Bandidos
Cosa c'è dietro le bande di motociclisti?
Nella chiesa di Niederlana c’è uno degli altari con le ali (Flügelaltar) più belli dell’area alpina. Venerdì 3 ottobre tuttavia non era questo che costituiva la ragione dell’affollamento della chiesa e del cimitero che la circonda. 460 "bandidos" erano venuti al funerale del loro amico di club, un giovane di Lana ucciso da una banda rivale. Il compassato Dolomiten ci fa una pagina, descrivendo i partecipanti, venuti da tutta la Germania, e pubblica addirittura un manifestino in memoria del "caduto con onore" con la scritta: "In memory of bandido Paul. Gone but never forgotten".
Arrivati in moto, jeans e giacche di pelle con vistose scritte in giallo, aria aggressiva, in realtà non hanno dato origine a nessun disordine, nonostante le scritte sulla corona avessero annunciato il peggio: "Dio perdona, i bandidos no" - stava scritto sulla striscia di quelli di Francoforte.
La polizia li aveva accompagnati lungo l’autostrada e controllato con preoccupazione questa piccola invasione del piccolo centro della Val d’Adige, cresciuto alla svelta con l’insediamento di piccole industrie e di molte iniziative artigianali in una zona di monocultura della mela.
A guardarli sembra di essere in America, in quelle periferie rurali in cui l’identità viene "gridata", agli incontri dei possessori di una certa motocicletta o di qualche altro club in cui si tenta di costruire un’appartenenza, che in mancanza di altri punti di riferimento viene esaltata come e più di una famiglia. Della famiglia manca tuttavia la dolcezza e l’unica modalità di comunicazione sembra essere il confronto basato sulla forza.
Il fenomeno delle bande da queste parti è da tempo conosciuto. Fra i più noti, che hanno fatto parlare di sé in passato e fatto aprire inchieste giudiziarie ci sono gli skin heads, che hanno preso il posto dei neonazisti ereditandone slogan antisemiti e riferimenti storici (in assenza di conoscenza della storia, per lo più).
Eppure c’è un senso di sbigottimento in chi osserva questa vicenda di morte. Di nuovo, dopo i serial killer che negli anni scorsi hanno tenuto banco sui giornali per mesi, una morte assurda fa emergere aspetti della realtà della profonda periferia sudtirolese che contrasta con l’immagine suadente e naif della vita sui i monti e fra gli alberi fioriti. Come si arriva da una cultura dell’esaltazione dell’identità etnica tradizionale, condita dall’assidua frequentazioni dei riti religiosi, all’identificazione in un "bandido"? I giornali esaltano gli aspetti folkloristici della vicenda, ma non riescono, pur sottolineando gli aspetti di cronaca nera, a eliminare l’inquietudine che nasce in chi osserva un fenomeno così vicino ai telefilm USA a basso costo, pieni di violenze e di giacche nere di pelle. Sul "santino" dei bandidos, il viso di Paul, il ragazzo ucciso, ha un’aria mite e semplice, e neppure il vistoso tatuaggio e il gilet senza maniche con cerniera, indossato su niente, riesce a dargli un’aria aggressiva. In questa contraddizione, fra il viso innocente e l’abbigliamento provocante, si riflette la mancata elaborazione dell’esperienza storica recente del Sudtirolo. L’ottuso rifiuto di chi governa a riflettere sulla modernità impedisce ai giovani di diventare consapevoli della transizione verso una realtà sociale e culturale nuova. E’ una storia triste con una famiglia colpita da un lutto, la morte di un figlio, che per la modalità assurde in cui è avvenuto, è ancora più difficile da accettare.
Vi racconto dunque una storia senza morti apparenti, che mi hanno raccontato ieri. Nel bar aperto nella lussuosa sede della SVP, è stata installata una macchina del caffè nuova, la migliore esistente, accompagnata dal miglior caffè sulla piazza. E’ durata solo un giorno. Quando un esponente di primo piano del partito ha notato - con orrore - che si trattava di caffè italiano, si è dovuto cambiare tutto.
Ora il caffè è Meinl e la macchina anch’essa "etnicamente adeguata".