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QT n. 3, 7 febbraio 2004 Servizi

E se provassimo con le primarie?

Marco Brunazzo

Non v’è dubbio che nell’opinione pubblica italiana si vada diffondendo una domanda che, mi sembra, possa riassumere il senso di questo dibattito. E cioè: nei primi anni ‘90 ci era stato detto che la legge elettorale maggioritaria avrebbe favorito lo scontro politico tra programmi diversi proposti da due coalizione coese, e che l’elettore avrebbe potuto giudicare alla fine del mandato attraverso le elezioni. Ora, cosa ne è stato di tutto questo? La aspettative non sono state rispettate, e si va diffondendo l’idea che la stessa azione di governo sia finalizzata più alla difesa degli interessi particolari che a quella degli interessi collettivi.

A mio avviso, questo senso di sfiducia verso la politica è giustificato fino ad un certo punto. E’ indubbio che il bipolarismo italiano sia ancora piuttosto fragile. Un po’ per motivi istituzionali (legati, per esempio, ad un’insoddisfacente legge elettorale che non incentiva la nascita di coalizioni compatte), un po’ per motivi storici (non è facile introdurre elementi e pratiche di competizione bipolare in un paese caratterizzato fin dal secondo dopoguerra dal consociativismo).

Mi sembra, però, che il senso di sfiducia verso la politica e le istituzioni sia meno giustificato guardando al fatto che il bipolarismo ha comunque favorito la semplificazione dello scontro elettorale e ha prodotto governi che in un qualche modo sono comunque tenuti ad essere responsabili delle loro azioni davanti agli elettori. Vi sono pochi dubbi, per esempio, sul fatto che Berlusconi abbia vinto le elezioni del 2001 anche sulla base di un’idea di modernizzazione del paese. Così come aveva fatto Prodi nel 1996.

Certamente, però, il rapporto tra classe politica e opinione pubblica non si può esaurire nella scelta di una legge elettorale nuova. Quello che oggi dobbiamo superare è il fatto che la cosiddetta rivoluzione italiana degli anni ‘90 partiva da un rapporto tra dirigenti politici e opinione pubblica compromesso, in cui le élite politiche si erano trasformate in oligarchie, ovvero in gruppi chiusi, privi di ricambio e non più in grado di comunicare.

E allora, come se ne esce? Dal punto di vista del politologo, mi sembra che vi siano due strade da percorrere: la prima è quella del compimento delle riforme istituzionali. La seconda è quella di trovare nuovi strumenti per ridisegnare il rapporto tra classe politica e opinione pubblica. Che favoriscano, cioè, lo sviluppo di élite politiche "aperte", le uniche in grado di definirsi legittimamente ruling class. In questo senso, il ripensamento del rapporto dei partiti con il territorio mi sembra centrale. Come sostenuto da diversi studiosi, tra i diversi strumenti, un ruolo di primo piano potrebbe essere quello delle elezioni primarie. Occorre però che anche la società civile si organizzi, senza cedere al radicalismo o al populismo, o, più in generale, a quel senso di antipolitica che si va sempre più diffondendo.