La niña santa
Dell'argentina Lucrecia Martel, un film sulla seduzione e sull'ambiguità morale, che colpisce per la forte intensità estetica.
Un congresso di medici si installa in un hotel. Durante i lavori della conferenza, il dottor Jano conosce, in modi diversi, la proprietaria dell’albergo, Helena, e sua figlia Amalia. "La niña santa" - film argentino di Lucrecia Martel, già autrice di "La ciénaga" (La palude, 2001) - racconta la storia di questi due incontri. Madre e figlia, ognuna con le sue tecniche, tenteranno di sedurre il reticente medico, un uomo sposato che non sa del legame di parentela tra le due donne.
Le reti intessute dalla matura, affascinante madre e dalla figlia liceale sono molto dissimili. La madre, Helena, mette in scena delle tecniche di seduzione adulte, colte, sofisticate, basate sul dialogo e sulla relazione frontale, faccia a faccia. Amalia segue con molta imperizia gli istinti, si nasconde, guarda da lontano, senza scendere mai in campo aperto.
La decisione di corteggiare Jano nasce da una strana idea che la cattolicissima ragazzina si mette in testa. Il primo incontro tra Amalia e il dottor Jano avviene così: Amalia sta in mezzo a una piccola folla, ad ascoltare un musicista che suona lungo la strada. Il medico si ferma nel gruppo, punta Amalia e avvicina da dietro il suo bacino al fondoschiena della ragazza sconosciuta. E’ quel tipo di molestia denominata "struscio". Amalia dovrebbe ritrarsi e invece non si muove, sembra compiaciuta. Nello sguardo lontano, quasi mistico, della ragazza - che si vede molto spesso ripresa in primo piano - leggiamo subito una traccia di spiegazione, come se fosse indotta da quel gesto osceno a perdersi in pensieri più grandi di lei. L’accettazione di quella molestia e tutto il comportamento successivo di seduzione corrispondono a una personale interpretazione di una cosa che la ragazza ha imparato al collegio religioso che frequenta: ognuno deve cercare un percorso per realizzare la propria vocazione; salvare il prossimo dal peccato vuole dire rispondere a una chiamata di Dio. La sessualità per Amalia è un mistero. A lei sembra che questa sia l’occasione giusta per avvicinarsi a un mistero più alto.
Il film è tutto in queste tele di ragno: il sapiente ammaliare della madre, l’inesperienza della figlia. Il dottor Jano, visto spesso nei dettagli del suo corpo (l’orecchio, la nuca), gioca la parte della mosca, dimostrandosi sfuggente e profondamente ambiguo: è poco identificabile, i suoi gesti sono meno motivati, privi della riflessione razionale che accompagna l’agire delle due donne. Perché si comporta così con le ragazzine per strada? Se molesta le adolescenti sulla via, perché non sa essere perversamente coerente con quel gesto? Come fa, da uomo fragile, a resistere a due tentativi di seduzione così massicci e studiati?
Forse la risposta arriva quando del medico veniamo a conoscere moglie e figlia, entrambe molto simili alle sue corteggiatrici: il dottor Jano si trova di fronte all’offerta di una famiglia perfettamente sovrapponibile a quella che ha già. L’ambiguità del suo personaggio, una variante sporca della figura dell’inetto alla Italo Svevo, deriva soprattutto dall’incapacità di vedere rappresentata una reale alternativa, benché para-incestuosa.
La molestia del medico avviene in strada davanti a un negozio di strumenti musicali dove un uomo suona, come dimostrazione, un theremin, strumento elettrico che si suona muovendo le mani nell’aria. E’ composto solamente di un’antenna che capta i movimenti delle due mani del suonatore e varia in questo modo volume e altezza del suono. Lungo tutto il film, questo strumento esegue l’Aria sulla quarta corda, ’O sole mio, la Carmen di Bizet. La scelta di questo strumento non dà solo alla colonna sonora del film un’atmosfera eterea e lontana (è il suono di diversi film di fantascienza degli anni ‘50), ma conferisce alla trama e al dipanarsi della vicenda sentimentale un tono allo stesso tempo tattile e misterioso: come per il suonatore di theremin, il contatto fisico fra i tre protagonisti della recita della seduzione non si concretizza. La magia del theremin sembra quella dei sentimenti, della forza magnetica di attrazione tra i corpi. Questi gesti producono suoni simili a quelli di un violino ma in realtà elettronici, filtrati, conseguenza di movimenti impercettibili e di piccole vibrazioni e abbassamenti di dita e polsi. I misteri che il film rappresenta (la seduzione, la spiritualità, l’adolescenza…) sono circondati da questo fantastico e metaforico alone musicale.
"La niña santa" contiene scene di forte intensità estetica. Sono quelle girate nella piscina dell’albergo, uno spazio di color bianco e celeste, scrostato, umido, popolato di corpi in costumi da bagno neri, oppure coperti da accappatoi bianchi. L’acqua è l’elemento dei giochi degli sguardi e delle rifrazioni, della sensualità esibita o impacciata. Quando questa scenografia è arricchita dal suono del theremin il fascino delle sequenze è assolutamente contagioso, nel suo magnetismo fatto di sguardi e di presenze, di dettagli, di messa a fuoco, di prospettive, di profondità di campo. La regista Lucrecia Martel ha una sua chiara idea di cinema: sa dove posizionare la macchina da presa e padroneggia in modo rigoroso gli effetti che queste scelte avranno sulla costruzione espressiva del suo universo cinematografico, riunendo i volti, enfatizzando le convergenze e le intersezioni tra le persone e le azioni. Come se l’unico vero modo per aiutare a salvarsi un’umanità impaludata e sporca nonostante cento bagni fosse quello di descriverla con uno stile capace di donare al mondo, per un centinaio di minuti, un senso di bellezza e di pulizia.