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QT n. 7, luglio 2024 Servizi

Perfido: Tribunale buonista?

Due provvedimenti giudiziari dalle negative ripercussioni sulla società

Su “Perfido”, inteso come inchiesta dei Ros e come procedimenti giudiziari, Questotrentino ha dato delle valutazioni molto positive. Ci sono però degli aspetti che sono da discutere e che solo superficialmente possono apparire come secondari.

Il primo è stata la qualificazione giuridica (cioè, di quale reato sono responsabili) di Mustafà Arafat e Giuseppe Paviglianiti. La Procura infatti aveva accettato, e il Tribunale concesso, un patteggiamento dei due imputati, ritenuti non più colpevoli di appartenenza all’associazione mafiosa (il famoso articolo 416 bis), ma di assistenza alla stessa.

La cosa, soprattutto per Arafat, aveva lasciato molto sconcertati. Si tratta infatti del caporione del gruppo di picchiatori che aveva selvaggiamente pestato l’operaio cinese Hu-Xu-Pai, e che così veniva descritto nel capo d’imputazione “Rappresenta il braccio armato del sodalizio eseguendo personalmente atti intimidatori in pregiudizio di altri imprenditori, lavoratori, debitori”.

Ora il reato di assistenza ad associazione mafiosa si verifica quando si presta un’automobile, si fornisce un rifugio a un latitante, non quando sistematicamente si compiono atti di violenza nell’interesse del sodalizio. Per renderci conto del livello di aggressività del soggetto, e in contemporanea della sua intraneità all’organizzazione, riportiamo questa registrazione di una sua aggressione intimidatoria a un imprenditore, Angelo Lorenzi, che aveva avuto l’ardire di adire le vie legali per un furto di un camion di porfido:

Ascoltami…tu non sai neanche… tu stai stuzzicando i muli e non sai neanche di che razza sono… Angelo fai questo piacere prima che venga veramente una cosa grave … perché ti stai mettendo veramente nei casini… tu hai tutto da perdere.. Angelo… fai le cose da uomo serio! Tu hai fatto una cosa da infame….! Sono di fronte al Macheda… al calabrese… lo sai… Angelo!.. Ti sei messo in un guaio talmente grosso che non ne esci fuori… te lo dico io Angelo! Puoi chiedere chi siamo noi… Nella casa tua scoppia la guerra… a casa tua c’è il fuoco!”

Sono parole in cui Arafat non solo minaccia violentemente il derubato (e la sua famiglia), ma rafforza le parole mettendo sul piatto l’appartenenza all’organizzazione criminale, icasticamente rappresentata dalla contiguità con il capo locale, Innocenzio Macheda (“Sono di fronte al Macheda... al calabrese”).

E questa sarebbe una semplice “assistenza” all’associazione? E difatti la Procura Generale ha impugnato due volte questa sentenza di fronte alla Cassazione, e due volte la suprema corte la ha annullata, bollando come “palesemente eccentrica” e “macroscopicamente errata in diritto” tale derubricazione del reato e conseguente drastica riduzione della pena.

Il secondo aspetto riguarda la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con altre misure cautelari meno afflittive, ma che dovrebbero comunque garantire lo scopo preventivo che l’Ordinamento si prefigge. Le misure cautelari infatti vengono applicate, a fronte di gravi indizi di colpevolezza, prima della definitività della sentenza, per ovviare la pericolo di fuga e/o di reiterazione di reati (quando sussista il concreto pericolo che il soggetto indagato commetta gravi delitti con utilizzo di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale o delitti di criminalità organizzata, oppuredella stessa specie di quello per il quale si procede) e/o di inquinamento delle prove. Nel nostro caso alla iniziale custodia cautelare in carcere, applicata in attesa della sentenza definitiva, è stata sostituita la libertà vigilata ai condannati in primo grado della nostra locale, per permettere loro di lavorare e mantenere loro stessi e i loro familiari.

Secondo questa logica quindi, a Giuseppe Battaglia, individuato e condannato (in primo grado) a 12 anni di reclusione quale gestore delle attività economiche della locale ‘ndranghetista, è stata comminata la misura cautelare della libertà vigilata con obbligo di dimora nel Comune di Volano prima e poi in quello di Villa Agnedo, ed è stato autorizzato a lavorare come cubettista nel Comune di Fornace presso la società Pietra.

Qui a nostro avviso sta il vulnus, sostanziale. Perchè, quale è il risultato di questo provvedimento? Ora Giuseppe Battaglia torna ad essere presente nel triangolo del porfido (Albiano-Lona-Fornace), si fa vedere in giro, e la zona grigia dei fiancheggiatori ha buon gioco nel propalare la storia che Perfido è una montatura, non è successo niente, non ci sono mai state condanne. Insomma, direbbero gli americani, business as usual.

A questo punto è opportuno ricollegarsi al sondaggio che QT con Libera ha operato presso i cittadini di Lona Lases circa un anno fa, e che è stato illustrato dal supervisore scientifico prof. Carlo Buzzi nello scorso numero di giugno (“La ‘ndrangheta in paese. Che ne pensa la gente?”). E che nelle pagine successive viene approfondito dal nostro collaboratore Walter Ferrari del Coordinamento Lavoro Porfido.

In particolare, ci preme qui sottolineare l’insoddisfacente reazione della comunità al disastro economico sociale (ricordiamo che a Lona Lases tutte le cave sono chiuse, le aziende sono fallite – o scientemente fatte fallire - a ripetizione, di un sindaco è stato chiesto il rinvio a giudizio per voto di scambio politico-mafioso e lo sconcerto generale ha impedito che per oltre due anni e mezzo si riuscisse ad eleggere un’amministrazione comunale).

In questa situazione dovrebbe essere vitale chiedersi cosa sia successo, e che relazione ci sia con la presenza – prima ipotizzata dagli inquirenti, oggi confermata da sentenze definitive – di un’associazione mafiosa.

La cava di Fornace dove è autorizzato a lavorare Giuseppe Battaglia

Orbene, sul processo “Perfido” una parte consistente della popolazione candidamente si dichiara poco (32%) o per nulla (9%) informata, e un altro 7% (prudenzialmente?) non risponde.

E ancora: il 36% dice di non sapere nulla delle condanne già emesse, il 14% che non si è ancora arrivati a nessuna condanna, e l’11% (sempre per prudenza?) non risponde.

Evidentemente siamo di fronte ad una comunità nella quale una larga porzione non riesce a guardare dentro se stessa. Poi, è vero, la valutazione etico-politica sulla gravità dei fatti rilevati è più confortante (per il 51% sono molto gravi, e per il 22% abbastanza gravi) e in particolare molto netta la ripulsa verso la “riduzione in schiavitù” degli operai stranieri. Rimane però – non ci addentriamo qui nel riportare ulteriori dati, già illustrati negli altri articoli – il dato di fondo: l’indagine e il processo non sono riusciti a portare nella comunità una adeguata consapevolezza della situazione.

Questo non è innanzitutto compito della giustizia, bensì dell’informazione, della politica. Però il Tribunale di certo non ha aiutato. Con l’incredibile lasciapassare concesso a un noto picchiatore come Mustafà Arafat; con il buonismo con cui si è concesso a un boss come Giuseppe Battaglia di aggirarsi apparentemente libero come un fringuello sui luoghi dei misfatti (e i sottopancia hanno quindi buon gioco nello spargere la voce che in realtà non sia mai successo niente) si sono di fatto avallate le interessate divulgazioni minimaliste o addirittura negazioniste. Forse i giudici, pur sempre nel pieno rispetto dei codici, dovrebbero prestare più attenzione ai riflessi sociali del loro operato.

A questo proposito ci sia permesso un’ulteriore considerazione. I provvedimenti di cui stiamo parlando sono stati varati proprio nell’ottica di sostituire ai pessimi insegnamenti che si apprendono in carcere, quelli postivi che invece possono venire da un impegno lavorativo. “Rieducazione e reinserimento sociale” dovrebbe appunto essere il fine ultimo. Noi chiediamo ai giudici: forse pensano che permettere a un boss di agire a 3 kilometri dal Comune dove ha spadroneggiato, porti alla sua “rieducazione”? O piuttosto non lo possono spingere a un “reinserimento sociale” ben altro da quello auspicato?

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