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A proposito di “morte della patria”

Jellici Giorgio

Sarò un ingenuo e mi si accuserà forse di essere anch’io "vicino alla propaganda della Repubblica di Salò" (ormai è d’uso spararle grosse), ma non riesco ad indignarmi per la frase di Galli della Loggia che "l’Italia come Patria è morta l’8 settembre 1943" (la frase va naturalmente letta nel suo contesto). Tanto meno mi pare onesto dire a Galli della Loggi, con un’illazione forzosa - come si legge nell’articolo "La linea del Piave" di Giorgio Tosi, su QT del 28 ottobre - che per lui la guerra "doveva essere vinta dai fascisti e dai nazisti". Questa, direi, è polemica che non ci porta in nessun luogo e non fa onore neanche ai militanti di sinistra.

Ma come, non è forse vero che l’8 settembre, proprio per chi amava l’Italia fuori dalla versione fascista, fu l’ultimo atto di una tragedia, lo sfacelo della Patria in cui molti, pur nel dilemma etico-politico, avevano sperato di poter credere? Sarà stata una Patria in cattiva compagnia, schierata sul fronte sbagliato, ma per i cittadini e i soldati era la sola Patria e la videro acefala, in balia del "rebaltòn" come l’esercito dei Persiani dopo Salamina.

E perché allora non lo si può dire senza essere sospettati di simpatie nazifasciste ed accusati di travisare "il significato autentico dell’8 settembre"? Chi è il custode dell’autenticità dell’esegesi?

Non sarebbe meglio finirla con tutte queste dispute a suon di etichette del tipo "la funzione patriottica e liberatrice della Resistenza", o di verità storicamente discutibili come "la dignità intellettuale del marxismo"? Tanto, a guardarsi in giro in Italia, dentro e fuori dal Parlamento, c’è ben poco da inorgoglirsi dei progressi fatti.

In nessun Paese europeo si discute con questo linguaggio partigiano che insiste sulla "linea di demarcazione: di qua il giusto, di là il torto; da una parte giustizia e libertà - sì, buona notte! – dall’altra la nefanda dittatura, ecc. ecc." Sarà forse anche per questo che gli altri Paesi conoscono la propria storia meglio di noi italiani e che la nostra Patria appare solo come la Patria degli uni, o degli altri; mai come quella di tutti, come in altri Paesi europei.

E causa di ciò, secondo me, è anche il linguaggio denigrante e l’animo di parte che pervade le eterne dispute sul passato, le quali, condotte così, invece di avvicinare, continuano a dividere: non ci si esprime attraverso argomenti, si rifiuta ogni forma di dialogo e si demonizza il dissenziente. Ne è un esempio anche l’articolo succitato.

Per non cadere in altre "prediche inutili" riporto qui alcuni passaggi riguardanti l’8 settembre, tratti da "3653 giorni" (Ed. Temi, pag. 140 e 147), il bellissimo libro autobiografico di Bruno Betta, che spero insospettato: "...il 3 settembre a Cassibile, presso Siracusa, l’armistizio veniva firmato a durare dall’8 settembre, mentre gli Alleati avanzavano in quei giorni in Calabria e Puglia e sbarcavano a Salerno senza incontrare, naturalmente, grande resistenza. A questo punto il Re, la Corte... e Badoglio, il prode Roatta ed altri fuggirono a Pescara e a Brindisi. Dal Comando supremo a Roma non vengono più direttive. E’ iniziata una tragedia incredibile, sconvolgente. Per ciascun reparto, per ogni soldato, dovunque, il crollo totale... L’Esercito era stato lasciato senza direttive. Non si poteva credere! Non si sapeva allora che il Comando supremo non c’era più... Intanto le ore passavano nella più sconvolgente incertezza."

Se questa, vista da oggi, non fu la morte della Patria, ne fu senza dubbio, per chi lo visse allora, il crollo totale.