Terrorismo e conflitto sociale
La teoria emersa in un’assemblea: l’inchiesta sulle nuove BR è una montatura, l’obiettivo sono le lotte sociali. Come se il terrorismo fosse un’invenzione.
Qualche giorno fa, partecipando ad una assemblea nella mia città, mi è capitato di star a sentire posizioni incredibili in merito ai recenti arresti per terrorismo di operai, in qualche caso infiltrati nel sindacato.
La teoria espressa con gran foga era che l’inchiesta della magistratura sarebbe una montatura, tesa a colpire settori di radicalità operaia che si vuole mettere preventivamente in ginocchio per non rischiare di trovarsi ad aver a che fare con una nuova stagione di lotte operaie e sociali, naturale reazione all’attuale politica di durezze antiproletarie.
Di fronte ad una simile incredibile mancanza di memoria storica, ci si spiega anche le prese di posizione “in difesa dei compagni arrestati” comparse qui e là, per lo più sotto forma di modeste scritte murali, prontamente ed ampliamente documentate da telegiornali e reportage televisivi, soprattutto delle televisioni berlusconiane. Sembra incredibile appunto, ma pare proprio che sia necessario mettersi a ricordare a questo paese che le Brigate Rosse del sequestro e assassinio Moro (anzi, assassinii, perché è stata fatta secca anche la scorta), e degli anni di piombo, non se le sono inventate i giudici. Ci sono state davvero, gli increduli vadano a leggersi le tonnellate di autobiografie e memorie prodotte nel frattempo dagli allora terroristi. Ed hanno fatto quello che hanno fatto, dando il contributo decisivo a chiudere la bocca ai movimenti sociali per un ventennio (anni Ottanta e Novanta). Spalancando così le porte alla Milano-da-bere, alla repubblica delle tangenti, ed infine alla egemonia berlusconian-televisiva, radicata proprio nella impraticabilità di qualunque forma di conflitto, dopo la teatralizzazione terroristica di un suo cupo e nauseante surrogato mediatico, fatto di quotidiani comunicati-stampa su ferimenti ed accoppamenti di nemici-del-popolo, categoria dagli incerti confini in cui poteva cadere chiunque, compresi operai in prima fila nelle lotte come il comunista genovese Guido Rossa.
Sì, perché c’è un nesso inscindibile fra attività terroristica e mass-media, fra terrorismo e società dell’immagine e dello spettacolo. Laddove invece non ce ne è alcuno fra terrorismo e mutamento dei rapporti di forza sociali (se non indirettamente in peggio, come abbiamo visto), fra terrorismo e conflitto sociale vero. Non c’è niente che rappresenti questa contraddizione meglio dei passi delle memorie di diversi terroristi sul loro correre, dopo le azioni, a leggere cosa ne dicevano i giornali, come unica forma loro consentita di confronto con il resto del mondo: confronto totalmente passivo, e con il manico del coltello saldamente in mano ai media. Eppure c’è un rapporto fra terrorismo italiano e fabbriche, ormai lo possiamo ben dire, dopo una storia che continua – pur fra alti e bassi – ininterrottamente dagli inizi degli anni ’Settanta, quando sono approdati a Milano Curcio & C. ed hanno subito preso contatti con ambienti della Pirelli.
Il mondo ha conosciuto, nella seconda metà del Novecento, vari tipi di terrorismo. In Europa c’è stato soprattutto quello a base etnica dell’ETA spagnola e dell’IRA nordirlandese (anche se, questo, con un indubbio sottofondo sociale, almeno agli inizi). Ma quello italiano ha senza dubbio la caratteristica di nascere intorno alle fabbriche, contendendo spazio all’attività sindacale. Sparandole addosso negli anni ’Settanta, infiltrandola adesso.
Fortunatamente, il giorno dopo dell’assemblea “immemore” di cui dicevo agli inizi, ero alla manifestazione pacifista di Vicenza, e sfilando ho avuto modo di parlare con Purin - il segretario della CGIL trentina - trovandolo invece molto colpito dall’inchiesta in corso e dalla scoperta della infiltrazione nel suo sindacato di alcuni neo-terroristi.
Certo, i numeri stanno sulle dita delle mani, a fronte dei 5 milioni di iscritti alla CGIL. Ma mi ha colpito la sua determinazione (quella espressa subito anche da Epifani) a togliere qualunque possibile erba sotto i piedi ad altri aspiranti terroristi, con una pratica rigorosa della legalità in ogni lotta. Evitando – come per altro la CGIL ha sempre fatto – qualunque tolleranza culturale nei confronti di forme anche minori di illegalità. Perché le “regole” sono un valore soprattutto per i privi di potere, che dalle regole traggono l’unica vera forma di tutela nei confronti dei potenti, quelli che delle regole possono anche far a meno, anzi fanno volentieri a meno.
Ed è forse proprio in questo intreccio fra regole e loro tendenziale svuotamento da parte del potere reale (che in fabbrica è quello del padrone), ed in una mistificata lettura di questo rapporto, che in Italia il terrorismo si riproduce da decenni intorno alle fabbriche, e si è ormai radicato in un immaginario collettivo che passa il testimone da una generazione all’altra, con la stessa forza virtuale ed irrealistica delle telenovelas. Perché nel rapporto di lavoro, nella riduzione a merce del lavoro salariato (che è vita dell’operaio), avviene una alienazione che ha in sé qualcosa di incontrollabilmente oppressivo.
In questo scambio impari si esercita un dominio totale, che ha in sé l’annullamento potenziale di qualunque interlocuzione, quindi lo svuotamento di qualunque regola, che è accordo fra soggetti astrattamente parificati nel diritto (e di svuotamenti dall’interno, negli ultimi decenni, ne abbiamo visti parecchi!).
Indubbiamente lo scambio disuguale vita/salario ha questo tallone d’Achille di oscura penombra, di tendenziale irriducibilità alla norma, che faticosamente il movimento operaio ha nei due ultimi secoli tentato di normare nei contratti di lavoro, nel diritto del lavoro e nelle regole dello stato sociale.
Fatica di Sisifo, mai giunta a compimento una volta per tutte, e di cui il lavoratore sente sulla sua pelle la precarietà. Così ogni tanto a qualche psicolabile può venir in mente di rovesciare il tavolo della trattativa sindacale per provare a praticare la penombra, l’assenza di regole.
Ma sappiamo come va a finire, abbiamo già visto chi vince e chi perde senza regole. Grazie, abbiamo già dato! Perché il movimento operaio invece ha un interesse primario per le regole, per la loro inderogabilità, per una legalità garantita dallo stato, anche nel cuore delle fabbriche. E il sindacato lo sa bene.