Guerra e informazione: dove è finito il giornalista?
Dalla guerra del Golfo in poi, l’informazione sulle guerre in corso ci è data quasi soltanto da chi fa la guerra. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.
L’ultima guerra che ha goduto - per esprimerci così - di una vasta copertura informativa, è stata quella del Vietnam. Anch’essa, per la verità, fu scatenata sulla base di una manipolazione dell’informazione, anzi di una falsa informazione. Fu diffusa infatti la falsa notizia di un attacco di motovedette nordvietnamite contro la flotta americana nel golfo del Tonchino. Come nel 1971 fu poi rivelato da documenti segreti del Pentagono, questo attacco in realtà non c’era mai stato. Tuttavia la guerra del Vietnam fu oggetto di una larga informazione soprattutto ad opera dei corrispondenti di guerra e delle televisioni americane, ma anche inglesi ed europee. E quella informazione fu uno dei fattori determinanti dell’esito, infausto per gli Stati Uniti, di quella guerra.
Fu infatti grazie alla copertura informativa che quella guerra invase l’opinione pubblica mondiale, mostrò la sua natura di conflitto neo-coloniale e svelò la spietatezza dei metodi di guerra americani: i bombardamenti massicci di Hanoi e di Haiphong, la procedura di non fare prigionieri, l’uso del napalm e la desertificazione della giungla, l’attacco ai villaggi nelle operazioni di "ricerca e distruzione", fino all’episodio, diventato emblematico, della strage di My Lai del 16 marzo 1968.
Queste notizie e queste immagini televisive, che facevano il giro del mondo, alimentarono la protesta contro la guerra del Vietnam non solo nei campus delle Università americane, ma anche nelle piazze e nei movimenti di contestazione di tutto il mondo. I nordvietnamiti, che sapevano di non poter vincere militarmente la grande potenza americana, sapevano che dovevano cercare la vittoria nella politica; e abilmente seppero sfruttare la protesta dell’opinione pubblica occidentale, accreditando la loro lotta come una lotta di liberazione nazionale, e non come una lotta ideologica del comunismo contro l’Occidente (come diceva la propaganda americana), e nemmeno come una lotta contro il popolo americano (secondo l’errore che sarà fatto poi dagli attentatori delle Due Torri), bensì solo contro il suo governo, da cui denunciavano di essere aggrediti. E fu così che gli Stati Uniti, dopo una inutile escalation militare, che li portò a dislocare più di 600.000 uomini in Vietnam, furono costretti a negoziare e a ritirarsi, e persero la guerra; la persero in casa, perché la guerra si rivelò intollerabile per l’opinione pubblica interna e incompatibile con la democrazia americana.
La conseguenza fu di decidere che non ci sarebbe stata mai più una guerra come quella del Vietnam. La prima decisione fu l’abrogazione della coscrizione obbligatoria e il passaggio all’esercito professionale, in modo tale che mai più ci sarebbe stato lo spettacolo delle cartoline-precetto bruciate dai coscritti nei campus, e mai più ci sarebbe stato quel contagio di umori pacifisti dalla società civile alle Forze Armate, reso possibile dalla presenza diretta della società civile nelle Forze Armate attraverso i soldati di leva. È’ la stessa scelta che ora è stata fatta in Italia per eliminare il problema dell’obiezione di coscienza. La seconda decisione fu che l’informazione sulla guerra non sarebbe stata più lasciata all’iniziativa dei media, ma sarebbe stata gestita direttamente dal Pentagono.
Questa ricetta fu applicata nel 1991 nella guerra del Golfo. A parte la Cnn, che trasmetteva dalle terrazze di Bagdad le immagini del cielo strusciato dalle scie luminose della contraerea e dei missili, la guerra fu raccontata dal Pentagono come un videogame, attraverso gli schermi dei computer di bordo degli aerei americani, che mostravano l’aggancio e la distruzione di obiettivi lontani e anonimi, dietro i quali non si indovinava la vita che veniva spenta. Ci furono anche autentiche falsificazioni, come la famosa scena del cormorano coperto di petrolio; ma nulla si vide della mattanza finale che si abbattè sulle colonne di militari e civili iracheni in fuga dal Kuwait, una mattanza che un pilota americano descrisse come quella di chi schiaccia col piede una fila di scarafaggi sorpresi sul pavimento della cucina. Né mai si è saputo quante sono state le vittime di quella guerra, dato che non è stato interesse né degli iracheni né degli americani di rivelarlo.
Nel successivo conflitto dei Balcani la falsificazione delle informazioni ha avuto una parte preponderante nella legittimazione della guerra presso l’opinione pubblica occidentale.
Agli inizi di agosto 1998 i giornali occidentali riferiscono dell’esistenza di fosse comuni con- 500 cadaveri di albanesi ,tra cui 430 bambini nei pressi di Orahovac, dove si era duramente combattuto.
Ma una missione di osservatori dell’Unione Europea accerta che si tratta di un falso. Ma ciò che fa scattare l’attacco della Nato (l’equivalente dell’incidente del golfo del Tonchino) è il massacro di Ragak, dove vengono trovati i corpi di 45 vittime albanesi con mutilazioni e teste mozzate. Nulla si sa delle modalità dell’eccidio, scoperto dopo che l’Uck aveva preso il controllo della località, con la conseguente possibilità di manomettere i reperti. Ma il giorno dopo la procuratrice della Corte Internazionale dell’Aja per i crimini di guerra, la canadese Ann Harbor, si presenta al confine iugoslavo in compagnia di una famosa giornalista della Cnn, Christine Amanpour, per denunciare il crimine serbo. Crimini in Kosovo ce ne sono certamente stati, da una parte e dell’altra, ma certo è che questo di Racak è stato usato per costruire l’ultimatum di Rambouillet, fatto in modo che dovesse essere respinto dai serbi (come spiegò il ministro Dini), e poi per cominciare la guerra. Intanto una compagnia di pubbliche relazioni inglese, la Ruder & Finn, sotto contratto per 17 milioni di dollari l’anno per conto dei croati, dei musulmani di Bosnia e degli albanesi del Kosovo inventa e riesce a vendere all’opinione pubblica occidentale l’equazione che identifica serbi e nazisti. "Noi siamo dei professionisti - dichiara il suo direttore in un’intervista pubblicata in un libro francese - Abbiamo un lavoro da fare e lo facciamo. Non siamo pagati per fare la morale". Dunque le notizie non sono più raccolte e trasmesse da giornalisti, che peraltro non sono in grado di controllarle, sono create da professionisti di pubbliche relazioni. È’ chiaro che non c’è un diritto che possa dettare norme e reprimere questa manipolazione della fede pubblica; il problema è evidentemente politico, etico e di costume. "È’ la propaganda di guerra, cosa c’è da stupirsi?" - ci dicono. Ma un problema di diritto c’è, quando si ammazzano i giornalisti.
Quando la guerra contro la Serbia comincia, le notizie sono date da Bruxelles, nei briefings quotidiani del portavoce della Nato Jamie Shea. Non c’è più diversità di soggetti: chi fa la guerra la racconta, e racconta solo quello che vuole e come vuole. Ma c’è una falla nel sistema: la televisione di Belgrado trasmette altre e diverse notizie sulla guerra; e dalla Torre della Tv di Belgrado trasmettono anche molte televisioni europee, compresa quella italiana, col nostro Remondino. La decisione della Nato è di abbattere quella torre, previo avviso ai giornalisti occidentali. Così una sera due aerei a volo verticale si presentano davanti alla torre della televisione iugoslava; si fermano tra la chiesa ortodossa antistante e l’edificio della Tv, e lanciano due missili che cancellano la facciata e sventrano dal-l’interno tutta la torre, che peraltro rimane in piedi.
Nell’attacco alla sede della Tv ci sono state sedici vittime; il direttore della televisione, che ho incontrato un anno dopo a Belgrado, mi ha detto di aver lui stesso proceduto al loro riconoscimento: per quattordici di loro è stata un’impresa difficilissima, ma degli altri due non si è trovato nulla: si erano come svaporati
Ora, dal punto di vista del diritto, il bombardamento della Tv iugoslava è stato un crimine, ai sensi dell’articolo 79 del primo Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra dell’8 giugno 1977, che recita testualmente: "I giornalisti che svolgono missioni professionali pericolose nelle zone di conflitto armato saranno considerati come persone civili ai sensi dell’articolo 50, §1", cioè come persone che non possono essere oggetto di attacchi armati. Quindi, c’è specificamente la proibizione di ammazzare i giornalisti durante una guerra: è una prescrizione ovvia, ma è stata messa per iscritto forse perché si sapeva che è forte la tentazione di uccidere i giornalisti.
Questi infatti non sono stati uccisi per errore, la loro morte non è stata un effetto collaterale. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera in occasione del primo anniversario dell’inizio della guerra, Jamie Shea, il portavoce della Nato, ha spiegato che quei giornalisti erano stati uccisi perché se lo meritavano, perché la Tv serba diceva cose che sapevano di propaganda, cioè cose che al portavoce della Nato e soprattutto ai suoi superiori non piacevano. Per questa ragione quel palazzo era stato colpito benché fosse un obiettivo civile, benché ci fosse una norma del Protocollo di Ginevra che lo vieta. Ed è importante rilevare che proprio quel Prototocollo è stato violato, perché esso fa parte di un complesso organico di testi che comprende le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, che a loro volta riprendono le prime quattro Convenzioni sul diritto di guerra dell’Aja del 1907, più i due Protocolli aggiuntivi del 1977: un complesso di testi che rappresenta il cosiddetto diritto umanitario di guerra, che è un diritto che è stato scritto dalla parte delle vittime, che non ha altro scopo che quello di difendere le vittime.