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QT n. 4, 21 febbraio 2004 Musical

“Fame”: troppo famosi

Osannata da pubblico e critica, la versione musical del film e serial Tv Saranno famosi, in scena al Teatro Sociale, ha invece sceneggiatura debole, trama sfilacciata, recitazione discutibile, colonna sonora mediocre. Ottime invece le capacità canore e coreutiche dei giovani interpreti: sperando che non si montino la testa.

Ha girato, e continua a girare, per tutta Italia, figurando in ogni cartellone teatrale; pubblico e critica l’hanno osannato fra interviste ed articoli entusiasti. Eppure non crediamo che "Saranno famosi" sarà ricordato fra dieci o vent’anni come il musical visto al Sociale. Quest’opera è stata un film di successo, poi una celebre serie televisiva, ed è logico che un tale vissuto renda "Fame" un fenomeno di culto su cui le aspettative sono altissime. Facile dunque deludere chi, come noi, ha amato e seguito con passione le vicende di Coco Hernandez, Lydia Grant, Danny Amatullo… anche se a riscrivere la sceneggiatura è lo stesso David De Silva, che ha cercato di reinventare i propri personaggi, cambiando nomi, ambientazione, trama, background.

La sua debole sceneggiatura sacrifica purtroppo molti caratteri, relegati a figure di contorno che esistono in funzione dei protagonisti. La cicciottella Mabel Washington (Serafina Frassica), l’ebreo portoricano Schlomo Metzenbaum (Andrea Casta) e la mascolina Grace Lamb (Beatrice Mondin) sono schiacciati da tre nuclei "centripeti": la storia d’amore fra Nick Piazza e Iris Kelly, lo scontro Tyrone-Miss Sherman, il percorso di Carmen "Jones" Diaz verso il successo e l’abisso.

Sarebbe stato interessante seguire i passi di tutti gli aspiranti allievi, alle prese con sesso, cibo, privazioni, lotta per l’immagine. La trama è invece sfilacciata, un bricolage di dieta e Bronx, problemi di droga e di ragazze, accostati senza un vero e proprio intreccio. Il risultato è una serie d’episodi divertenti accanto ad altri edificanti, con buone battute ("Questo corpo immagazzina più acqua del Titanic") e l’inevitabile virata drammatica nel secondo tempo. La carica di simpatia non si discute, ma resta difficile affezionarsi ai nuovi personaggi, entusiasmarsi per storie che pescano in molti cliché senza approfondirne nessuno. Tanto valeva riproporre sul palcoscenico il film di Parker o una a caso delle 136 puntate TV andate in onda fra l’82 e l’87, repliche escluse. Per fortuna, a risollevare gli animi ci pensano le coreografie, curate nei minimi dettagli e ricche di numeri acrobatici. A vederli muoversi, è impossibile non farsi contagiare dall’entusiasmo e dalla bravura di questi ragazzi. In primis, lascia senza fiato lo snodato ed agilissimo Kris Jobson (Tyrone Jackson) le cui doti, forse, non sempre sono sfruttate al meglio. Peccato che il suo personaggio sia una banalizzazione di Leroy Jonhson, il ballerino di Harlem con padre latitante e fratello in galera, asso del jazz dai modi spicci e spigolosi.

In quest’adattamento, il Bronx è giusto una citazione, una parola pronunciata ogni tanto come uno spettro ma non realmente evocata. Sofferenze, degrado, miseria restano fuori e lasciano agli spettatori un’immagine edulcorata del quartiere-pattumiera coi suoi rifiuti umani; vite abbandonate a se stesse da politici e gente comune, che la High School of Performing Arts raccoglie perché diano il massimo fra devozione, disciplina e sacrificio. Persino la figura di Carmen dà un accenno troppo pallido e fugace del tunnel della droga – eroina e psicofarmaci – per quanto l’interpretazione di Marta Belloni sia perfetta oltre che toccante, quasi il suo corpo fosse davvero deturpato da tic nervosi e tremiti da astinenza. Non male anche Beatrice Mondin, timbro deciso e battagliero. Per il resto, la recitazione del cast è piuttosto scarsa e poco convincente. Un esempio: Danilo Brugia, ex Carramba boy di "Carramba che fortuna", è un Nick Piazza tanto atletico e armonioso nei movimenti quanto impacciato e innaturale nel pronunciare le battute. Ciò, tuttavia, dimostra che la preparazione fisico-artistica è buona, se non ottima.

Tra le voci, belle senza eccezioni, si segnala quella da soprano di Moncia Small, alias Miss Esther Sherman, che regala uno splendido accenno di "Summertime" e un grintoso duetto con Maria Grazia Valentino (Greta Bell). Un po’ deludente invece il fronte compositivo: canzoni e musiche, di Jacques Levy e Steve Margoshes, fanno spesso rimpiangere la colonna sonora originale firmata Michael Gore e Dean Pitchford. Poco incisive, troppo lacrimevoli, s’infiammano in rare occasioni: oltre al già citato duetto, ricordiamo Schlomo che dedica un gustoso pezzo autobiografico al suo membro. In generale, però, il punto di forza è più nell’esecuzione e nell’arrangiamento che nella melodia. Interessanti la tromba di Raffaele Kohler (Goodman King) e la batteria di Beatrice Mondin, che offrono momenti suggestivi e virtuosi nel senso buono del termine. Segnaliamo, poi, la performance di Andrea Casta; il suo violino elettrico Cantini con archetto in carbonio Righetti conserva la morbidezza e la linearità del suono, conferendogli al contempo maggiore aggressività.

Dovendo fare un bilancio, comunque, ciò che ci resta del musical è soprattutto la semplicità di chi lo ha interpretato, ragazzi che hanno confidato candidamente d’aver ricevuto le soddisfazioni maggiori esibendosi per un pubblico di anziani o di bambini in ospedale. Speriamo dunque che restino così e non si montino la testa; e soprattutto che, dopo un solido corso di recitazione, ricevano un ingaggio più penetrante e meno sopravvalutato di questa versione di "Fame".

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