“Volevamo braccia, sono arrivati uomini”
Quando clandestini eravamo noi. Da Narcomafie, mensile del Gruppo Abele di Torino.
"Sono briganti, lazzaroni, fannulloni, corrotti nell’anima e nel corpo... Siamo certi che i nostri capitalisti non riceveranno beneficio alcuno dall’importazione di queste locuste".
Può sembrare cronaca italiana recente, eppure a parlare non è un politico fautore delle cannonate sui gommoni né un cittadino che vede minacciata la sua sicurezza. Correva l’anno 1890 quando queste parole apparvero sull’Australian Workman e le "locuste" in questione erano gli italiani.
Forse ce ne siamo dimenticati, eppure c’è stato un tempo, neanche molto distante, in cui sulle carrette del mare c’eravamo noi. E’ un pezzo di storia che preferiamo non raccontarci, salvo per quei pochi zii d’America che ce l’hanno fatta, nella convinzione che agli altri, per integrarsi, sia bastato un duro e onesto lavoro. Purtroppo per molti non è andata così. In 27 milioni lasciarono l’Italia tra il 1876 e il 1976 per cercare fortuna in America, Australia, Brasile, Argentina, Svizzera, Germania e le terre promesse offrirono spesso solo odio, umiliazioni, sfuttamento. Cioè quello che trovano molti immigrati che oggi approdano alle nostre coste.
Il paragone non calza? Noi eravamo diversi, migliori? La storia ci dice che non è vero, che ogni accusa rivolta oggi a loro è stata mossa ieri a noi. Come loro eravamo clandestini, attraversavamo di notte le Alpi, anche in pieno inverno, tentando di sfuggire ai controlli di frontiera francese, che fermavano circa 80 persone al giorno solo nella zona di Ventimiglia, ospitate in "un immondo casermone dove le camere offrono come comfort un po’ di paglia umida, vento gelido garantito a tutti i piani, vetri alle finestre serviti come obiettivi a tutte le artiglierie del mondo".
Ci ammassavamo sui ponti e nelle camerate di terza classe dei transatlantici, per giorni, in condizioni invivibili, superando di gran lunga la capienza effettiva della nave e senza essere registrati. Quando, nel 1927, affondò il "Principessa Mafalda" al largo del Brasile, il Corriere della sera fece un titolo a tre colonne e questo sommario: "Sette navi accorse all’appello.1.200 salvati. Poche decine le vittime". Erano 314.
Ma il caso più tragico fu quello nel 1906 del "Sirio", diretto in America e naufragato davanti alle coste spagnole di Cartagena: la nave si inabissò 16 giorni dopo essersi squarciata contro uno scoglio e l’evacuazione avrebbe potuto salvare tutti. Invece il bilancio fu di 292 morti secondo le caute stime ufficiali, ma più probabilmente di circa 500. Il "Sirio" ospitava 80 passeggeri in prima classe, 40 in seconda e 1.180 in terza.
Quando finalmente raggiungevamo la costa, ci attendevano ostilità e rifiuto, come testimonia una vignetta dell’epoca in cui lo Zio Sam osserva interdetto lo sbarco di orde di topi con baffi, coppola e coltelli e una sfilza interminabile di appellativi e soprannomi umilianti. Il sovrintendente Jackson, sul New York Times del 6 novembre 1879, ci definì "la parte più lurida e miserabile di esseri umani mai sbarcati a Castle Garden" e un giornale di Melbourne commentava il nostro arrivo nel 1925 come "l’invasione delle pelli-oliva".
Vivevamo in baracche fatiscenti, stipati anche in venti in una stanza, facendo spesso i turni per dormire in un unico letto e non erano rari i casi di chi moriva cadendo da tetti o da davanzali su cui si era sistemato. Scriveva nel 1894 Adolfo Rossi: "A New York c’è quasi da vergognarsi a essere italiani. La grande maggioranza dei nostri compatrioti... abita nel quartiere meno pulito della città, chiamato i Cinque punti. E’ un agglomerato di casacce nere e ributtanti, dove la gente vive accatastata peggio delle bestie. In una sola stanza abitano famiglie numerose: uomini, donne, cani, gatti e scimmie mangiano e dormono nello stesso bugigattolo senz’aria e senza luce. In alcune case di Baxter e Mulberry Street è tanto il sudiciume e così mefitica l’atmosfera da far parere impossibile che ai primi calori dell’estate non si sviluppi ogni anno un colera micidialissimo".
Gli abitanti dei Paesi in cui emigravamo temevano di essere colonizzati e ci accusavano di fare troppi figli, per poi sfruttarli o venderli. La nostra natalità era di fatto molto superiore alla loro, ma il lavoro minorile era di norma, oltre che in casa, nelle fabbriche. E’ vero, peraltro, che la miseria indusse qualche famiglia a vendere un figlio maschio alle compagnie di girovaghi saltimbanchi e le femmine ai gestori dei bordelli del Nord Africa.
La nostra proverbiale astuzia e capacità di arrangiarci ci portò ad inventare ogni genere di mestiere (legale e non) pur di sopravvivere: ambulanti, spazzacamini, mendicanti, ladri e truffatori. Negli Stati Uniti solo i neri erano più odiati e discriminati di noi e nemmeno la polizia riusciva (o voleva) fermare i linciaggi di cui eravamo vittime. A New Orleans, nel 1890, in 20.000 assaltarono il carcere per uccidere undici italiani già condannati per omicidio: alle guardie carcerarie, per riportare l’ordine, non rimase che stendere i cadaveri per la strada. Le cronache raccontano che qualcuno si portò via come souvenir un fazzoletto inzuppato di sangue.
Lo stereotipo dell’italiano violento e rissoso non era peraltro del tutto infondato: in l’Italia, nel 1881, si compivano 16,8 omicidi ogni 100.000 abitanti e nel 1921 il 40% degli stranieri nelle carceri di New York era italiano, una cifra enorme se si considera che la comunità italiana rappresentava appena il 2% della popolazione. Percentuale paragonabile a quella degli stranieri arrivati negli ultimi 25 anni in Italia.
"Parlare di emergenza è semplicemente ridicolo, considerato anche che gli immigrati sono forza lavoro assolutamente necessaria per l’economia italiana. Ma, come dice un’amarissima battuta di Frisch, ‘Volevamo braccia, sono arrivati uomini’ e gli italiani, che hanno conosciuto bene l’emigrazione, dovrebbero riconoscersi negli immigrati di oggi. In fondo l’unica differenza è che noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo". A parlare è Gian Antonio Stella, autore de "L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi" , meraviglioso libro sull’emigrazione italiana tra metà 800 e metà 900, da cui sono tratti i dati di questo testo. Ma perché parte della nostra storia, l’emigrazione e la xenofobia di cui siamo stati oggetto sono stati rimossi dalla memoria collettiva? "E’ umano che una persona voglia dimenticare le cose brutte - risponde Stella - Quello che è inaccettabile è la rimozione da parte della scuola, degli storici e dei mass media. Quelli cioè che dovrebbero essere i grandi diffusori di cultura popolare e che avrebbero il compito anche di distruggere stereotipi vergognosi. Bisognerebbe spiegare, soprattutto ai ragazzi, e anche con una certa incisività, la differenza di significato della parola ‘clandestino’ riferita a un Bernardo Provenzano che vuole rimanere nell’ombra, e a un Mohammed che sogna invece di diventare cittadino. Io credo che l’antirazzismo abbia bisogno di abbandonare l’attuale posizione di difesa e assumerne una d’attacco".
Non c’è traccia di retorica né di moralismo nelle parole e nella penna di Stella; la ricostruzione puntigliosa e sconvolgente della realtà parla da sé e il rovesciamento di prospettiva dovrebbe essere già abbastanza esplicito anche per chi ha la memoria corta.
C’è però, chiaro e forte, un messaggio contro "il fetore insopportabile di xenofobia che monta, monta, monta in una società che ha rimosso parte del suo passato".