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Impressioni da Tel Aviv

I giovani israeliani e l’illusione della normalità.

Tel Aviv. In molti mi avevano detto che rientrare in Europa dalla Palestina, e da Hebron in particolare, avrebbe potuto causare un certo shock. Tuttavia tornare a casa per me significava tornare nel mio mondo, che continua costituire un termine di paragone mentre mi trovo qui. Non è stato facile riprendere la vita di prima, anche se per pochi giorni, ma è stato comunque piacevole. Distaccandomi per un po’ dalla quotidianità palestinese ho potuto capire quanto forte sia l’esperienza che sto facendo qui e come suoni strano tutto ciò che ormai per me costituisce la normalità.

Immagini di Tel Aviv.

Il giorno dopo il mio rientro a Hebron sono andata a Tel Aviv per qualche giorno ed è stata questa permanenza, e non quella in Italia, ad essere per me fonte di uno shock notevole. Tel Aviv è una citta moderna, viva, capitale del divertimento israeliano. Non ci ero ancora mai stata. La spiaggia, le strade piene di negozi alla moda, i locali notturni aperti fino a tardi, i comportamenti e l’abbigliamento dei giovani… tutto fa pensare ad una qualsiasi capitale europea, o ad una colonia americana. Sarebbe anche una bella città, ma c’è qualcosa che non quadra, troppi contrasti difficili da gestire.

Sono uscita con alcuni ragazzi israeliani della mia età, ed è stato divertente: sono stata in spiaggia, mi sono ritrovata nel bel mezzo della Gay Parade, ho bevuto qualche cocktail al Mike’s Place, sono stata in giro per negozi. Ma non potevo dimenticare di essere qui. Ovunque tutto ciò sarebbe stato perfetto, ma non qui, a pochi chilomentri dai Territori occupati. Le aiuole innaffiate costantemente e acqua che scendeva lungo la strada: come non pensare che queste sono le risorse idriche cui non hanno accesso i palestinesi? Non che la vita delle persone che abitano a Tel Aviv sia facile, la paura di un attentato, ad esempio, è un sentimento onnipresente. Io stessa non sono mai salita su un autobus, sono stata perquisita per poter entrare nella strada del mercato principale e in ogni luogo affollato, e il Mike’s Place è un locale che qualche hanno fa è stato fatto esplodere da un attentato; pare tuttavia che la gente di qui cerchi di non pensarci o almeno di non porsi domande sulle cause di tutto ciò.

Parlare con alcuni ragazzi di Tel Aviv è stato interessante. La maggior parte di loro, pur avendo già fatto i tre anni di servizio militare, non ha idea di quanto accada nei Territori e non sa praticamente nulla dei palestinesi, se non che sono il nemico che può farli saltare in aria da un momento all’altro o che può ucciderli mentre prestano servizio. Spesso è difficile confrontarsi su questi temi con loro. L’altra sera per esempio due ragazzi mi stavano dicendo che non capiscono perché tutti i media europei sono filo-palestinesi, e dopo poche battute in cui ho tentato di spiegare che, almeno in italia, non è affatto cosi, hanno cambiato discorso, dicendo che non gli piace discutere di "politica" e che preferivano parlare di cose allegre. Ma alla domanda successiva, quella "allegra" - "Come ti sembra Tel Aviv? Vedi che gli israeliani sono buoni?" - beh, come non parlare di politica? Come non citare il taxista russo emigrato in Israele da 15 anni che, portandoci poco prima in quel locale, ci aveva detto che "l’unico arabo buono è un arabo morto"?. Parole già sentite, che ricordano un altro tempo, un altro luogo e un altro popolo.

Ho provato a mettermi nei panni di Meirav, una delle ragazze con cui ho cenato in un locale trendy di Tel Aviv. Nascere qui, avere qui famiglia ed amici, fare il servizio miltare per non finire in prigione, magari evitando di prestare servizio nei Territori, vivere con la paura del nemico alle porte, con l’idea che "nessuno ama gli israeliani ma che questa è la nostra terra e qui dobbiamo stare" (altra citazione dal taxista di prima), divertirsi e pensare che tutto ciò sia normale. E’ difficile, non c’è dubbio, ancora una volta non so cosa farei io al suo posto. I ragazzi con cui ho parlato mi hanno fatto notare che è facile giudicare dall’esterno. E’ vero, ma è altrettanto facile, stando all’interno, coprirsi gli occhi, fingere di non sapere, non porsi domande, dare la colpa di quanto accade agli arabi e "parlare di cose allegre".

Come possono certe immagini non far suonare oggi un campanello d’allarme negli israeliani, loro che hanno già vissuto tutto questo dall’altra parte?

West Jerusalem. Gli ulivi sono profondamente legati alla vita e alla cultura palestinese. L’abbattimento di alberi secolari effettuato dagli israeliani provoca dunque un particolare risentimento e una grande tristezza nei palestinesi. Non sono solo alberi, ma qualcosa di più profondo e radicato.

Lucas ieri camminava nella parte Ovest di Gerusalemme - quella ebraica - quando ha notato da lontano degli ulivi. Visto che è piuttosto inusuale trovare questi alberi in questa parte della città dove tutti i segni della precedente presenza araba sono stati rimossi, si è avvicinato per cercare qualche segno del passato. E’ così che ha trovato un cimitero arabo con tombe una volta probabilmente molto belle, una datata 1432, altre più antiche ancora. Ora il cimitero è diventato un parco dove coloni, turisti ed israeliani passeggianio tranquilli, senza probabilmente rendersi conto del significato del luogo. Le tombe quasi non si vedono, coperte come sono da arbusti e cespugli di fiori.

Lucas è andato avanti nella sua ricerca e poco lontano dal parco ha trovato altri ulivi e una casa di chiara origine araba: bassa, tetto a cupola e pareti grosse in muratura. La casa, disabitata e chiusa dall’interno secondo il sistema che solitamente caratterizza gli edifici occupati dai coloni, si trova isolata tra il parco/cimitero, una grande costruzione e lo Sheraton Hotel. Sapranno i turisti seduti al bordo della piscina di trovarsi sopra le rovine di quello che è stato un villaggio arabo che si cerca di dimenticare?

Tel Aviv. Sono venuta a Tel Aviv soprattutto per visitare "Rompere il silenzo", una mostra di fotografie scattate da alcuni soldati del 50° Battagione Nahal durante il loro servizio a Hebron. Si è molto parlato di questa mostra, anche in Italia. Alcuni tg hanno annunciato che la mostra era stata chiusa. In realtà sembra semplicemente che l’iniziativa non sia piaciuta alla polizia militare israeliana che ha compiuto un raid all’interno dell’edificio, portando via molto del materiale presente (non le foto ma alcune video-interviste fatte ai soldati e vari articoli riguardanti la mostra stessa) e interrogando per circa 6 ore i riservisti che hanno promosso questa manifestazione. Ora i tre sono indiziati per abusi contro palestinesi e distruzione di proprietà… Sono trattati come se fossero loro i colpevoli di alcuni atti sporadici e non l’esercito stesso. Comunque la mostra continua ed è stata trasferita a Gerusalemme.

Scopo dell’evento è quello di portare per un po’ di Hebron a Tel Aviv, mostrare quello che i soldati che prestano servizio nei Territori devono provare e come questo li trasformi. Chiudere una scuola, abusare di civili ad un check point, seguire ordini, posare per foto a fianco dei nemici, essere la legge, godere del potere, disperdere un funerale, voler dimenticare, non curarsi di quanto accade, fare ciò che vuoi senza essere controllato, e l’intollerabile leggerezza con cui queste cose accadono, certo non possono che cambiare le persone.

Sono felice di aver potuto visitare la mostra di Tel Aviv. Non tanto per le foto (in fondo sapevo di cosa si trattava, quella di Hebron è diventata la mia realtà), quanto per aver potuto ascoltare un’altra versione dei fatti, una visione opposta alla mia e a quella degli altri volontari e amici che frequento. La visione secondo la quale i palestinesi sono terroristi che possono ucciderti da un momento all’altro.

E’ stato uno dei militari promotori della mostra a guidarci lungo le 90 foto raccolte. Ci spiegava come il fatto di dare ad un soldato di 18-19 anni così tanto potere non possa che indurlo ad "oltrepassare le linee", i limiti umanamente riconosciuti, e ad agire senza pensare che ciò che sta facendo ha delle conseguenze su delle altre vite. "Erosione morale" la chiamava.

Secondo la sua esperienza, diventa pian piano normale sparare granate nel cuore della notte per spaventare il nemico, lasciare aspettare i palestinesi delle ore bendati e seduti per strada o alla stazione di polizia affinché "imparino la lezione", sequestare le chiavi ad automobilisti che si trovavano al posto sbagliato al momento sbagliato (la nozione di sbagliato qui ha un significato molto labile e personalistico).

Lo stesso soldato ci diceva anche che il rapporto con i coloni a Hebron è a tratti difficile. Lui come molti altri era arrivato qui pensando di dover difendere i coloni dal nemico che li circonda, ma presto si è accorto che il più delle volte erano i palestinesi a dover essere difesi dai coloni. La confusione dunque, almeno inizialmente, è notevole per tutti.

Mi è piaciuto vedere le reazioni alle foto di un gruppo di turisti ebrei e di israeliani che si erano uniti a noi. Una foto mostrava una scritta dipinta sul muro di una casa nella città vecchia: "Arabs to the Chamber Gas", e una signora ha avuto un’esclamazione di disappunto e paura. Possibile che la gente che vive in Israele o che sostiene il Paese non si renda conto di quanto accade poco lontano dalle spiagge di Tel Aviv?