Quell’anno all’estero che li fa crescere
L’anno di studio all’estero da adolescenti: dall’America alla Russia, dalla Cina ad Haiti, le esperienze dei giovani di oggi a contatto con culture anche molto diverse. Un’esperienza non sempre facile, talora anche dura, ma che stimola e matura. E i ragazzi, quando poi tornano...
E’ lungo il viaggio da New York al Maryland, centinaia di chilometri sulle lente autostrade americane: ore e ore, eppure desideravo fortemente che non finisse mai. Non perché mi godessi il paesaggio, o la vista delle tante grandiose opere, i ponti sospesi su baie ed estuari; ma perché avevo paura di arrivare, paura di quello che mi aspettava. Non ancora diciassettenne, ero catapultato in un paese straniero, tra gente che quando parlava non capivo, ad affrontare un’impresa - un intero anno di studio all’estero - che mi appariva azzardata se non temeraria.
Quando alla fine, da tempo calato il sole, arrivammo a quella che per un anno sarebbe stata la mia casa, mi si fece incontro un’anziana signora, a offrirmi una sorta di gelato alla "ciacklet": alla cioccolata, di cui ero ghiotto; ma ero così agitato che mi sembrò pessimo, e mi andò per traverso; precisai che la "ciacklet" in Italia non c’era, e che in ogni caso mi disgustava, per favore, non me ne dessero più.
Andai a dormire in quello che sarebbe stato il mio letto per un anno (e oltre, molto oltre, in casa quella sarebbe sempre rimasta la mia stanza, "Ettore’s room", tenuta eguale per venti, trenta, quarant’anni, in attesa dei miei ritorni; a simboleggiare fisicamente un legame durato tutta la vita). Ma allora non potevo immaginare niente di questo: e in quel letto, prima di cedere alla stanchezza, continuavo a ripetermi: "Sarà dura, molto dura".
E’ il programma dell’AFS (American Field Service), oggi Intercultura: consiste nell’inserire ragazzi delle medie superiori in una famiglia e in una scuola di un paese straniero, a vivere un’esperienza forte e formativa. Esperienza spesso dura, per alcuni versi: nonostante le precauzioni dell’associazione (nella selezione degli studenti, nella scelta delle famiglie ospitanti, nel vigilare sulla situazione), la nuova vita in un ambiente e in una cultura radicalmente diversi non è tutta rose e fiori. Le difficoltà ci sono, vistose, non semplici da affrontare per un adolescente, "l’età difficile" per antonomasia, in cui la personalità è in forte trasformazione. E difatti gli psicologi sconsiglierebbero un’esperienza così radicale, che potrebbe essere traumatica.
Ma invece, alla prova dei fatti, il programma, nella stragrande maggioranza dei casi, funziona.
Il mattino dopo il mio arrivo, al risveglio dopo un lungo sonno, i miei nuovi genitori mi aspettavano in cucina, sorridenti: "Dobbiamo parlare più adagio, così capisci" mi dissero con dolcezza. Il pomeriggio incontrai, in una festicciola in piscina, i nuovi compagni di scuola. Il giorno dopo, una mia coetanea, la ragazzina della porta accanto, bionda, bella e intelligente.
Così iniziò quello che sarebbe stato un anno decisivo nella mia maturazione.
E gli adolescenti di oggi? Come vivono quest’esperienza? Allora era il ’61: nell’America faro del mondo presidente era John Kennedy (che a noi studenti stranieri concesse un caloroso incontro, rivolgendoci un discorso sincero e appassionato), l’Italia era una provincia marginale e povera, io dovevo lottare per non apparire un miserabile nella terra di Bengodi. E oggi, nell’era della globalizzazione, come affrontano, cosa ricavano da una tale esperienza i giovani cresciuti a Internet e Tv?
I programmi di Intercultura si sono nel frattempo diversificati, non è più un rapporto tra gli Usa imperiali e il resto del mondo; gli studenti italiani vanno a soggiornare in varie nazioni, le più disparate, dalle culture – come vedremo – anche distanti, come Russia o Cina. Cosa succede?
A questa domanda cerchiamo di rispondere attraverso la voce di alcuni studenti trentini che hanno trascorso all’estero lo scorso anno.
Tutti ci parlano delle difficoltà. Alcuni hanno vissuto lo stesso mio senso di smarrimento descritto all’inizio: "Arrivato a Nanchino, sono stato subito colpito dall’immensità del posto, le persone a decine di migliaia, le strade diritte senza fine; mi chiedevo ‘io devo vivere qui?’- ci dice Tiziano Kirchner, che ha trascorso un anno in Cina – Mi hanno accolto i miei nuovi genitori e la mia assistente scolastica; e prima della mia nuova casa mi hanno fatto vedere la scuola Perché lì la scuola, con le sue rigide regole, è ritenuta decisiva per il futuro di un giovane. Se non studi, se non arrivi a fare l’Università, farai lo spazzino (e le strade cinesi sono schifose): questo è il ritornello che ogni giovane si sente ripetere. E per non far nascere distrazioni, viene proibito ai ragazzi e ragazze della stessa scuola di frequentarsi.
Vi riporto un colloquio con il mio "fratello" cinese, che aveva una ragazza, di un’altra scuola:
‘Ma tu, l’hai mai abbracciata?’
- No, ma una volta quasi -
‘E perché?’
- Perché ho paura di non riuscire a trattenermi -
‘Trattenerti da cosa?’
- Dal baciarla.
Baciarla è male; come male è la discoteca. Questo fino a che non raggiungi l’agognata meta: l’università. Lì cadono le barriere e il giovane diventa libero: sesso, danze e feste a volontà".
"L’università come meta, ambitissima e difficile, che segna la differenza; è così anche in Russia – ci dice Serena Vecchietti, reduce da un anno in una città della Russia profonda, sei ore a est di Mosca, verso gli Urali. Cioè, fuori dal mondo – Sì, all’inizio è stata dura. Probabilmente per le vicende della guerra, del comunismo, sta di fatto che i russi temono gli stranieri; al punto che quando per la scuola ho fatto una ricerca sulla seconda guerra mondiale, tutti i veterani si sono rifiutati di farsi da me intervistare. E anche gli amici di famiglia, erano sempre sulle loro, pensavano che io, in quanto occidentale, dovessi essere altezzosa, superba. Poi abbiamo imparato a conoscerci, si sono resi conto della situazione di difficoltà - altro che superbia! - di una che in un paese straniero non sapeva neanche parlare. E i rapporti sono divenuti più rilassati, più spontanei. E così è stato, con un percorso inverso, con i giovani, che dapprima mi sopravvalutavano in quanto venivo dal mitico Occidente, e poi hanno imparato a considerarmi per quello che sono, per la mia persona, per quello che posso dare".
Con Martina Giordani, reduce da un anno a Yarmouth Port, nel Massachussets, passiamo a differenze culturali meno rilevanti: "Vivevo in un paesino, che però era enorme come spazi, le distanze erano sempre di chilometri. Area benestante, anzi zona turistica, tutte case con giardino, e molte erano seconde case, vuote nove mesi all’anno: non c’era un centro città, nemmeno una main street (la ‘strada principale’ attorno a cui si coagulano le attività nei piccoli centri americani, n.d.r.); il che all’inizio mi aveva disorientato. Noi ragazzi ci trovavamo alla spiaggia d’estate, al centro commerciale d’inverno: questa seconda soluzione non era il massimo, ma la socialità tra noi giovani era facile, molto più che in Italia, i week-end si passavano in casa ora dell’uno ora dell’altro. Mi ha colpito anche la solidarietà tra gli adulti, la facilità con cui si aiutavano, la capacità di vivere un intenso rapporto di vicinato; mentre qui (a Molveno, n.d.r.) non capita sempre".
L’esperienza di Martina mi fa tornare alla mente la mia. I vicini. Si sapeva tutto di tutti, si era giudicati ("Neighbours wouldn’t understand",i vicini non capirebbero, mi era stato detto un paio di volte; e avevo risposto con un brusco "Pensino ai fatti loro"). Ma al contempo ricordo l’altra frase, "Neighbours will help",i vicini verranno a aiutare, e venivano davvero, si prendevano cura della famiglia in difficoltà, con una sollecitudine, continuità e generosità (per me) inaspettata.
In un altro mondo invece entriamo con Silvia Tomasi, che ha trascorso un anno in Honduras, "nella capitale Tegucigalpa, che il fiume divide in due: la zona benestante e quella povera, col centro e i quartieri degradati, i barrios. Dove non puoi entrare; e in ogni caso devi adottare una serie di precauzioni, se no ti esponi a rischi: in corriera mi hanno rubato una valigia e a una mia amica hanno sfilato il cellulare mentre telefonava e io le ero accanto, con la borsetta a tracolla. Questa è la realtà di quel paese. Devi imparare a conviverci: se andavo in giro da sola, non mi portavo niente, né soldi né orologio, tutt’al più i soldi nel tacco della scarpa, e le mie ‘sorelle’ mi hanno molto aiutato a capire: lì non andare, non passare, aspetta un po’. Poi ho imparato, e sapevo andare anche dove loro non si fidavano, in centro, o su un taxi collettivo. Allora ho incominciato a vivere gli aspetti positivi: l’apertura delle persone, che sono straordinarie quando hai imparato come prenderle. "
L’organizzazione si premura di assegnare il giovane a una famiglia adeguata, in maniera da minimizzare i contrasti derivanti da divergenze culturali. Ma qualche volta qualcosa non funziona, come nel caso di Anna De Mutiis, non credente, capitata in casa di una famiglia rigidamente cattolica nella Repubblica Dominicana, nell’isola di Haiti: "Quando avevo detto di non essere battezzata, la loro risposta era stata: ‘Che bello! Così ti battezzi da noi!’ Non c’era considerazione per la mia sfera privata, per le mie convinzioni; anzi, per mia ‘madre’ non era concepibile che un’italiana, che viveva nella terra del papa, non fosse credente. ‘Se non credi in Dio - mi diceva - allora credi in Satana!’ Una sera mi chiamò, e assieme a mia ‘sorella’ di 19 anni si mise a leggere un passo della Bibbia in cui si descriveva ciò che accadeva a chi non credeva in Dio; ‘Va bene, allora vuol dire che andrò all’inferno!’ - gridai, e mi rifugiai in camera a piangere".
In questi casi l’organizzazione, appurata un’incompatibilità, provvede a cambiare famiglia "A me dispiaceva, soprattutto per la madre, che viveva un mio abbandono come un fallimento. Ma fu inevitabile: in seguito li rividi, e l’incontro fu disteso, se ne erano fatti una ragione. Nella nuova famiglia, dopo la prima esperienza giunsi un po’ timorosa. Non avemmo un rapporto umano vero, erano freddini, a tavola non si parlava, non mi chiedevano niente. D’altronde li capisco, avevano da fare per portare avanti, tra mille difficoltà, un negozio, e anche a me toccava lavorarci, cosa che non mi garbava, mi sembrava uno sorta di sfruttamento; ma per loro era normale che chi era in famiglia desse una mano: tutti dovevano impegnarsi per riuscire a tirare avanti. Questo lo capivo. Quello che mi disturbava era invece una sorta di conformismo: non volevano che uscissi ‘troppo’, di pomeriggio s’intende, perché la gente parlava male. Il punto è che in fin dei conti non gli interessava di me, ma del giudizio della gente. Un po’ lo stesso meccanismo per cui in casa non c’era niente, era spoglia, ma davanti avevano parcheggiato il gippone, che gli era costato tutto quello che avevano. L’importante era apparire".
Ma allora, quest’anno all’estero è un anno difficile, gravoso? C’è da averne paura, come io ne avevo quando in macchina mi avvicinavo alla nuova casa? Diciamo che è un anno che molto chiede, ma molto, moltissimo dà.
"Ho imparato ad essere indipendente - ci dice Anna - E con i dominicani ho vissuto un diverso modo di intendere la vita: la calma, il piacere della musica, della danza, che ti entra nella pelle. Tutte cose che, tornata a casa, rimangono, e che ancora mi fanno chiedere: ma questa nostra frenesia, che senso ha, dove dobbiamo andare?"
"Nella scuola cinese ci si sta dalla mattina alle 7 alla sera alle 5: ma c’è uno splendido clima comunitario, quando mi ero fatto il mio giro di amici, ci stavo proprio a mio agio" – racconta Tiziano. "Alla fine ero diventata parte della città al punto che la sera rimanevo sulla terrazza, a rimirare Tegucigalpa illuminata, e mi perdevo a guardarla - ci dice Silvia.
Per quanto mi riguarda, di quella mia esperienza giovanile ho parlato anche in tribunale, dove sedevo come imputato: per diffamazione di un onorevole leghista, di cui avevo scritto: "Non è un razzista, è peggio". "Da ragazzo il razzismo l’ho conosciuto; - dissi ai giudici - nella cittadina americana dove studiavo le scuole erano separate e l’anno successivo i bianchi, per rappresaglia contro le richieste antidiscriminatorie, avrebbero dato fuoco al ghetto nero; imparai a capire, anche se non a condividere, le motivazioni storiche, i sentimenti profondi di quelle persone, anzi imparai a volergli bene, pur detestando le loro idee. Per questo - concludevo - oggi proprio non sopporto chi, in Italia, questo odio cerca di attizzarlo, per cinico calcolo politico."
Sono andato a vedere, alcune settimane fa, il lavoro dei volontari di Intercultura. Tutti ex-borsisti, soprattutto di età tra i 18 e i 30 anni, lavorano per trovare nuovi studenti italiani, selezionarli, prepararli; e poi trovare famiglie trentine disposte ad ospitare ragazzi dall’estero, tenere i contatti con le scuole, cercare fondi per pagare le spese dei non abbienti. Una macchina complessa, che invia, ospita, prepara e segue decine di ragazzi ogni anno; e che si regge sul lavoro volontario di chi quell’esperienza l’ha vissuta e vuole che altri lo facciano.
Erano i giorni delle selezioni dei giovani trentini da inviare l’anno prossimo. Un lavoro complesso (colloqui singoli, di gruppo, con le famiglie, test psicologici) e delicato. Ho assistito a un test di gruppo, teso a spiegare, attraverso un giochino un po’ scemo (inventato da qualche psicologo) la complessità della multiculturalità. Finito il gioco, i volontari ne rivelavano i significati; ed era un sovrapporsi, un accavallarsi di esperienze, tutte convergenti su alcune idee di fondo:
"Il punto è capire gli altri: che magari avranno comportamenti che ti sembrano fuori dal mondo, ma sei tu nel loro mondo".
"Devi capirli; ma senza rinunciare alle tue idee, alle tue convinzioni".
"Che ne usciranno modificate; anzi, più spesso rafforzate."
"Ma sempre cercando il confronto".
Sembrava una saga del politically correct, che avrebbe fatto andare in bestia gente come la Fallaci o Ferrara, che avrebbero avuto molto da ridire su questi giovani dalle facce pulitine che concordemente esponevano le belle ricette della convivenza con il diverso.
Ma non si era né in parrocchia né in una scuola di partito; e quei ragazzi i princìpi di cui parlavano li avevano vissuti sulla loro pelle, li avevano praticati, se li erano conquistati in un anno non sempre facile. Ma evidentemente fecondo.