Sul tetto con Moni Ovadia
Toccante, ironico, ottimamente interpretato il musical di Moni Ovadia sulla vita (e i pogrom) degli ebrei russi: un grande, meritato successo.
Ce ne fossero di spettacoli così! Un cast capace di ballare, cantare, recitare, musiche struggenti oppure indiavolate, coreografie vivaci e ricche di colore… "Il violinista sul tetto" è tutto questo ed è anche di più. In poco meno di tre ore ha concentrato lo spirito che anima gli ebrei, quell’ironia sottile e amara con la quale attraversano la Storia senza mai cedere, senza mai dire "no!" al disegno divino neppure se tua figlia sposa un ateo russo. Una fede incrollabile che forse, per noi, è difficile capire.
Moni Ovadia è stato un Tevye praticamente perfetto, in bilico fra il vecchio e il nuovo, fra tradizione e progresso. Tormentato, eppure vivo, sempre, grazie alla Torah. Tevye dialoga con Dio, lo prende in giro, lo rimprovera, ma alla fine è lui ad ascoltare veramente, con il cuore, quelle parole che il pubblico può solo immaginare. E’ come quando (perdonate il paragone un po’ profano) assistiamo a una conversazione telefonica. Solo una delle voci giunge fino a noi, l’altra invece la ricostruiamo in base alle domande, alle risposte della prima. E Tevye di domande ne fa molte, ma a rispondergli è il suo credo, i suoi antenati, i suoi principi, il suo Signore.
Questo, in fondo, è uno dei pochi musical che si apprezza anche senza capire una parola durante le canzoni. Tutto è spiegato dai dialoghi e soprattutto dai monologhi; la mimica e la danza fanno il resto, accompagnate dalla musica e dal suono esotico, ineffabile dell’yiddish. Però, a ben pensarci, non è vero che si può capire tutto; o almeno non lo si può sentire. I testi originali, ritradotti con coraggio da Marishe Romano Curaro, hanno un fascino che solo chi li ha letti può intuire. Sono l’anima dello spettacolo e, in questo caso, la parola "anima" la intendo in senso letterale. Come spiega Moni Ovadia, non serve saper suonare il violino per fare il violinista sul tetto. Ciò che conta è altro: essere matti e riuscire a tenersi in equilibrio, a salire sul tetto e restarci. Ma il tetto è anche una metafora dell’esistenza umana, come essere sul filo del rasoio. E invece che tagliarsi, ballare. Se si perde questo, si rischia di perdere tutto o interpretare male, e non si può pretendere che ogni spettatore paghi gli 8 euro della brochure! Il Teatro Sociale avrebbe fatto meglio a utilizzare i sopratitoli, come già era avvenuto al S. Chiara per Nekrosius.
Il successo comunque è stato strepitoso, complici alcune celebri trovate, come la esegesi comunista della Bibbia o le battute: "Quando un ebreo povero mangia un pollo, uno dei due è gravemente malato" e "Ah già… noi siamo il popolo eletto… beh, Signore… ogni tanto, eleggiti qualcun altro!". Nessuno di noi, probabilmente, saprebbe reagire così davanti a un pogrom. Forse per questo siamo diversi, ma non per forza migliori.