Quale Parlamento europeo andiamo ad eleggere?
Ad un grande fragore segue sempre un silenzio assordante; come succede negli eventi naturali, così accade nella politica. Il fragore cui mi riferisco in questo caso è il fallimento del vertice europeo di dicembre guidato dalla Presidenza italiana, che avrebbe dovuto approvare il testo della Costituzione Europea elaborata dalla Convenzione. A quel fallimento, in Italia, è seguito il silenzio culturale di un dibattito dimezzato. In parte, ciò è dovuto agli scandali finanziari ed alle conseguenti polemiche, in parte alla distrazione inerme e disarmante di un Governo che ha perso ogni significato di esistenza e si affastella in un cicaleccio quotidiano di inutili urla scomposte. In parte, anche alla confusione di un’ opposizione incapace spesso di porre l’agenda politica, abbandonando l’inutile sport della rincorsa. Tuttavia, mi sia consentito, sommessamente, di ragionare brevemente sul tema, non secondario, del processo di costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario, di rompere il silenzio.
E’ innanzitutto corretta questa definizione: ciò di cui si parla è un processo, progressivo, graduale, in parte già portato a compimento. L’ordinamento comunitario, infatti, per come si è andato configurando nel tempo ad opera della giurisprudenza della Corte di Giustizia e grazie alle intervenute modificazioni normative, può definirsi un ordinamento di nuovo genere, differente rispetto al genus ordinario delle organizzazioni internazionali cui pur appartiene formalmente. Punto nodale della questione è il riconoscimento della soggettività giuridica dell’ordinamento comunitario non solo e non tanto agli Stati contraenti di un trattato di diritto internazionale, quanto ai cittadini, alle imprese.
Siamo tutti cittadini dell’Unione, oltre che cittadini del nostro Paese. Ciò è significativo, determinante. Ma, allora, perché il processo non è compiuto, perché ancora si discute di Costituzione Europea?
Le ragioni sono molte, ma mi piace soffermarmi su una sola motivazione, che si porrà alla nostra attenzione in occasione delle elezioni europee di giugno e che, peraltro, rimarrebbe irrisolta anche se venisse approvato il testo costituzionale della Convenzione che pure, si noti, rappresenterebbe un forte passo in avanti. Mi riferisco al tanto spesso invocato deficit democratico delle istituzioni comunitarie e delle loro decisioni.
Attribuire valore costituzionale all’ordinamento comunitario significa, infatti, fotografare una realtà per molti versi paradossale: da un lato si rinviene una forte invasività normativa comunitaria nella sfera soggettiva di cittadini ed imprese, spesso non mediata da un necessario dibattito da parte degli organi parlamentari nazionali (patologia italiana di tutto rilievo); dall’altro, non è evidente la democraticità limitata delle arene decisionali ove quelle stesse disposizioni sono elaborate, discusse ed approvate.
Se per costituzionalità di un ordinamento giuridico si intende la manifestazione di un moderno "contratto sociale", grazie al quale le istituzioni del medesimo si vedono riconosciuti poteri normativi precettivi nei confronti dei cittadini, i quali ne riconoscono pienamente la legittimità ad operare sulla propria sfera giuridica sulla base di un patto democratico di rappresentanza, la parzialità democratica dell’ordinamento comunitario può dirsi evidente. L’enigma si risolve solo con un complesso ragionamento che porti a ripensare il ruolo del Parlamento Europeo. In altre parole, occorre chiedersi se la mediazione dei Governi nazionali, espressa in seno al Consiglio, possa ritenersi garanzia sufficiente di democraticità (indiretta) nell’arena decisionale comunitaria laddove essi siano considerati a loro volta il risultato di una volontà maggioritaria popolare espressa nei rispettivi Parlamenti nazionali.
Ecco, dunque, il problema della legittimità democratica dell’ordinamento comunitario, destinato ad occupare un ruolo sempre più rilevante per effetto della crescente attribuzione di competenze alle istituzioni comunitarie, oltre che per causa di un risultato spesso contraddittorio della sussidiarietà, criterio inteso alla ripartizione delle competenze secondo potenziali livelli di adeguatezza, efficacia ed efficienza nella gestione, il cui effetto è però spesso quello di favorire l’ascensione delle competenze dal livello micro a quello macro per evidenti problemi di scala.
L’effettiva costituzionalizzazione dell’ordinamento comunitario, quindi, potrà dirsi realizzata soltanto nel momento in cui sarà garantita la democraticità delle scelte e dei meccanismi di produzione normativa.
Il percorso pare lungi dall’essere concluso. Occorre indagare le nuove forme della democrazia (post-democrazia secondo alcuni autori): il sistema intergovernativo, utile per garantire la rappresentanza delle differenti esigenze nazionali in sede comunitaria, non sembra poter rispondere alla necessità di correggere il deficit democratico di cui si è detto, proponendo invece una sorta di neo-corporativismo istituzionale a democrazia indiretta. D’altra parte, è complesso comprendere come il rafforzamento del Parlamento europeo possa davvero garantire, al contempo, funzionalità decisionale ed efficacia, rappresentanza omogenea delle differenti esigenze nazionale e, infine, pluralità delle posizioni politiche. Si deve tener presente infine che i differenti ordinamenti nazionali spesso conoscono al loro interno un’articolazione territoriale su più livelli e con differenti interessi e posizioni.
Della conciliazione e della sintesi di una simile complessità, oltre che della pressante esigenza di partecipazione diretta che emerge dal tessuto sociale contemporaneo e dalla struttura complessa della cosiddetta governance delle contemporanee politiche pubbliche, dovrà farsi carico la riflessione giuridica e politica nel tentativo di trovare nuove forme di legittimità democratica della rappresentanza.
Di questo, vorrei parlasse la Politica alle porte delle elezioni europee di giugno.