Il potere e i suoi simboli
La guerra, le armi, l'autorità: riflessioni in margine alla mostra "Principi, guerrieri ed eroi fra il Danubio e il Po dalla Preistoria all'Alto Medioevo" aperta a Trento al Castello del Buonconsiglio.
Dalla mostra sei attratto perché ti promette una riflessione sui luoghi e sui tempi del potere. Dalla sua traversata esci gravato, soffocato quasi, da una catasta di armi. Asce, pugnali, spade, lance, archi, frecce. Armi bianche, nere, colorate. Minuscole, e massicce. E poi elmi, scudi, schinieri, corazze, carri, cavalli, morsi, manette. Distribuite nei secoli, dalla Preistoria all’Alto Medio Evo, dai monti delle Alpi e dalle pianure irrigate fra il Danubio e il Po. In quasi 2000 mq. di sale, su e giù dentro il castello, le armi esposte ti scaricano addosso violenza e morte.
Da quando l’animale, eretto, liberate le mani, il cranio ingrossato, è diventato uomo, non ha fatto che uccidere. Prima con le pietre e gli ossi, poi con i metalli, il rame, il bronzo, il ferro. Innovando la base tecnica, levigando, appuntendo, torcendo, forgiando con il fuoco e con il martello.
Il pugnale, l’alabarda, la spada, li ha lanciati contro il nemico, ma li ha ostentati anche nelle cerimonie religiose, li ha indossati nelle feste e negli spettacoli. Se li è collocati accanto, con cura, nella tomba, per l’ultimo viaggio. Ne ha costruito di adatti ai bambini, per educarli. Li ha lucidati e istoriati, con l’oro e l’argento, per corteggiare la donna, e garantirsi così la discendenza.
E’ la "virtù guerriera" la ragione di vita dell’uomo-maschio che ha preso coscienza. Sia quando per sopravvivere si procura il cibo raccogliendo frutti spontanei o coltivandoli, sia quando caccia o alleva animali, o mercanteggia in città. E questo dalle origini, per diecimila anni di storia.
A Talheim, in Germania, nell’età neolitica (siamo appena nella prima sezione), qualche capo tribù ordinò di gettare in una fossa comune un’intera comunità di 34 uomini, donne, bambini. Sui crani dei massacrati possiamo vedere ancora i colpi di ascia. E 6000 anni dopo, un ufficiale romano, nella pianura padana - lo ammiriamo nell’ultima sala - uccide un guerriero dei goti e, a tortura, quasi morte seconda, si fa scolpire l’evento sul piatto di lusso, per poterlo gustare mentre mangia e beve con i suoi commilitoni, i vincitori. Poco prima, noi lo sappiamo, fermi davanti all’opera d’arte, che l’impero vada in rovina.
Il pensiero, per analogia, corre alle foibe, le fosse del Carso dove, nel 1945, i comunisti jugoslavi scaraventarono chissà quanti italiani. A piazzale Loreto, dove i fascisti appesero i partigiani uccisi, e dove la folla violentò il corpo di Mussolini. Al soldato tedesco che manda a casa, come cartolina ricordo, la fotografia di se stesso mentre uccide una donna ucraina con i suoi bambini. Alle torture inferte dai soldati americani ai prigionieri in Irak. A Saddam Hussein che estrae orgoglioso la spada dal fodero, in televisione ormai immagine di repertorio.
La storia, così, ti imbriglia nella sua catena di continuità, in ciò che permane. E’ un processo di unificazione nello spazio e nel tempo la prima impressione che la mostra trasmette: per fare la storia gli uomini di rango hanno gestito il potere, guerrieri, con le armi in pugno, di morte.
O forse, chissà, eroi, il potere li ha chiamati a sé, perché la storia potesse, armandoli, plasmare se stessa, violenta.
Siamo noi, dal presente, a sceglierci il passato, e nel passato il problema da mettere in mostra, con cui fare i conti. Per ripeterci, guardando in faccia, con coraggio e ribrezzo, noi stessi: "Sei ancora quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo". Con un di più di orrore in aggiunta, che viene dalla tecnica progredita delle armi da fuoco che esplodono, delle bombe che cadono dagli aeroplani, e portate dai missili. O per poterci dire, a consolazione, disincantati, "nihil novi sub sole", è la terra l’aiuola "che ci fa tanto feroci". In un pessimismo che chiude alla speranza ogni varco.
Eppure, ripensandoci, è la spada il primo utensile specializzato nella funzione di arma. L’ascia e il pugnale, di pietra e di metallo, per migliaia di anni, furono polivalenti, armi e strumenti di lavoro. Agli oggetti esposti in vetrina, perciò, possiamo porre anche altre domande.
Ogni cultura ha carattere sistemico, i suoi singoli elementi non sono atomi separati, ma connessi in una struttura e in una storia. Georges Dumézil individuò nella cultura indoeuropea delle origini una struttura tripartita: le funzioni sacrale, militare, economica. E Adalberone, vescovo di Laon, vide nei tre ordini della società feudale, gli oratores, i bellatores, i laboratores i simboli dell’unica fede, del Dio uno e trino del Cristianesimo.
La mostra "Guerrieri Principi ed Eroi" inizia con due oggetti piccolissimi, la "pietra di Fumane" che probabilmente rappresenta uno sciamano, e una figura sacra intagliata in una zanna di mammut. E si conclude con simboli di prestigio come le croci cristiane, e le tombe vicine alle chiese dei martiri a cui aspiravano i principi "barbari" che avevano da poco invaso l’Italia.
Qual è l’origine del potere? E della violenza? E se a progettare lo sterminio delle fosse di Talheim non fosse stato un uomo di rango? Possiamo oggi spiegare il nazismo con la bestialità o la follia di un "principe", Hitler? Stilicone fu un generale "barbaro" che delle armi conosceva il mestiere. Ma nella mostra troviamo un suo "cofanetto" per scrivere, realizzato in zanne d’elefante, ricevuto in dono in quanto dignitario di corte.
E’ una tradizione di origine illuminista che ha demonizzato il potere e chi lo esercita. La passione del potere, sorta spontaneamente dallo stato di natura, felice ed egualitario, è poi rapidamente degenerata, a soggiogare la libertà e la creatività dei sottoposti.
Ma se l’uomo, lupo all’altro uomo, (come, a differenza di Rousseau, pensava Thomas Hobbes), fosse a rischio di sopravvivenza nella guerra di tutti contro tutti, e il potere fosse un argine al disordine, all’anarchia, al pericolo di scomparire? Il potere, anche attraverso la negazione e il divieto, mette in opera azioni positive, è uno schema di regole a più dimensioni, che genera aspettative condivise da tutti.
Il potere è "mettere in relazione" i beni, le donne, le parole. La parola, più che un privilegio, è un dovere del capo. A proposito di una tribù amerinda si è scritto: "Si può dire, non già che il capo sia un uomo che parla, ma che colui che parla è un capo". Il monopolio del capo sul linguaggio non è vissuto dagli indiani come una frustrazione.
Nel catalogo della mostra è Maria Teresa Guaitoli a scrivere dei sudditi che apprezzano l’eroe aristocratico per i beni materiali posseduti. Il valore guerresco, e la gloria che ne consegue, sono innanzi tutto doveri morali. Illuminante è, nell’Iliade, l’apostrofe che Sarpedonte, re dei Lici, rivolge a Glauco: "Glauco, perché dunque noi due siamo sommamente onorati in Licia e con posti di riguardo nei banchetti, con carni scelte e coppe ricolme di vino, e tutti ci guardano come dei?…Ora, è nostro dovere stare tra le prime file e gettarci nell’ardente pugna".
La mostra va quindi ripercorsa in altro modo, va ripensata la prima impressione, della catasta di armi sotto la quale il potere soggioga. L’ascia e il pugnale permettono al cacciatore e all’agricoltore di procurarsi le risorse per sopravvivere. Il lusso dei piatti, delle collane, dei carri, danno prestigio all’autorità che organizza la vita. Lancia e corazza sono inseparabili dallo scettro, dai campi irrigati, dalle città operose.
Noi ci atteniamo, come il dépliant della mostra, al linguaggio comune: per le scienze umane, a rigore, l’autorità non è potere, ma un suo fattore. Stilicone rimane un generale con lancia e corazza, ma a cui sono cari i cofanetti d’avorio contenenti gli strumenti della scrittura. Risalente a più di 3000 anni fa, e ritrovato in Germania, uno sfarzoso copricapo d’oro decorato dai codici del calendario solare e lunare, può essere indossato solo dai portatori di spada. Non solo gli Etruschi, ma anche i principi celti e veneti, uomini e donne, si ornavano con monili egizi e vetri alessandrini.
Dentro la mostra, questo è un percorso più flebile, meno irruente e combattivo. Non è ingenuamente ottimistico, non rimuove le contraddizioni e i drammi della storia. Il potere unifica, sotto un’unica cappa, ma tende anche a differenziare. Dalla dicotomia primaria, maschio-femmina, fa discendere le dicotomie secondarie, passività-attività, pace-guerra, vita-morte. Non c’è gioco senza regola, non c’è unità senza competizione, non c’è festa senza guerra. Il capo - guerriero è un "paciere": la pace (da pax: patto) non si trova in natura, da accogliere, va costruita, ed imposta. "Beati i costruttori di pace", cantiamo talvolta.
Il potere è ambivalente come l’ascia all’origine. La politica, nei tempi moderni, rimane potere, ma con le lotte lo limita, lo divide nelle costituzioni. Dopo il principe dinastico, ereditario, e quello carismatico, ha inventato quello legittimo fondato sulla razionalità della legge.
Dopo Hobbes e Rousseau, unilaterali nella loro antropologia, fu Sigmund Freud a individuare nell’uomo sia Eros che Tanatos, in tensione dinamica. Sulle pulsioni contemporaneamente distruttive e coesive è fondata la civiltà, e il suo disagio. Marco Aurelio, a cavallo nella sezione "Nel segno di Roma", per disciplinare l’impero, e pacificarlo un momento, ha incrociato le armi con Quadi e Marcomanni.
Forse, il fascino che ci attira, nei guerrieri con la corona e lo scettro, è la loro capacità di instaurare un ordine (armato, certo), prima che la storia, nel suo travaglio, inventasse lo Stato che della forza si assunse il monopolio. Oggi, in crisi lo Stato-nazione, invischiati nelle maglie di un potere globale e anonimo, interroghiamo quegli eroi forniti di lancia e corazza. Non è nostalgia. E’ la domanda sulle resistenze e sugli antagonismi da mettere in atto per dare regole al potere s-regolato e ir-responsabile del XXI secolo.