E’ vero che questi giovani non capiscono niente?
Le difficoltà cognitive degli adolescenti sono lo specchio dell’immiserirsi della dialettica sociale, della sostituzione della comunicazione col silenzio dei programmi televisivi. Da L’Altrapagina, mensile di Città di Castello.
Parlare dei giovani è sempre un esercizio rischioso, perché ci si lascia andare spesso a improprie generalizzazioni: "I giovani di oggi non hanno più valori... non hanno più voglia di faticare... sono privi di interessi..."
La verità è che ci riesce difficile accettarne la diversità, il fatto che non li vediamo simili a noi: ma a noi chi? Siamo forse simili tra di noi, noi adulti? Ci comportiamo tutti allo stesso modo, sentiamo tutti allo stesso modo? Anche in questo caso dobbiamo ammettere che generalizzare semplifica la realtà.
Si è parlato per anni della generazione del ’68 come se fosse una entità omogenea, trascurando il fatto che di quella generazione hanno fatto parte una minoranza attiva, combattiva e socialmente impegnata e una maggioranza a sua volta distribuita tra una moltitudine di indifferenti naturalmente portati alla moderazione delle azioni, una parte di curiosi e osservatori attenti di quanto accadeva e una parte infine di oppositori convinti del cambiamento, di reazionari.
Anche oggi dovremmo evitare di parlare dei giovani come di una massa indistinta dalle caratteristiche comuni e degli adulti come di una categoria altrettanto omogenea al proprio interno. Ci sono, è vero, dei tratti distintivi che si esprimono soprattutto e da qualche tempo, sul piano dei linguaggi non verbali e della comunicazione in genere. Il linguaggio pubblicitario, la televisione, le immagini, la musica hanno fortemente modificato sia i processi mentali che le modalità espressive delle ultime generazioni. Questo fatto non è né un male né un bene, è un dato. Un dato che segna in modo irreversibile l’età contemporanea e che ha già prodotto importanti cambiamenti sia nel campo delle arti visuali e della comunicazione telematica che del linguaggio musicale.
Se mai c’è da chiedersi quanto noi adulti siamo in grado di comprendere queste trasformazioni, guidando i ragazzi a un uso più consapevole e responsabile dei nuovi mezzi di comunicazione. Forse è qui la grande differenza del passato più recente con quello remoto: per secoli le trasformazioni sono state piuttosto lente, consentendo alle generazioni adulte di trasmettere alle giovani il patrimonio delle conoscenze possedute quasi inalterato, almeno nelle sue linee essenziali. I modelli sociali avevano una durata temporale assai ampia, tale da essere condivisi per decine e decine di anni e i piccoli cambiamenti riuscivano a essere assorbiti in modo quasi indolore. E tuttavia anche in passato ci sono stati atteggiamenti ed espressioni di rifiuto delle novità, pur così limitate nelle loro immediate conseguenze materiali.
Basti ricordare come lo stesso Platone vedesse con preoccupazione il diffondersi della scrittura perché avrebbe provocato, a suo parere, il declino della tradizione orale, e come, alcuni secoli più tardi, gli amanuensi prospettassero un futuro buio per la cultura del libro, a causa dell’invenzione della stampa.
Oggi la rapidità dei cambiamenti che si avvicendano nel volgere di pochi anni rende tutto ancora più difficile. Ma i primi a non capire molto di quanto ci accade intorno siamo proprio noi adulti, che ondeggiamo tra rifiuto del nuovo e adesione acritica ai suoi aspetti più consumistici: cellulari, auto sempre più sofisticate, cura ossessiva del corpo, accessori di ogni genere. Eppure la cultura di base che sostiene e governa la visione delle cose, è rimasta invariata, è ancora per la grande maggioranza di noi, quella di quaranta/cinquanta anni fa.
Quando veniamo interrogati, l’idea di società, di scuola, di famiglia, di educazione che abbiamo in testa è quasi sempre molto convenzionale e lontana dai nostri stessi comportamenti sia pubblici che privati.
Lo scrittore e insegnante Marco Lodoli ha lanciato qualche tempo fa un grido di allarme: "Gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi più semplici... sono diventati compiti sovrumani di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca aperta, in silenzio". E conclude sconsolato che "le capacità logiche, mentali, paiono irrimediabilmente compromesse". E Galimberti ha rincarato la dose, confermando che non solo sono incapaci di comprendere, ma sono anche incapaci di sentire emotivamente.
E’ molto probabile che ci sia qualcosa di vero in queste affermazioni, è possibile che effettivamente si sia innescato un processo di istupidimento che sta manomettendo la funzionalità sociale delle attività cognitive ed emotive di base, ma anche in questo caso è bene ricordare che non si può assolutamente affermare che questa situazione sia generale, per quanto diffusa; non è comunque ai giovani che va imputato tutto ciò.
Chi infatti sta da tempo costruendo modelli familiari fondati sull’indifferenza, sulla non-comunicazione, sull’individualismo più spinto, che porta ciascuno a coltivare solo i propri affari?
Chi propone comportamenti sociali aggressivi ed egoistici in cui il bene privato (ossia il possesso di beni materiali) viene prima del bene comune?
Chi ha conservato e difeso un sistema scolastico che evita accuratamente di porre ai ragazzi problemi complessi e di sollecitare l’attitudine alla riflessione, esigendo esclusivamente la passiva esecuzione di operazioni meccaniche e ripetitive?
Qualche mese fa - mi raccontava recentemente
un amico che si occupa di consulenza nelle scuole - in un gruppo di studenti del quarto e quinto anno di un liceo milanese, uno di loro, alla fine di faticosi pensieri sulla conoscenza nella scuola, lo guarda con calma e poi gli dice: "Perché mai dobbiamo fare quel che ci dicono i prof. a scuola? Per diventare come loro? Ma li ha visti? Li ha ascoltati? Ma non si rendono conto di essere fuori dal mondo? Per uno che vive, cinquanta sono già morti da tempo... Siamo nelle mani degli sfigati...".
Quanti studenti sottoscriverebbero questa considerazione? Certo la grande maggioranza che vive con rassegnazione e fatalismo una condizione di totale disaffezione verso lo studio, la ricerca, la conoscenza così come le propone la scuola.