L’obiettivo: cure palliative efficaci al 100%
Intervista al dott. Sergio Vesconi, direttore del Dipartimento Emergenza e Urgenza dell’Ospedale Niguarda di Milano.
Sulla gestione etico-medica dei pazienti terminali abbiamo posto alcune domande al dottor Sergio Vesconi, medico anestesista-rianimatore, direttore del Dipartimento Emergenza e Urgenza dell’Ospedale "Niguarda" di Milano.
Il "Niguarda" è il maggiore ospedale pubblico di Milano e uno dei più grandi in assoluto, con i suoi 1200 posti-letto. Il Dipartimento Emergenza e Urgenza ha in organico sette primari, è articolato in settori specialistici e comprende due reparti per la rianimazione.
Il Codice di Deontologia Medica, dopo le modifiche del 1999, costituisce un riferimento sufficientemente efficace e chiaro nell’orientare le decisioni dei medici nella fase terminale del malato?
"Il C.D.M. è necessariamente attestato sul consolidato minimo, su quello cioè che è accettabile da tutti; certo non riflette le punte più avanzate della prassi medica. Rispetto alle passate edizioni sono stati fatti dei passi in avanti: nel prevedere dei limiti ai trattamenti in base al criterio della proporzionalità, commisurati cioè alla situazione e a ciò che ci si può aspettare come risultato; e nell’affrontare il problema dell’autodeterminazione del paziente".
La Ricerca del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano descrive una situazione deludente, proprio per la scarsa attenzione che riserva all’autonomia del paziente, alle direttive preventive e all’eventuale (quando il paziente non è "capace") coinvolgimento nel processo decisionale dei parenti.
"Sull’autodeterminazione del malato c’è sicuramente un buco formativo-culturale pesante; i medici non sono abituati a pensare che il paziente possiede la titolarità della decisione, sancita peraltro dalla legge. La quale però rimane abbastanza equivoca ed espone il medico a rischio di incriminazione per comportamento omissivo (ecco perché spesso le decisioni di sospensione dei trattamenti intensivi non vengono riportate sulle cartelle cliniche). Molti medici, anche di fronte a testimonianze del tutto esplicite sulla non volontà di trattamento, aspettano che il paziente non sia più in grado di decidere per far valere il principio dello stato di necessità e quindi assumere loro le decisioni, in prima persona. Siamo ancora all’interno di un rapporto paternalistico medico-malato. Un altro esempio riguarda quei pazienti che hanno malattie irreversibili neuromuscolari che vanno verso forme di paralisi totali. Pure se qualcuno di questi dice: io non voglio essere attaccato alla macchina quando arriverò a quel punto lì, nessun medico rispetterà la sua volontà. Anche se lui l’ha detto e l’ha scritto".
Eppure grazie alla legge 145 del 2001 (vedi sopra) ora le direttive anticipate del paziente hanno un fondamento forte.
"E’ una legge ancora troppo recente, fa fatica ad affermarsi sul piano pratico".
La Ricerca di Milano ha anche sollevato scalpore per quel 3,6% di casi in cui si sono somministrati farmaci in dose letale. Ma qualora il dolore, alla fine, non fosse più alleviabile, non sarebbe proprio quella la cosa più opportuna da fare? E non sarebbe un dovere professionale del medico provvedere, anche se il paziente né altri per lui fossero in condizione di avanzare la richiesta?
"Non è una questione semplice. Il dovere del medico è quello di curare; nel caso delle malattie inguaribili vuol dire praticare le cure palliative, alleviare il dolore, curare i sintomi, farsi carico del processo fino alla morte. Di fatto non c’è questa capacità di gestire efficacemente l’accompagnamento verso la morte, ci sono ampi margini di miglioramento. Prima di arrivare a quel punto estremo, ipotizzato nella domanda, ci sono un miliardo di cose da fare. In altre parole non vi si arriverebbe quasi mai se si riuscisse a trattare come si deve il paziente. Rimarrebbero solo casi rari, eccezionali".
E quando comunque si presentassero?
"Se la richiesta provenisse da un paziente capace, credo si dovrebbe prenderla in seria considerazione; se provenisse da terzi avrei grossi problemi. Perché nessuno può essere nella testa del malato; anche la sua percezione del dolore può essere diversa da quella che pensiamo noi…"
Le decisioni cruciali sull’avvio o sospensione di trattamenti non dovrebbero coinvolgere sempre anche gli infermieri e i parenti del malato?
"Questo tipo di decisioni è sempre collegiale. Spesso coinvolgono anche il personale infermieristico, ma in realtà questo dipende dalle situazioni locali, dal tipo di interazione che esiste fra il personale sanitario. Nel modello integrato si lavora sicuramente meglio, perché le infermiere/gli infermieri sono in grado di dare un contributo importante, visto il rapporto umano, fiduciario, fisico, che hanno con il malato. In ragione di ciò, escluderli dalle decisioni è veramente ingiusto e frustrante per loro. Più problematico è il rapporto con i parenti: bisogna informarli, ascoltarli, ma la decisione, se il paziente non è capace, credo sia giusto spetti ai medici curanti. In realtà, poi, i parenti sono i primi, in genere, a delegare al medico. E spesso lo fa anche il paziente. Una funzione importante potrebbero svolgerla invece i Comitati bio-etici, ad esempio per definire, con riferimento ad ogni singolo paziente e tenendo conto delle sue volontà, la pianificazione anticipata delle cure. Ma questi enti o non ci sono o hanno altre funzioni".
Le cure palliative, l’ha ricordato anche lei, potrebbero ridurre al minimo se non eliminare completamente le richieste di eutanasia. Perché allora questa riluttanza da parte dei medici nell’uso degli oppioidi, morfina e derivati?
"L’Italia, effettivamente, è il paese in Europa che usa di meno la morfina, malgrado i provvedimenti presi per la facilitazione della prescrizione. Credo che la causa sia un misto di ignoranza e falsi moralismi. Non c’è nessuna giustificazione scientifica".
In Francia, per fare un esempio, è stata approvata nel 1997 una legge allo scopo di garantire le cure palliative a tutti quelli che ne hanno bisogno. In Italia come siamo messi?
"Si è fatto un tentativo col progetto ministeriale ‘Ospedale senza dolore’, ma è rimasto sulla carta e comunque legato alle iniziative di singole realtà. Dove c’è chi se ne fa carico le cose vanno avanti, altrimenti ristagna tutto. Certo la carenza di investimenti in questo settore non aiuta".
L’assistenza dei malati terminali a domicilio è un’ipotesi realizzabile?
"Si tratta di investirvi risorse, perché credo che ora non ci sia niente in questo senso. Molte cure potrebbero essere effettivamente prestate a domicilio, eliminando per il paziente e i parenti i disagi del ricovero ospedaliero".
Sul rifiuto degli accanimenti terapeutici sembrano
tutti d’accordo, sull’uso di cure palliative intense sorgono le prime obiezioni, quando si parla di eutanasia attiva c’è chi alza barriere o chiama i carabinieri. Non attuare o interrompere i trattamenti di sostegno vitale, oppure tenere il paziente in sedazione profonda sino alla morte senza fornire idratazione e nutrizione artificiali sono pratiche così diverse dalla somministrazione di farmaci in dosi letali?
"La differenza c’è. Un conto è ad esempio decidere di non sottoporre a dialisi un malato perché le sue condizioni ormai lo sconsigliano e lasciarlo morire di azotemia e per il potassio che sale nel sangue. Altro è prendere una siringa e sparargli in vena del potassio. Dal punto di vista del risultato non c’è differenza, perché il paziente muore in entrambi i casi; però nel primo caso ho lasciato che la malattia facesse il suo corso, nel secondo caso ho messo in atto un intervento diretto. La precondizione naturalmente è che non ci sia sofferenza e nel 99% dei casi questo è possibile. Certo, c’è un’agonia che invece di durare mezza giornata dura quattro giorni ed è peggio per il malato, per i parenti... Però mi sembra ancora la situazione più difendibile; purché, ripeto, non ci sia sofferenza. Altrimenti sarebbe barbarie".
Lo scenario per il futuro pensa sia quello dell’Olanda, con la sua normativa di non punibilità dell’eutanasia?
"Non credo. Sarà quello delle cure palliative e l’impegno dev’essere di renderle efficaci in modo da non dover arrivare mai a quei punti estremi".
Teme che l’introduzione di norme permissive in materia di eutanasia potrebbe compromettere o rallentare il progresso della medicina palliativa?
"Di per sé, no, perché non sono in alternativa. C’è però la preoccupazione che un’eccessiva enfasi sull’eutanasia, che considero una fuga in avanti, possa distogliere l’attenzione e magari anche delle risorse, dal problema vero che è lo sviluppo delle cure palliative".