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Vamos a la playa!

Musica a scuola: i disastri della italica cultura parruccona. Disastri che la ministra Moratti si appresta ad aggravare.

A Capodanno fai festa, ma è col solstizio d’estate che hai il senso del termine di un ciclo. Vanno in vacanza le rubriche tv, le attività sportive e culturali e non vedi più le frotte di studenti affollare le fermate degli autobus. Così ti viene da tirare un bilancio: la scuola! Era difficile pensare a una riforma scolastica peggiorativa, dato il pessimo stato della pubblica istruzione. Eppure l’attuale governo è riuscito a realizzarla. Tra le altre cose: potevano almeno sforzarsi di rendere più "culturale" l’insegnamento della musica? Invece l’ineffabile ministra allontana l’educazione musicale vieppiù dai percorsi didattici di base per ricorrere al supporto di istituti esterni. In altre parole la musica continua a venir concepita come una pratica aleatoria, una roba che se hai culo ti offre una carriera sfolgorante al pari delle veline di Striscia. La sua storia e i suoi legami nobili con le discipline umanistiche, il mare di cultura che la sottende, continuano a non interessare la scuola italiana, anzi, da oggi contano ancor meno.

La musica è un linguaggio e non un accessorio: non si sa se per il cavernicolo avesse più significato l’emissione di un prototipo di parola, piuttosto che il suono di un bastone su un tronco cavo. Arte e comunicazione, cioè: parola, musica e arte figurativa, hanno accompagnato la nostra storia evolutiva, non tanto contendendosi un primato, ma integrandosi tra loro: in questa integrazione sta la nostra cultura. Nella scuola italiana non c’è traccia di questa cultura: l’educazione musicale è da sempre considerata una cosa a sé: Cenerentola alle elementari (e con la riforma retrocederà nell’area delle attività ricreative e facoltative!); sganciata dal percorso didattico portante e confinata a due orette settimanali alle medie, in cui spesso non si sa bene cosa fare; totalmente ignorata alle superiori. Io sono venuto fuori dal Classico sapendo tante cose su Scoto Eriugena, Paolo Uccello, Giovanni Berchet… Tutta gente rispettabile e non priva di numeri. Però nessuna informazione mi è pervenuta sull’esistenza di Bach, Beethoven, o Stravinski; cioè di geni universali al pari di Shakespeare o Leonardo.

Mi domando le ragioni di questo insulso ostracismo. C’è intanto un motivo colto: dall’Illuminismo in poi i letterati italici si sono rivelati refrattari alla musica: è fin troppo vergognoso il paragone coi tedeschi, ma c’è pure la musicalità dei francesi: da Baudelaire a Verlaine; e degli inglesi: da Keats a Yeats... Anche l’americano Poe ha costruito il suo stile narrativo su suggestioni e reiterazioni ritmiche mutuate dal linguaggio musicale. Logico che gli intellettuali nostrani, più inclini a esaltarsi per Manzoni piuttosto che per Goethe, abbiano pilotato le tendenze didattiche sulla strada opposta a quella che portava verso la casa della musa Euterpe.

C’è poi un motivo incolto: molti nostri musici lavoravano emarginati dalla realtà. Un po’ come dei mastri Geppetto, partorivano le loro creature in bottega. Magari venivano acclamati nei teatri, ma la mentalità era poco aperta alle nuove idee espresse dalle fucine europee. Questa chiusura provinciale si è riverberata nella nostra politica educativa.

Ma c’è una ragione che riguarda tempi più recenti e più specificamente gli insegnanti. Tanti professori formatisi al Conservatorio seguendo la norma artigianale dell’ "imparo solo dal mio maestro e va bene così", non si sono posti il problema di uscire dall’isolamento culturale in cui li ha esiliati la loro scuola fortemente specialistica. Mentre la musica dilagava verso le sonorità del Jazz e del Rock, i prof-pulcini, anziché andare a curiosare nell’aia in ristrutturazione, han preferito restare sotto l’ala della chioccia-scuola, magari da inetti, ma con stipendio garantito. Questo "non aggiornarsi" ha tolto autorevolezza al musicista colto nel nostro paese, accentuando la divaricazione tra musica classica e musica tout court.

"Occorrono insegnanti che sappiano trasmettere la peculiarità del linguaggio musicale senza essere dei parrucconi!" Così la pensavo vent’anni fa, convinto che l’insegnante di musica avesse il dovere di conoscere svariati linguaggi musicali, inclusi quelli amati dagli studenti. Forte di questo principio mi presentai alla prova orale di abilitazione all’insegnamento musicale nelle medie. Quando la commissione mi chiese come avrei svolto la prima lezione di ascolto in classe, risposi che non avrei proposto le solite Quattro stagioni di Vivaldi, ma piuttosto Vamos a la playa dei Rigueira. Che c’è di male? Spiegai: era un motivetto noto a tutti e la sua struttura non differiva dal lied in 5 parti che usava Mozart. Così, partendo dai successi pop,mi sarei accattivato la classe e sarei riuscito a far apprezzare i brani classici più impegnativi. Siccome fino a quel momento ero risultato il migliore della mia sessione, nelle prove scritte e pratiche, ai barbagianni della commissione si presentò un problema: come bocciarmi? Lo risolsero affibbiandomi uno 0 (zero), per far media col punteggio già maturato, così erano a posto anche con l’aritmetica. Risultai l’unico a non conseguire l’abilitazione. Era un giorno afoso d’estate quando uscii dall’austero portone dell’ex seminario, segato da un verdetto inesorabilmente troppo saggio o troppo idiota. Schiacciato sulla polvere della strada dall’alta pressione, ebbi il sentore di una voce interiore: "Cambia lavoro!". E così fu, ma questa è un’altra storia.

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