L’Eden perduto di Mimmo Jodice
Le foto dell'autore napoletano in mostra a Mart, attraverso i due cicli "Eden" e "Isolario mediterraneo".
Si può parlare di noi, del nostro stare al mondo, anche senza tirare direttamente in ballo la nostra presenza. Ci sono artisti che rinunciano alla figura umana ma riescono a suscitare dagli oggetti e dalla natura qualcosa che ci riguarda profondamente. Uno di questi è Mimmo Jodice, autore napoletano che a settant’anni è considerato uno dei grandi della fotografia anche fuori dal nostro paese.
Le due opere esposte in questi giorni al Mart di Rovereto (a cura di Giorgio Verzotti, fino al 13 febbraio) - perché di due opere si tratta, nonostante gli oltre cinquanta scatti di cui ciascuna si compone - hanno oggetti di indagine per un certo verso opposti, ma una sorprendente capacità di costruire un discorso unitario.
Il primo ciclo ("Eden", realizzato tra il 1994 e il 1997) si occupa degli oggetti quotidiani, tante di quelle cose che consumiamo giorno per giorno o appartengono al nostro abituale arredo: in parte si tratta di manufatti, forchette, caschi, forbici, articoli di vestiario, televisori; in parte, e soprattutto, sono prelievi dalla natura, animali macellati, teste di agnello o di pesce, mucchi di zampe di polli, carne tritata, piante di appartamento con gli aculei. Ciò che Jodice riesce a fare è rivisitare il genere di lunga tradizione della natura morta restituendole in termini contemporanei quella peculiarità che era esplicita agli inizi nel nome stesso del genere artistico - di rappresentare un pezzo di natura stroncato, privato della vita - e in questo modo di farci avvertire sotto le spoglie di ciò che si vuole banale e quotidiano gli esiti di una violenza.
Non è solo l’occhio sbarrato dei pesci in serie a giudicarci e inquietarci; anche i guanti di gomma per lavare i piatti, la tutina quasi spaziale per il neonato, la testa di un manichino dal parrucchiere, insomma l’universo degli oggetti divenuti merce, l’offerta che vuole tramutarsi in bisogno a rivelarci l’aspetto che un tempo si sarebbe detto alienante della società consumistica. Jodice riesce a sollevare questa inquietudine senza richiami ideologici, ma avvalendosi di puri strumenti espressivi. E’ lì che emerge l’importanza del lavoro in termini di ciclo, che consente di stabilire confronti, fa scattare più o meno sottili analogie, slittamenti simbolici che vanno al di là delle similitudini formali (zampe di gallina/forchette; occhi sbarrati degli animali macellati/fari di motocicletta...). E poi, nel rigoroso uso del bianco e nero che di per sé attenua ogni eccesso di realismo, quel tratto stilistico della immagine "mossa", così specifico e rispettoso del mezzo fotografico, a incrementare l’instabilità, ad esprimere quasi un barcollamento di noi che osserviamo una realtà improvvisamente ambivalente, inquietante portatrice di significati che non ci aspettavamo.
Il secondo ciclo ("Isolario mediterraneo", realizzato in vari anni e completato nel 2002) si proietta in una dimensione opposta a quella del quotidiano, è un viaggio per mare, ricerca sul paesaggio e - come la chiama l’autore - un "pellegrinaggio verso l’infinito". Anche in questo caso, il proposito di Jodice non è documentario - benché i luoghi, le coste e i profili delle isole siano sempre riconoscibili, ed anzi precisamente nominati nei titoli - ma una netta presa di distanza dalle consuetudini, cioè dall’isola concepita come meta di vacanze. Si potrebbe anzi dire che queste fotografie non farebbero la fortuna dei tour operator, perché ricordano più i paesaggi sublimi e inquietanti dei romantici che le morbide cartoline per viaggi organizzati. Jodice aveva indagato il Mediterraneo in precedenti lavori, con uno sguardo che ne rintracciava i depositi delle culture greca e romana. Anche qui intravvediamo alcune tracce di questo passato, accanto ai segni e agli indizi della contemporaenità (il ponte dell’aliscafo, il pontile, i tratti di mura, la nave arenata...) ma il centro della visione è lo spazio immenso tra acqua e cielo, e quel contrasto tra le forme scure della terra emergente e la superficie di un mare che prende talvolta una levigatezza irreale, come di vetrosità opalina (anche qui in virtù di un mezzo fotografico che ne plasma la mobilità) con un lavoro di ricerca espressiva puntato soprattutto sullo studio della luce e della composizione dell’immagine. Questi luoghi appartengono ormai a una dimensione sognata, i mezzi di navigazione e i manufatti dell’uomo sono come relitti abbandonati o lasciati alla deriva in un mondo che confina con l’alieno.
Si è notato che Mimmo Jodice ha radici ben salde nella cultura della sua città natale (ne scrisse anche Germano Celant parlando del ciclo "Eden"). Le due opere di cui stiamo parlando appartengono ai collezionisti Anna Rosa e Giovanni Cotroneo, napoletani anche loro, che le hanno depositate al Mart (altre hanno affidato al Museo di Capodimonte e a Rivoli) e che da collezionsiti di arte antica (in buona parte Seicento napoletano) si sono avvicinati alla fotografia e all’arte contemporanea proprio grazie all’incontro con Jodice, la cui ricerca era volta all’epoca alla marginalità urbana. Quel che è certo è che la napoletanità di Jodice, se c’è, non ha parentela col folclore, è uno sguardo interiore che rivela qualcosa del nostro essere al mondo.