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Il Brasile di Lula tre anni dopo

I fallimenti interni e i successi esteri di un governo che aveva suscitato grandi speranze. Da “L’altrapagina”, mensile di Città di Castello.

Rodrigo A. Rivas

Ogni chiacchierata con amici brasiliani sul governo Lula si conclude con due constatazioni: i dati dicono che non è avvenuto nulla di trascendentale nell’azione di governo. Ma loro continuano ad avere una fiducia che non sembra minata nemmeno dalle notizie circa la corruzione nel PT (Partito dei lavoratori) e nel governo.

Il presidente brasiliano Lula da Silva.

Forse perché, per il Brasile e per l’America Latina, non si tratta di un governo come gli altri. I brasiliani dicono che, pur se le politiche praticate non si differenziano troppo da quelle precedenti, c’è un secondo versante da considerare: la democrazia. E su questo il governo ha rispettato gli impegni, organizzando una rete di organismi di base in grado di partecipare ai diversi livelli di gestione del paese. O forse perché, come disse l’arcivescovo Geraldo Lyrio Rocha, "la vittoria di Luis Ignacio Lula Da Silva nel 2002 fu una vittoria della speranza sulla paura. Adesso c’è da chiedere a Dio che la delusione e la frustrazione non sconfiggano la speranza". Non potendo addentrarmi tra speranze e preghiere, provo a verificare se ci sono corrispondenze tra il livello delle aspettative e la necessità, considerata prioritaria dal governo, di ricreare un clima interno e internazionale di fiducia in base al quale sono stati, è vero, raggiunti risultati importanti a livello internazionale.

Tra il 2003 e il 2005 il Brasile ha pagato una media di 1,02 miliardi di euro la settimana di interessi sul debito estero. Insomma, lo Stato brasiliano vive solo per pagare le banche. L’unica alternativa era, e rimane, rinegoziare i tassi d’interesse e le scadenze stabilite per rimborsare il debito. Ciò perché, col governo Cardoso, l’economia brasiliana è passata completamente sotto la direzione del settore finanziario.

L’egemonia finanziaria di solito implica una trasformazione sociale regressiva. Infatti, tra il ‘95 e il 2000, la spesa per l’educazione è passata dal 20,3% all’8,9% e quella sanitaria dal 27% al 12,5%. Contemporaneamente, il pagamento degli interessi sul debito estero balzava dal 24,9% al 55,1%. Un caso da manuale circa la corretta applicazione delle raccomandazioni del Fondo monetario.

E ancora, il Brasile aveva, e ha, la più iniqua distribuzione del reddito mondiale. Limitandoci all’agricoltura, la concentrazione della proprietà ha provocato la stagnazione di tutte le sfere della vita rurale e mina l’esercizio della democrazia, dando origine a un circolo vizioso dagli effetti perversi: i sistemi agricoli poco produttivi portano alla devastazione della natura, a una bassa redditività, alla povertà e all’esodo della popolazione. Tutto ciò si traduce in clientelismo, violenza e analfabetismo.

Qualche dato: il Brasile possiede 800 milioni di ettari; 390 milioni sono coltivabili ma 120 milioni di questi ettari non vengono sfruttati; 4 milioni di famiglie contadine non possiedono nulla; il 60% della superficie rurale appartiene a meno del 3% dei proprietari, il 45% a meno dell’1% e i 20 maggiori proprietari possiedono tanta terra quanta ne possiedono 3,3 milioni di famiglie.

I conflitti per la sopravvivenza si saldano spesso con l’uccisione dei contadini. Fra il 1985 e il 2001 i contadini ammazzati sono stati 1.237 e recentemente sono stati assassinati numerosi dirigenti sindacali e alcuni missionari

L’indice Gini, che varia tra 0 e 1, misura il grado di concentrazione della terra legato a quello della ricchezza: se l’indice fosse uguale a 0, tutti i proprietari avrebbero la stessa quantità di terra; se invece fosse 1, significherebbe che un solo proprietario concentra tutta la terra disponibile. Tra il 1967 e il 1999, ha oscillato tra 0,831 e 0,854, indicando la persistenza delle strutture latifondiste malgrado gli impegni presi dai governi e le lotte dei contadini senza terra.

In merito a questi problemi, cos’è successo col governo Lula? Dal punto di vista economico c’è stata una lieve crescita. Ma le riforme sociali son rimaste al palo e lo stesso programma "Fame zero" è stato un insuccesso. Della riforma agraria, uno dei principali impegni, non si hanno notizie. Si trattava della "priorità strategica", perché da ciò dipendeva il superamento della fame che attanaglia 40-50 milioni di brasiliani. Invece, dopo quasi 3 anni di governo, non esistono ancora piani per realizzarla. Dal 2003 ad oggi, poche tra le 140.000 famiglie che vivono in accampamenti di fortuna hanno trovato una destinazione definitiva, addirittura meno che col governo precedente. Naturalmente, la questione agraria è molto complessa. Oltre alle difficoltà dovute alla mancanza di risorse, si deve far i conti con la forza politica che i grandi proprietari sono riuscititi a mantenere, riassumibile in un gruppo parlamentare di 110 parlamentari ruralisti disposti a bloccare qualsiasi iniziativa riformista, e con la rete d’interessi intessuta dai latifondisti, che include le polizie civili e militari degli stati, giudici locali e gruppi parlamentari in ogni Stato e municipio.

Una delle 300 favelas di Rio de Janeiro.

Il governo ha scelto la prudenza come parola d’ordine verso i latifondisti e il sistema finanziario internazionale. In astratto, nulla di male. Ma questo governo non veniva considerato come qualsiasi altro. I governi con cui si può comparare il governo Lula sono i governi di Fronte Popolare nell’ Europa e nel Cile degli anni ‘30, o quello di Unidad Popular nel Cile degli anni ‘70. Tuttavia, il governo Lula è sorto in un contesto generale assai diverso: lo scenario internazionale bipolare non esiste più, rimpiazzato da un altro segnato dall’egemonia statunitense e dal neoliberismo.

Lula ed il PT dicevano di voler far uscire il Brasile da un modello neoliberale che ha devastato il Brasile come quasi tutto il Sudamerica. Quindi, per giudicarlo, non ci si può limitare alla contabilità economica: occorre guardarlo sotto questa ottica, verificando se la strada percorsa è diversa dal modello neoliberale. E da questa angolatura, mi sembra che il governo vada bocciato. Anzitutto perché la politica economica ereditata dal governo anteriore non è stata modificata. Poi, perché per "diminuire la fragilità esterna dell’economia", sono state intensificate le politiche di aggiustamento fiscale e si sono congelate importanti risorse per raggiungere attivi fiscali persino superiori a quelli richiesti dal Fmi. Poi, perché tutto ciò contraddice le premesse di partenza. E infine perché, nonostante tutto ciò, gli alti tassi d’interesse mantenuti non hanno ottenuto gli effetti sperati. Anzi, com’era avvenuto con Cardoso, si sono tradotti in un aumento dell’indebitamento esterno, hanno costretto il governo a rinnovare gli accordi con il Fmi e quindi hanno aumentato la fragilità dell’economia brasiliana; proprio ciò che si voleva evitare.

In cambio, il prezzo pagato è molto alto, perché non è stato raggiunto l’obiettivo che il governo si era posto: la priorità della questione sociale. Anzi, è successo il contrario: gli indici finanziari sono in genere migliorati, ma quasi tutti gli indicatori sociali sono peggiorati.

Al di là della maggior partecipazione democratica, comunque fondamentale e che permette di sfumare il giudizio negativo complessivo, finora il governo Lula si è rivelato conservatore. Sia per la sua politica economica complessiva che per le due riforme più importanti realizzate - quella della previdenza sociale e quella tributaria, del tutto conformi ai modelli raccomandati dalla Banca. Infine, per i discorsi, sempre più indirizzati a mettere un freno alla mobilitazione popolare e quasi senza più riferimenti, ormai, al capitale finanziario e al neoliberismo.

Ma com’è stato possibile che il PT e Lula, nati dal sindacalismo di base, dalla lotta contro il neoliberismo, abbiano prodotto questa politica? Negli ambienti cattolici progressisti si è provato a dare una spiegazione fondata sul carattere perverso che il potere avrebbe su chi arriva a esercitarlo. Ma in realtà, la principale trasformazione politico-ideologica ha avuto luogo già durante la campagna presidenziale del 2002, quando la necessità di ampliare lo schieramento che appoggiava la candidatura, ha costretto Lula e il PT a concedere un ruolo protagonista ai settori imprenditorali. A partire da lì, anche per cercare di rassicurare Washington, Lula ha riaffermato il pieno rispetto degli impegni assunti dal governo Cardoso, inclusa l’accettazione dei termini del nuovo accordo con il Fmi, e ha cercato di ridimensionare la sua immagine combattiva. Probabilmente, tutto ciò ha modificato il carattere della candidatura, propiziando un’alleanza con il capitale, anche finanziario, e gli organismi internazionali, e ha portato alla formazione di un’équipe economica che si situa nel centro strategico del governo, formula le sue politiche e dispone di un potere di veto sull’insieme delle decisioni del governo. In questo contesto, il governo ha cercato di far quadrare il cerchio: rilanciare la crescita economica, ridistribuire il reddito, creare posti di lavoro e far fronte ai gravi problemi sociali. Il tutto senza provare a uscire dal modello neoliberale. Ma nulla garantisce che questa riproposizione della politica dei due tempi (prima i sacrifici, poi i frutti matureranno), riuscirà laddove tanti altri si sono impantanati.

E, allora, quali prospettive si possono prevedere? Se si proietta la politica attuale, si configura l’immagine di un governo che gestisce (più o meno bene) l’egemonia del capitale finanziario, il che equivarrebbe a un insuccesso su tutta la linea.

Ma non è detto che vada a finire così, anche per l’attività degli altri agenti sociali. E va comunque registrato che, in queste condizioni, finora la politica estera ha ottenuto buoni risultati. La contrapposizione tra le priorità dettate dall’Alca e dal Mercosur, le pressioni statunitensi e il relativo vuoto di leadership regionale degli Usa, impantanati in Iraq, l’esaurimento del modello neoliberale e la politica bellicista e più protezionista del governo Bush, gli hanno permesso di proiettarsi sul piano internazionale con una politica caratterizzata da un’affermazione di sovranità. Di fatto cioè, il successo ottenuto nella politica di riorganizzazione e ampliamento del Mercosur, ancorato all’alleanza strategica col governo argentino, e il lancio del Gruppo dei 20, che è riuscito a frenare i piani Usa nella Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto), rivelano la potenzialità di leadership del Brasile, sia nell’America Latina che nel Sud del mondo.

Il guaio è che dare priorità al Mercosur significa attivare una politica che privilegi i mercati interni. Implica - quindi - una redistribuzione effettiva dei redditi, la creazione di posti di lavoro e la priorità delle politiche sociali. Cioè, significa tornare alle premesse, e a tutto ciò che per gli ambienti finanziari che oggi l’applaudono rappresenta un’aberrazione.