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QT n. 4, 21 febbraio 2004 Servizi

Una scuola che proprio non ci piace

I dati di fatto sulla riforma di Letizia Moratti. E qualche riflessione molto preoccupata.

Lucia Coppola

Ho avuto la fortuna di essere invitata, in qualità di "nota oppositrice" della controriforma Moratti, a partecipare alle numerose e ricche, in termini di offerta formativa, autogestioni che hanno caratterizzato la prima quindicina di febbraio. Vi ho portato il mio punto di vista di insegnante, scevro da vincoli ideologici e ancor meno partitici che tanto sarebbero piaciuti ai relatori che mi venivano affiancati nei vari contraddittori. 

Mi è stato impedito di partecipare all’autogestione del "Tambosi" perché, a quanto mi hanno riferito i ragazzi, il preside mi ha ritenuto "troppo schierata" (se così fosse, da che pulpito!), e a quella del liceo socio-psico-pedagogico di Rovereto, che non ha avuto il benestare della preside. (Ci sarei andata volentieri, è la scuola che anch’io ho frequentato). Dunque, atteggiamenti censori nel primo caso e scarso senso della democrazia, come esercizio da apprendere e da praticare, nel secondo. Fortunatamente il resto delle scuole, con sfumature diverse , ha consentito ai ragazzi di confrontarsi sul terreno della partecipazione e delle opinioni, su argomenti che non fanno parte dei curricoli e dei percorsi formativi e devono quindi trovare altre strade. Il mio plauso va dunque a tutti i ragazzi e le ragazze che si sono impegnati, che hanno argomentato e dibattuto, sperimentando nel contempo un modo nuovo e speciale di stare insieme a scuola. Qualche riflessione sulla contro riforma

Dell’eguaglianza e della libertà: "La scuola primaria rimuove gli ostacoli che limitano la libertà e la giustizia, indipendentemente dal sesso, dalla razza ecc.". Così recitano i primi decreti attuativi per la scuola primaria promulgati il 23 gennaio scorso (La Costituzione italiana all’ art.3 parla di libertà ed eguaglianza dei cittadini). Lo stesso avviene per la scuola secondaria di primo grado, dove "la scuola rimuove gli ostacoli che limitano la libertà" (qui è sparita anche la giustizia).

Dunque l’eguaglianza è stata cassata dalla citazione della nostra Costituzione. Come si faccia poi a limitare la giustizia resta un mistero, semmai si può rendere difficile l’esercizio della giustizia. Ho introdotto volutamente l’esposizione del mio punto di vista sulla riforma focalizzando l’attenzione sull’uso di certe parole piuttosto che di altre, perché questa è una costante che ritroveremo continuamente nell’esposizione e non ha niente di casuale: è altresì sintomatica di un’idea di scuola. Parlare di "ministero dell’istruzione", piuttosto che della "pubblica istruzione", di "diritto-dovere all’istruzione"(che si può esercitare oppure no) piuttosto che di "obbligo scolastico" (che è tassativo), ebbene tutte queste sono sfumature all’apparenza formali ma, a mio avviso, del tutto sostanziali, che ci introducono compiutamente alla visione del mondo che sottende questa riforma. La cancellazione di eguaglianza è indice di una visione della politica, della società, del servizio pubblico e dell’istruzione: l’eguaglianza è una cosa di sinistra.

Che cosa rimproveriamo a questa "riforma"? Intanto il non aver adottato un pensiero"plurale", capace cioè di prendere in considerazione l’insieme di tutte le leggi e le elaborazioni curricolari che in questi anni sono state attuate per migliorare la qualità della scuola. A partire dagli anni ’70 le scuole hanno esercitato la possibilità loro attribuita di innovare dal basso: era la stagione dei "mille fiori", delle sperimentazioni autonome, che si ponevano il problema di rivedere i contenuti disciplinari, anzi, introducendo nuove discipline, attraverso metodologie didattiche innovative, più attive e coinvolgenti per gli studenti. Era un’ ottica di cambiamento a partire da quanto avveniva nelle classi, nella società, attenta ai nuovi bisogni culturali educativi e familiari.

Non eravamo all’anno zero, come la ministra vuole farci credere, ed importanti leggi erano state approvate, da quella istitutiva della scuola media dell’obbligo nel 1962, al tempo pieno e ai moduli, fino alla più recente legge sull’autonomia scolastica (del marzo ’97), a cui le scuole devono ispirarsi per progettare l’offerta formativa, gestire le condizioni di flessibilità, valutare e rendere conto di processi ed esiti. Una legge importante, tutelata dalla nuova Costituzione.

Per arrivare alla legge 144 del 1999 che aveva elevato l’obbligo a 16 anni , e in prospettiva 18 anni, spazzato via da Moratti e riportato, in controtendenza con tutti i Paesi europei, a 14 anni.

Con la legge 30 Berlinguer-De Mauro del 2000, sembrava finalmente essere arrivato il momento della madre di tutte le riforme, che quasi per scaramanzia si preferì definire "riordino dei cicli", visto il naufragio di molti tentativi precedenti. Il mondo della scuola rimase però abbastanza estraneo e poco coinvolto: così il processo costruttivo venne spesso percepito come imposto. Alcune scelte discutibili, come il ruolo riconosciuto alla scuola paritaria e la questione delle carriere, suscitarono molta delusione tra docenti e non solo.

Per contro, la nuova maggioranza di centro destra, con una dichiarazione pubblica di Moratti al meeting di Rimini nel luglio 2001, spiega subito il suo obiettivo di ridurre il monopolio della scuola pubblica e cancella la precedente riforma, di cui sopravvive formalmente solo l’autonomia scolastica. In seguito, arriva la modifica degli esami di maturità (commissari interni, perdita di valore del titolo rilasciato) e quindi i tagli e le riduzioni che falcidiano le risorse della scuola pubblica (il 30% in meno in due anni), riducono pesantemente gli organici, aumentano il numero di alunni per classe e, in ultima analisi, costringono le scuole a veri e propri salti mortali per garantire un minimo di decenza ad una scuola pubblica sempre più povera e dunque condannata ad un processo di dequalificazione crescente.

La legge 53 prevede infatti una riduzione generalizzata del tempo scuola obbligatorio per tutti, come dimostra il decreto attuativo sul primo ciclo. A fronte, infatti, di un orario obbligatorio che attualmente oscilla tra le 32 e le 40 ore settimanali, il governo ne propone 27. Con la possibilità di introdurre materie facoltative e opzionali: disgregando così un sistema unitario di opportunità e cancellando discipline attualmente comprese nell’orario obbligatorio. Ciò determinerà un inevitabile rapporto gerarchico tra le discipline, e dunque tra chi le insegna. Inoltre l’organico verrà calcolato, verosimilmente, solo sulle materie obbligatorie, relegando il personale delle attività facoltative nelle forche caudine dei rapporti di lavoro a tempo determinato.

Tutte le indicazioni sono pervase da un’ enfasi davvero eccessiva sulle famiglie e sui loro figli, considerati finalmente individui. Moratti arriva a dire che è giunta l’ora di "non mettere più al centro di tutto la classe". Le famiglie sceglieranno orari e percorsi di studio, parteciperanno alla stesura del portfolio, sottraendo così alla scuola, in nome di un male inteso diritto personale, il dovere sociale di fare delle scelte, alle quali, per quanto di sua competenza, non può e non deve sottrarsi. Secondo questa ideologia familiare o familista ci si rivolge a una famiglia che spesso non c’è e che, per svariati motivi, tende anzi a delegare alla scuola, caricandola di responsabilità che non le competono e sottraendole invece il diritto ad un servizio scolastico adeguato ai reali bisogni di studio e assistenza in un luogo educativo per eccellenza.

L’anticipo graduale delle iscrizioni alla scuola dell’infanzia ed elementare sarà consentito a bambini e alle bambine che compiano i 3 e i 6 anni entro il 30 aprile dell’anno scolastico di riferimento, (per quest’anno entro il 29 febbraio), in base alla tanto acclamata flessibilità. E’ un provvedimento opzionale, ma non indolore, che vedrà presenti nella stessa classe bambini divisi da 15-16 mesi di differenza. Per non parlare delle strutture e del personale, inadeguati a rispondere ad esigenze educative e di assistenza così differenziate. Ma, ancora una volta, la decisione, ancorché prettamente didattica ed educativa, è affidata alle famiglie, mentre si relativizza il ruolo della scuola pubblica nelle decisioni.

Va ricordato, a questo punto, che la legge è rimasta sostanzialmente ferma per quasi tre anni: il governo aveva previsto100 giorni per la sua piena attuazione, ne sono passati più di 900 solo per il primo decreto attuativo.

Negli anni ’70 gli enti locali integravano le debolezze della scuola. Ora sono a corto di risorse, e le politiche del governo vanno nella direzione dell’assistenzialismo piuttosto che della difesa dello stato sociale: nel 2004 la scuola pubblica potrà disporre di 90 milioni di euro, un’inezia. In compenso, sono stati stanziati 90 milioni di euro per i prossimi tre anni in soccorso alle famiglie che iscrivono il figli alla scuola privata e l’iniziativa fa il paio con il cosiddetto "buono pannolone" di mille euro per la nascita dei secondogeniti. Due iniziative che si commentano da sole: irrilevanti per il reddito familiare, pesantissime per le risorse sottratte al bene comune.

In uno degli ultimi emendamenti alla finanziaria approvati al Senato, dove la legge è stata licenziata il 14 novembre, si introduce il reddito di ultima istanza (una sorta di assegno di povertà, invenzione del ministro Maroni), finanziato attraverso il Fondo nazionale per le politiche sociali, per le regioni che intendessero istituirlo, che andrà a finanziare per altri 30 milioni di euro per tre anni la scuola privata. Altri 90 milioni di euro alla scuola privata in risorse aggiuntive a scapito di quella pubblica: un attacco senza precedenti. Con una mano si stanziano 200 milioni per le politiche sociali e con l’altra se ne scippano 90 per le private, mentre 45 andranno sulla voce "ricerca scientifica e tecnologica".

Allo stato attuale, non solo il dissenso, ma anche la ricerca di nuovi modelli è osteggiata e impedita nella scuola. I dirigenti scolastici sono spesso chiamati a dar prova di fedeltà ed anche i migliori faticano a trovare una strada accettabile.

Io penso che tutta la scuola debba continuare ad essere unita non solo per il tempo pieno, ma anche per un tempo di tutti che non sia vuoto o carico di esclusione. Infatti la legge 53 non aiuterà quel 30% di classe di età che abbandona la scuola senza alcun titolo o qualifica.

Si è fatto un gran parlare dell’arricchimento dell’offerta formativa. In realtà l’inglese o comunque una lingua straniera vengono già insegnati al 92 % dei bambini italiani, mentre l’ informatica al 47%.

Il tempo pieno, per il quale han-no manifestato migliaia di per-sone a Roma, (40.000 nei giorni scorsi a Milano) ed in tutte le città d’Italia, Trento compresa, è un progetto unitario di didattica, socializzazione, lavoro comunitario, oltre che risposta al bisogno delle famiglie, non un mero computo di ore (27 più 3, più 10 aggiuntive, eventualmente appaltate a soggetti esterni). Lo stesso contratto di lavoro degli insegnanti prevede le ore di interscuola (mensa e ricreazione) come organiche al tempo pieno. Un momento importante di confronto e condivisione in un tempo rilassato che perderebbe tutta la sua funzione se appaltato, come già sta accadendo anche in Trentino, a cooperative che non hanno alcun titolo per svolgere mansioni educative. Intanto apprendiamo che è stata cancellata la norma del testo unico sul doppio organico, garantito solo per quest’anno.

Al di là di tutte le ritrattazioni che la ministra si è affrettata a fare a seguito della grande mobilitazione che ha scosso il Paese, il modello di scuola a tempo pieno così come lo conosciamo è a rischio, perché rompere l’unità organica dell’insegnamento significa ridurre la scuola del pomeriggio ad un servizio di baby sitting dequalificato.

E del resto, questa "riforma piccola piccola", a detta di molti esperti una riformina, è stata un susseguirsi di annunci lanciati quasi a reti unificate (più scuola, più partecipazione delle famiglie, più sostegno ai portatori di handicap…) puntualmente smentiti dai fatti. Per questo invito a leggere i documenti ufficiali, non i comunicati stampa, direttamente sul sito del Miur.

Una riforma tanto tradizionale nell’architettura, quanto modernizzante negli strumenti (le famose tre I: Internet, Impresa, Inglese). E non abbiamo tardato ad accorgercene quando abbiamo potuto vedere, in uno spot che intende lanciare questo nuovo modello di scuola, un’intera classe di bambini che andava da aprire il suo primo libretto bancario. Negli stessi giorni si poteva leggere su La Repubblica l’appello di intellettuali, pedagogisti e scrittori che stigmatizzavano il fatto che dai programmi della scuola primaria era completamente scomparsa la parte dedicata alla letteratura per l’infanzia. Per me, che inizio sempre la mia giornata scolastica con la lettura di qualche buon classico o di testi più attuali ma non per questo meno validi, e godo insieme ai miei alunni del piacere della lettura, questo è un fatto molto triste.

Il mito dell’ Impresa, trova il suo apice nel portfolio delle competenze. Vero gioiello linguistico, è questo il libretto riassuntivo della carriera scolastica dell’alunno, redatto dal tutor, altro fiore all’occhiello della ministra che, per l’occasione, ha rispolverato il mito del maestro tuttologo. A capo del team docenti, il maestro prevalente dovrà occuparsi delle discipline nobili e a lui saranno affidate le funzioni di orientamento per la scelta delle attività educative e didattiche, la cura delle relazioni con le famiglie, la documentazione del percorso formativo compiuto dall’allievo. L’impianto culturale è vecchiotto, a esser buoni.

Ma una delle idee centrali della signora Moratti è la personalizzazione, da non confondersi con la più nota individualizzazione, che consiste nella messa in atto di strategie diverse per arrivare ad un obiettivo comune: l’educazione e l’istruzione. La personalizzazione morattiana, lungi dal ridurre gli insuccessi per gli alunni svantaggiati, offrirà molte opportunità ai "migliori" per far emergere forme di eccellenza. Così il suo ispiratore, il prof. Bertagna, cita don Milani quando scriveva: "Non c’è cosa più ingiusta che far le parti uguali fra diseguali", ma non ne trae le stesse conclusioni: bisogna dare di più a chi ha meno e non dare di più a chi ha già di più.

Nella medesima direzione va, a mio avviso, il doppio binario per la scuola superiore, separata tra il sistema dei licei e quello della formazione professionale, in contrasto con la precedente legge Berlinguer-De Mauro che tendeva a realizzare gli stessi obiettivi di educazione alla cittadinanza (saperi, comportamenti e competenza del vivere civile) uguali per tutti nel biennio superiore. Riguardo alla proposta Moratti, mi chiedo se è equa la differenziazione per ragazzi tredicenni, o poco più, costretti a scegliere precocemente tra due sistemi con finalità e percorsi molto diversi. Quanti saranno i ragazzi difficili o segnati dal loro destino sociale, tutto orientato alla qualifica e con sbarramenti verso l’alto, che accederanno alle scuole che preparano all’università e comunque all’acquisizione di un bagaglio formativo che non può essere ridotto solo ad una pratica addestrativa e professionalizzante?

Insomma, molti sono i dubbi, gli interrogativi e le preoccupazioni che questa legge ci pone.

In Trentino, la firma del Protocollo d’Intesa con il presidente della giunta Dellai dovrebbe metterci al riparo dalle ingiustizie più palesi. Non sono certa che sarà così. L’impianto del protocollo è del tutto simile a quello della riforma, tant’è che ha ricevuto pubblicamente il plauso della ministra, nel corso della sua recente, e movimentata, visita a Trento. Di sicuro ne ha avallato la tragica inadeguatezza, il ritorno al passato, l’idea di fondo di una scuola a domanda individuale, l’anticipo per la scuola dell’infanzia ed elementare, il portfolio, la figura del tutor che, per quanto meno preponderante (15 ore sulla classe invece di 18), è qualcosa di cui nessuno sentiva il bisogno, la riduzione del tempo scuola, la possibile esternalizzazione di mensa e interscuola, le materie facoltative e opzionali. La diversa configurazione della formazione professionale, come percorso culturale aperto e non bloccato era per noi un patrimonio già acquisito.

A Dellai chiedo: è possibile che la nostra Provincia, utilizzando appieno le norme di attuazione e la propria autonomia non potesse produrre di meglio, di nuovo, di più? O almeno cercare di salvare davvero le importanti conquiste di questi anni laboriosi e creativi, che hanno garantito i diritti delle persone, custodito il mandato costituzionale, rispettato i bisogni delle persone e della società?