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QT n. 19, 11 novembre 2006 Servizi

L’Islam che non ti aspetti

Dal mondo musulmano giungono anche buone notizie...

Oltre alle cause sbagliate, ci sono quelle giuste ma sollevate in modo evidentemente strumentale o inopportuno. Come quella del genocidio armeno. Hanno buon gioco i dirigenti turchi a rinfacciare alla Francia il suo passato coloniale in Algeria e altrove (chi non ricorda gli orrori della repressione rievocati ne “La battaglia di Algeri” del grande Pontecorvo, or ora scomparso?). Neppure l’affermazione corrente che il genocidio degli armeni è stato il primo del disgraziatissimo Novecento – forse ripetuta da tutti noi per sollevarci un poco dal terribile peso (la coscienza sporca è cattiva consigliera…) dell’Olocausto - è, a ben vedere, esatta: sino al 1908 nel Congo, “colonia privata”, di re Leopoldo, re di un paese di tradizioni cristianissime, si macellavano milioni di africani in tutta tranquillità. E la macabra contabilità del più grande macello umano organizzato in Africa da cristiani è ancora in corso.

Massacro degli armeni: una fossa comune.

E’ legittimo il sospetto che si stia usando strumentalmente (e quanto maldestramente!) una causa giusta – sollecitare il mea culpa turco - per mettere un bastone tra le ruote della Turchia che scalpita non da oggi per ottenere un ingresso accelerato in Europa.

Che la Turchia debba portare a termine il necessario processo di revisione della sua non limpida storia recente e giungere al pieno riconoscimento della colpa, processo iniziato solo timidamente da qualche anno ad opera di rari e coraggiosi intellettuali, è forse lecito pretenderlo.

Ma l’atto plateale del parlamento francese con cui uno stato “processa” implicitamente la storia di un altro, ha qualcosa di abnorme, di surreale. Pensiamo un po’, se ogni Stato si mettesse in testa di fare leggi sulla storia altrui… O forse – c’è da chiedersi - l’Europa, con questa messa in stato d’accusa della storia turca, tenta inconsciamente di allontanare i riflettori sulla recente “disfatta morale” dell’Occidente, sulla vergogna di una “civiltà” uscita a pezzi dopo Guantanamo, Abu Ghrayb, le bugie sulle armi di Saddam, le vignette volgari dei giornali danesi e le magliette deprimenti di ridanciani ministri?

Anche qui l’Occidente sta giocando male: rischiamo di allontanare dall’Europa uno dei paesi musulmani che più ha creduto ai valori dell’Occidente, tentando da un secolo a questa parte, pur tra difficoltà ma con serietà e grande determinazione, di realizzarli nella società, nelle istituzioni, nel costume.

E’ quello che sta facendo anche il Marocco che, già protagonista di coraggiose riforme dei codici del diritto di famiglia tradizionale, ci ha davvero sorpreso decretando – tra la presumibile costernazione di integralisti, bigotti, ulema bacchettoni e tradizionalisti - che il velo va bandito dalle scuole e dagli uffici pubblici, persino dalle immagini scelte per i libri di testo. Insomma, il velo non è più da considerarsi un “segno” imprescindibile dell’islamicità, né un baluardo dell’onore e della dignità della donna; al contrario, diventa un emblema dell’arretratezza, qualcosa che è sentito e persino dichiarato incompatibile con la modernità.

Il premier turco Tayyip Erdogan.

Si tratta indubbiamente di un fatto nuovo, di un segno dei tempi, di un aiuto insperato per i riformisti e i laici musulmani, per quell’islam moderato che tutti auspicano venga allo scoperto. Ma si tratta anche di un incoraggiamento per i legislatori europei alle prese con decisioni difficili e contestate, talora eccessivamente frenati dal timore di offendere l’identità religiosa, di attizzare la suscettibilità degli emigrati. Le prese di posizione analoghe seguite nelle ultime settimane in Germania e in Gran Bretagna – ampiamente appoggiate o addirittura promosse dalla parte moderata e progressista delle comunità musulmane locali - vanno nello stesso senso.

A proposito di islam moderato, una ulteriore importante novità è rappresentata dalla lettera delle autorità religiose islamiche a Papa Benedetto XVI (pubblicata sulla rivista americana “Islamic Magazine”). Si tratta in realtà di un documento forse più importante per le circostanze e modalità della redazione che per il contenuto in sé, contenuto che è comunque di grande interesse.

Intanto è fatto piuttosto eccezionale una esternazione collettiva, e internazionale, di questo tipo nella storia, anche recente, del mondo musulmano. Non esistendo nel mondo sunnita (il 90% dell’islam attuale) una autorità religiosa centrale dotata di poteri magisteriali e sanzionatori, in pratica ogni imam o mufti di qualche seguito e prestigio personale può emettere sentenze e dichiarazioni che, tuttavia, vincolano soltanto i fedeli che ad essi fanno riferimento come guida spirituale o pastorale. Neppure un imam dell’egiziana al-Azhar, la più prestigiosa università religiosa del mondo sunnita, o il Gran Mufti di Turchia, possono vincolare con le loro dichiarazioni e indicazioni pastorali più musulmani di quelli dei rispettivi paesi. Le dichiarazioni collettive su materie religiose sono poi una pratica molto rara; se ne trovano sì, ma per lo più di natura sindacale-corporativa: anche gli ulema e i dottori islamici hanno nei vari paesi le loro organizzazioni di categoria.

Se si scorre la lista dei firmatari della lettera al Papa si trovano quelle di alti dignitari religiosi come i Gran Mufti di Turchia, Russia, Bosnia, Croazia, Kossovo, Uzbekistan e Oman per i sunniti; e poi altri dignitari di osservanza sciita provenienti dall’Irak e dalla Giordania, più alcune firme di teologi musulmani operanti presso istituzioni europee (Cambridge) e americane (George Washington University).

Ecco, già da questo elenco emergono punti di forza e di debolezza dell’iniziativa. Mancano ad esempio, tra i sunniti, le firme di autorità religiose egiziane, maghrebine, dell’Arabia Saudita o dell’area indo-pakistana; mancano, tra gli sciiti, le firme di esponenti dell’alto clero sciita dell’Iran. Il grosso dei firmatari appartiene al cosiddetto “islam europeo”, soprattutto dell’Europa dell’Est, ma si osservano significative appendici nel mondo turco e centro-asiatico; la presenza sciita, infine, è molto limitata, ma in ogni caso c’è.

E’ evidente che un documento che accetta formalmente le scuse e le spiegazioni fornite dalle autorità vaticane dopo l’incidente bavarese ancora divide profondamente il mondo musulmano. Ma, ecco il punto, è importante che questa divisione sia emersa, che molte e qualificate autorità religiose si siamo chiamate fuori dalle grida di “dagli addosso!” al romano pontefice, e, soprattutto, che siano andate molto più in là.

C’è nel documento il riconoscimento aperto che il Papa cattolico è un obiettivo alleato dell’islam per la sua ferma e incrollabile opposizione “al predominio del materialismo nella vita dell’uomo” oltre che per il suo “totale e profondo rispetto di tutti i musulmani”. Il papa “conservatore”, insomma, nonostante l’incidente, ha fatto breccia nel cuore di tanti teologi e alti religiosi musulmani, perché in fondo sembra parlare il loro stesso linguaggio sul tema cruciale del confronto della fede con la modernità.

Ma non meno nuovo è l’accenno a una cooperazione esplicita tra islam e cristianità che “contano tra i loro fedeli oltre la metà dell’umanità e, in un mondo sempre più globalizzato, sono responsabili della pace”. Qui è raccolto l’invito riproposto da Ratzinger, che citava quasi alla lettera un documento dell’ultimo concilio, alla cooperazione islamo-cristiana “per promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà” (n.3, della dichiarazione conciliare “Nostra aetate”).

Sferzante, pur nel suo elegante understatement, è il giudizio implicito dei firmatari sulle scomposte manifestazioni di piazza che si erano avute in tanti paesi islamici dopo il discorso di Ratisbona, come emerge tra le righe là dove si invitano tutti (leggi: i compagni di fede) a “spostare il confronto dalle strade e le piazze verso un dialogo sincero di cuori e di menti”. Parole grandi, parole coraggiose!

Il Gran Muftì di Bosnia Mustafa Ceric.

Dicevamo che il documento ha un punto di debolezza nella assenza di tante firme importanti. Ma, si potrebbe osservare, questo stesso elemento di debolezza può essere letto paradossalmente quasi come un punto di forza: l’islam europeo, massicciamente rappresentato nel documento, è riuscito ad agganciare frazioni significative dell’islam delle terre d’origine. Il Gran Mufti di Turchia e i dignitari uzbeki e omaniti, gli stessi firmatari sciiti di Irak e Giordania rappresentano una frazione certo minoritaria ma sufficientemente rappresentativa e, aspetto essenziale, chiaramente aperta a promuovere pubblicamente un discorso islamico moderato, alla collaborazione inter-confessionale, alla ricerca di ciò che unisce.

Ma, soprattutto, è un islam deciso – come si legge, sia pure tra le righe - a non accettare più che la “piazza” di estremisti e integralisti di ogni risma parli ancora per tutto il mondo musulmano.

Qui sì, c’è il fatto nuovo, che fa davvero sperare in grandi cambiamenti.

Ecco: dicevamo nel numero scorso che tutto oggi sembrerebbe fermo, la bonaccia parrebbe dominare in Medio Oriente. Invece nulla è fermo, né sul fronte delle evoluzioni geo-politiche né in quello meno eclatante, ma più profondo, della trasformazione dei comportamenti collettivi e dei valori condivisi.