: "C’è stata per vari motivi una sottovalutazione dei problemi della moralizzazione della vita pubblica in generale e dei problemi che questi problemi non risolti hanno, in particolare, nella vita interna del partito".

La lenta onda lunga dei successi elettorali portarono il PSI alla soglia del 15% nelle elezioni europee del1989, ma l’inadeguatezza di propositi su questi due temi fu fatale a Craxi e al PSI.

Scrive su questo Salvadori: "Il progetto socialista della grande riforma rimase allo stato agitatorio, funzionale ad un uso tattico. In ogni caso diventato presidente del Consiglio e fattosi garante della "governabilità", la questione venne abbandonata da Craxi, poiché il mantenere forte la questione su di esso avrebbe potuto rivolgersi contro gli equilibri raggiunti nell’esercizio del potere".

E sulla questione morale Norberto Bobbio (che fatto senatore a vita da Pertini non aveva esitato ad iscriversi al gruppo socialista del Senato) su Mondo Operaio incalzava: "La mia sensazione è che sulla questione morale il PSI non abbia mai fatto niente." E poneva una considerazione che è anche una incalzante denuncia. "Non vedo quale possa essere il grande beneficio che può trarre la democrazia in Italia da un’alternativa costituita da un partito che si serve del mercato politico più o meno allo stesso modo in cui se ne serve la Democrazia Cristiana."

Poi l’ultima fase caratterizzata dal fallimento di una proposta di riforma dello Stato giocata intorno al presidenzialismo; l’incapacità, una volta acceleratasi la crisi del comunismo, di realizzare un progetto di tipo mitterrandiano; l’insuccesso dopo le elezioni del 1992 di ripetere l’alleanza con Andreotti e Forlani, cui fecero seguito l’uragano di Tangentopoli e il crollo del PSI nel contesto di quello dell’intero sistema partitico. Fu la conclusione drammatica di una stagione politica iniziata sedici anni prima nel nome dell’autogestione e del socialismo liberale.

Commenta Salvadori: "Si consumò così la triste fine del partito che dall’ultimo Ottocento aveva incarnato la principale forza di emancipazione sociale, politica e umana dei lavoratori italiani e che per tanti decenni era stato al centro della storia nazionale, passando attraverso sconfitte e successi in maniera civilmente degna".

E ancora: "Il partito aveva subito una gravissima degenerazione di carattere etico, tale da costituire un tradimento umano e politico nei confronti della storia passata del socialismo italiano". Ma, aggiunge Salvadori, "con il PSI veniva travolto anche chi aveva immesso nella cultura italiana - seppur in maniera incompiuta - elementi di un moderno socialismo riformista".

Il partito socialista alla fine degli anni ‘80, guidato ormai da 15 anni da Bettino Craxi, era giunto dunque a costituire un tale impasto di elementi positivi e negativi che non sarebbe stato possibile ad alcun chirurgo, tentare l’impossibile separazione dell’uno dall’altro. Attuale rimane ancor oggi la domanda che nel PSI fu posta prima e all’avvio dell’esperienza di Craxi e ora coinvolge tutto lo schieramento progressista: "Quale sinistra?" Nei loro saggi Salvadori, Cafagna, Coen, una volta di più rispondono che l’unico porto che la sinistra può trovare aperto è quello apprestato da quel socialismo riformista e liberale che in Italia "ha avuto ragione, ma non è mai riuscito a fare la storia".