Fede e giustizia
1. Il crocifisso nelle aule. 2. Una crisi religiosa. 3. Un sacerdote aggredito.
Finalmente conosciamo la motivazione della ordinanza 15 dicembre 2004 della Corte Costituzionale che si è occupata della questione della esposizione del crocifisso nelle aule, in relazione alla quale il Tar veneto aveva sollevato eccezione di legittimità costituzionale.
La Corte ha ritenuto che l’obbligo di esporre il crocifisso nelle aule discenda da norme regolamentari e non da disposizioni di legge; il giudizio non era quindi di competenza della Corte e il ricorso è stato respinto. In altre parole, la Corte se n’è lavata le mani.
Verdetto pilatesco lo definisce il prof. Andrea Pugiotto dell’Università di Ferrara (Diritto e Giustizia, 22 gennaio 2005). Non ha tutti i torti, anche se l’ordinanza ha esplicitamente affermato che "l’affissione del Crocifisso non è compatibile con il principio della laicità dello Stato (vedi art. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione) e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, obbligatoriamente imposta ad alunni, insegnanti e genitori, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, e cioè una ingiustificata posizione di privilegio".
Mi pare che questo ragionamento sia corretto. In uno Stato laico o si espongono nelle aule tutti i simboli religiosi, o nessuno; liberi comunque gli alunni di indossare o di portare al collo o al braccio o sul vestito il simbolo della propria religione.
Tuttavia l’ordinanza della Corte non affronta il problema se disposizioni regolamentari non possano veramente essere oggetto di giudizio quando, in ipotesi, ledano diritti di libertà. E’ un fatto che i regi decreti del 1924 e del 1928, che dispongono l’obbligo di esposizione del crocifisso, continuano ad essere applicati come al tempo di Mussolini. La Corte ammette la vigenza di tali decreti che impongono ai Comuni di acquistare gli arredi scolastici: "le scuole devono essere dotate di certi arredi; tra questi arredi vi è il Crocifisso". Da mettere in un cassetto o da appendere? Se deve essere acquistato è evidente che deve essere appeso.
La Corte costituzionale se la cava con un sofisma distinguendo fra dotazione e affissione, che sono certo cose diverse ma vanno collegate fra loro, altrimenti non si capisce più niente. Perché mai il crocifisso dovrebbe essere acquistato, se poi non viene (né deve) essere esposto?
E’ inevitabile che in questa situazione di incertezza e di confusione al limite dell’assurdo ogni scuola farà a modo suo e vi saranno inevitabilmente migliaia di ricorsi, tenendo anche conto che la Costituzione dà ampi poteri alle Regioni in materia scolastica. Potrebbe anche accadere, a causa della lacuna legislativa, che nelle zone a maggioranza leghista nelle aule sia affisso il dio Po al posto del crocifisso: gravissimo sfregio allo Stato di diritto. Il parlamento deve provvedere con una legge semplice e chiara che tuteli la laicità dello Stato.
I principi religiosi e la loro pratica possono violare le leggi dello Stato ? Parrebbe di sì, secondo una sentenza della Corte di Appello di Venezia. In un caso di separazione personale, la moglie aveva chiesto che l’addebito (prima della riforma del diritto di famiglia si chiamava "colpa") venisse posto a carico del marito. Questi aveva cambiato convinzioni religiose e si era allontanato dalla casa coniugale "in preda a una vera e propria esaltazione", pur non facendo nulla di lesivo nei confronti della moglie e delle figlie. La Corte di Venezia ritenne che non sussistessero valide ragioni per addebitare la separazione al marito, il quale mutando religione aveva esercitato un diritto costituzionalmente garantito. In effetti l’articolo 19 della Costituzione così afferma: "Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato e in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume".
Al marito non era stato addebitato alcun atto del genere. Perché dunque avrebbe dovuto essere ritenuto "colpevole" della separazione? La Corte di Cassazione, annullando la decisione della Corte di Venezia, ha ricordato l’esistenza dell’articolo 29 della Costituzione che "riconosce i diritti della famiglia" specificando che "il matrimonio è ordinato sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare". L’articolo 143 del Codice civile stabilisce che "dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione". Ne consegue che il mutar religione è sì un diritto (art. 19), se e in quanto non superi i limiti di compatibilità con i concorrenti doveri di coniuge e di genitore fissati dagli articoli 143 e 147 del Codice civile, nel contesto dell’articolo 19 della Costituzione.
La Cassazione con sentenza 6 agosto 2004 n° 15241 annullava con rinvio la decisione della Corte veneta, affermando in sostanza che prima di essere credenti si è mariti e padri, ovvero mogli e madri, e che quindi la rinuncia alla convivenza per motivi religiosi può essere causa di addebito ("colpa") nella separazione.
Mi pare che la sentenza della Cassazione sia del tutto da approvare, sia perché aderente rigorosamente alla lettera e allo spirito della legge, ma anche perché improntata a una sana concezione della laicità. Quando due principi costituzionali confliggono in una situazione concreta, bisogna fare un giudizio di bilanciamento e dare la prevalenza a quello che, nelle circostanze date, appare il prevalente per la vita ordinata della collettività. Nel caso di specie, quindi, il marito aveva "torto".
Il fatto: Il proprietario di un fondo, da tempo in lite con un sacerdote per la proprietà di una strada che conduceva alla parrocchia, lo aggredisce e lo schiaffeggia gridandogli "ladro di strade". In primo e secondo grado il proprietario viene condannato per il reato di percosse, aggravate ai sensi dell’art. 61 comma 10 del Codice penale, e per ingiuria contro il sacerdote. Va precisato che l’aggravante è prevista quando il fatto è commesso contro una persona rivestita della qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso dallo Stato. La corte di Cassazione, con sentenza 16 aprile 2004 n° 17664, ha escluso il delitto di ingiuria e ha cancellato l’aggravante per il reato di percosse.
La motivazione è interessante perché la Corte osserva giustamente che l’aggressione verbale e fisica non è avvenuta nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni di ministro del culto cattolico da parte della vittima, ma unicamente per il possesso e l’utilizzo di una strada, per quanto utile alla parrocchia e di cui l’imputato rivendicava l’esclusiva proprietà. Inoltre la particolare tutela che l’ordinamento giudiziario riserva ai ministri dei culti riconosciuti contrasta con il principio di eguaglianza innanzi alla legge, anche perché esclude da tale tutela i cittadini di sesso femminile che non possono accedere alla carriera ecclesiastica.
Inoltre, l’espressione "ladro di strade" non può costituire reato, perché si tratta di un reato impossibile, in quanto le strade non si possono rubare. La frase è certamente irriguardosa, ma bisogna tener conto che nel linguaggio corrente il termine ladro viene spesso accostato a cose che all’evidenza non possono essere rubate: per esempio, "ladro di verità", "ladro di affetti", ecc. L’ingiuria quindi non sussiste e l’imputato va assolto pienamente.
Quanto alle percosse inflitte al sacerdote, va confermata la condanna, ma senza l’aggravante e quindi va ridotta la pena.