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L’orda: mafia e spaghetti

Quando gli albanesi eravamo noi. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.

“La feccia del pianeta, questo eravamo. Meglio: così eravamo visti. Non potevamo mandare i nostri figli alle scuole dei bianchi in Louisiana. Ci era vietato l’accesso alle sale d’aspetto di terza classe alle stazioni di Basilea. Venivamo martellati da campagne di stampa indecenti contro ‘questa maledetta razza di assassini’. Cercavamo casa schiacciati dalla fama di essere ‘sporchi come maiali’. Dovevamo tenere nascosti i bambini come Anna Frank perché non ci era permesso portarceli dietro. Eravamo emarginati dai preti dei paesi di adozione come cattolici primitivi e un po’ pagani. Ci appendevano alle forche nei pubblici linciaggi perché facevamo i crumiri o semplicemente perché eravamo tutti siciliani".

Così Gian Antonio Stella, brillante giornalista del Corriere della Sera, apre il suo bellissimo libro. Un libro dal titolo significativo: "L’orda, quando gli albanesi eravamo noi".

Eh sì, troppa gente dalla memoria corta ha dimenticato com’erano visti i nostri nonni. Eppure in un secolo (dal 1876 al 1976), ci ricorda l’autore, ben 27 milioni di italiani hanno lasciato il nostro paese alla ricerca di fortuna o per lo meno di qualcosa da mangiare. E viaggiavano anch’essi sulle carrette del mare per giorni e giorni, a volte mesi, stipati come sardine. "Si mangia da bestie" - scriveva in una lettera ai familiari Francesco Sartori, un emigrante italiano.

Il volume è ricco di episodi che fanno ritornare alla mente storie, irritazioni, imprecazioni, improperi già sentiti. "Non c’è stereotipo rinfacciato agli immigrati di oggi - scrive Stella - che non sia già stato rinfacciato, un secolo o solo pochi giorni fa, a noi". Anche noi siamo stati clandestini: in questo modo milioni di nostri connazionali hanno raggiunto a piedi la Francia e a bordo di navi illegali le coste americane. Struggente e amarissima è la storia di tre ragazzi meridionali che "vendono tutto, casa compresa, per raccogliere 600 lire (sei volte più del biglietto regolare) per andare in America". Ma truffati da persone senza scrupoli, dopo due mesi di attese, paure e frustrazioni trascorsi al porto di Napoli, decidono di tornarsene a casa.

Anche noi abbiamo vissuto in condizioni igieniche rivoltanti. E la rivista inglese Lancet commentava: "Il sovraffollamento e la sporcizia tra gli italiani erano presenti come il loro stile di vita naturale".

La miseria e l’ignoranza hanno spinto i nostri nonni a vendere le loro donne nei bordelli egiziani, o i bambini nelle vetrerie del sud della Francia. Abbiamo rubato il lavoro agli altri. E per questa colpa siamo stati massacrati dai francesi ad Aigues Mortes, alla foce del Rodano. Ma abbiamo anche esportato criminalità in tutto il mondo, tanto che il marchio di mafiosi ce lo portiamo ancora addosso. "Perfino l’accusa più nuova dopo l’11 settembre, cioè che tra gli immigrati ci sono ‘un sacco di terroristi’ - scrive Stella - è per noi vecchissima: a seminare il terrore nel mondo per un paio di decenni, furono i nostri anarchici. Come Mario Burda, un fanatico romagnolo che si faceva chiamare Mike Borda e che il 16 settembre 1920 fece saltare per aria Wall Street fermando il respiro di New York ottant’anni prima di Osama Bin Laden". E non è nuova neppure la reazione statunitense che allora come oggi fece di ogni erba unfascio. E a farne le spese furono quella volta Sacco e Vanzetti.

Dal "Judge" del 6 giugno 1903. Titolo della vignetta: "Occhio, zio Sam, sbarcano i sorci!".

Ma il pregiudizio anti italiano continuò ancora per lungo tempo, tanto che nel 1973 il presidente Richard Nixon confidava ad alcuni suoi collaboratori: "Gli italiani non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso". E concluse: "Il guaio è che non si riesce a trovarne uno che sia onesto".

I pregiudizi contro gli italiani portarono perfino a veri e propri pogrom. Accadde a Tallulah, una cittadina della Louisiana, dove cinque italiani, arrestati per una rissa, furono tirati fuori dal carcere da una folla inferocita e assetata di sangue, massacrati e poi impiccati.

In Australia le cose non è che andassero molto meglio. Scriveva un giornalista nel 1925: "Andate a Ingham, a Innisfail... e mettetevi alla prima cantonata. Sopra cento parole che vi arrivano all’orecchio, è molto se venti sono inglesi. Adesso cominciano a comparire anche insegne in italiano. Se andiamo avanti cosi, tra qualche anno nel Queensland vedremo i policemen con un cappello da carabiniere e le gondole nel Johnson Ftiver".

Non erano solo i paesi anglosassoni a trattarci con disprezzo. Anche i nostri vicini di casa, gli svizzeri soprattutto, ci guardavano dall’alto in basso. A Basilea, per esempio, non ci volevano nemmeno nelle sale d’aspetto di terza classe. Eravamo allora nel 1898. Ma le cose non migliorarono granché nei decenni successivi, se è vero che nel 1992, quando in Italia arrivavano le prime navi cariche di poveri cristi provenienti dai paesi del terzo mondo, in Svizzera c’erano ancora un migliaio di bambini italiani che vivevano in clandestinità. E per stare vicino ai loro genitori erano costretti a barricarsi in casa. Come Anna Frank.

Insomma, conclude Stella, "l’unica vera differenza tra ‘noi’ allora e gli immigrati in Italia oggi è quasi sempre lo stacco temporale. Noi abbiamo vissuto l’esperienza prima, loro dopo. Punto".