La linea del Piave
Il revisionismo storico è un metodo indispensabile per la ricerca della verità: ogni evento infatti va studiato e analizzato più volte e in tempi diversi, soprattutto quando il punto di osservazione cambia e consente di ricostruire in modo nuovo la serie e l’intreccio degli eventi.
Il revisionismo politico invece non ha nulla di scientifico, ma è un’arma per sollevare "polveroni" e per colpire bersagli indipendentemente dalla verità o dalla falsità di ciò che si afferma. Il primo è da lodare, il secondo da condannare e respingere. Claudio Pavone ha dato un esempio del primo col suo noto libro "Una guerra civile", dove senza negare o stravolgere la funzione liberatrice della Resistenza ha aperto una nuova feconda interpretazione dei fatti.
Del secondo, esemplare non secondario è Ernesto Galli della Loggia, secondo cui l’Italia come Patria è morta l’8 settembre 1943: dal che si deduce che per la vita e la continuità della Patria la guerra doveva essere vinta dai fascisti e dai nazisti. Questo è revisionismo politico della peggiore specie che, rovesciando il significato autentico dell’8 settembre, nega che in quel periodo sia nata una nuova Patria legata da un lato al Risorgimento e dall’altro al futuro, e nega quindi la funzione liberatrice e patriottica della Resistenza.
Per concludere sul punto, il revisionismo da respingere è quello che presenta l’utilizzazione immediatamente politica della storia come metodo scientifico, esaltando le proprie interpretazioni come le uniche libere e innovative, e spingendo le altre nell’ombra della cosiddetta ortodossia.
Per esempio un conto è studiare con serietà la Repubblica Sociale Italiana in tutti i suoi aspetti anche ideali (il che è storicamente necessario); altra cosa invece è equipararla alla Resistenza, come suo momento antagonistico, mettendola sullo stesso piano senza dire quale è stata la linea di demarcazione: di qua il giusto, di là il torto; da una parte giustizia e libertà, dall’altra la nefanda dittatura e l’orrore dei campi di sterminio, giungendo a recuperare gli ideali dei "ragazzi di Salò".
Un altro esempio di revisionismo perverso è di affermare l’esistenza di una "egemonia culturale marxista" durante il quarantennio democristiano, con la conseguenza pratica, cioè politica, che se si domanda a un studente di liceo chi ha governato l’Italia dal 1945 al 1989 la risposta il più delle volte è: i comunisti! La risposta diventa col tempo senso comune, da cui trae origine e alimento la battaglia anticomunista di Berlusconi, che entusiasma le folle come un torero nell’arena agitando la "muleta" rossa.
Il revisionismo politico ha una storia lunga, fatta di nuovi inizi e di improvvise svolte, ma coerente, come il percorso di una talpa che, anche se cieca, punta all’obbiettivo con infallibile istinto. Ha cominciato in anni lontani con l’attacco alla Resistenza, condotto all’arma corta, riesumando il "triangolo della morte" e la "volante rossa", cercando di far rivivere l’equazione fascista: partigiani = banditi. La reazione, allora pronta e sdegnata degli antifascisti anche cattolici e liberali, ha fatto spostare il tiro al punto di cerniera, che forse è parso l’anello più debole, quando il vecchio fascismo muore definitivamente e la Resistenza ha inizio: l’8 settembre 43, il giorno della morte della Patria secondo il revisionismo oggettivamente più vicino alla propaganda della repubblichina di Salò.
A questa tesi sfacciata ne è seguita un’altra: se la Patria è morta l’8 settembre, allora l’Italia manca di una vera unità e identità (quella risorgimentale e quella della Resistenza) e ciò che tiene insieme le sparse membra del paese non è la rivoluzione venuta due secoli fa dalla Francia; non è lo spirito di Garibaldi, di Mazzini, di Cavour, di Croce, di Gramsci o della ribellione partigiana, ma l’antico cattolicesimo in veste neoguelfa.
I primi passi in questa direzione, qualche anno fa, furono brevi e timidi: si era capito subito che prima bisognava attaccare e indebolire la Costituzione repubblicana. In un paese profondamente cambiato nelle strutture socio-economiche e in quelle politiche, con la scomparsa dei due maggiori partiti (la DC e il PCI), la Costituzione si presentava come un terreno ideale per uno sfondamento. Alcune sue parti apparivano infatti superate: incominciando da queste si poteva arrivare al cuore della Costituzione e svellerla dalle coscienze.
Nonostante la potenza di fuoco, lo sfracello della Bicamerale, la canonizzazione di Berlusconi come padre costituente, per fortuna la Costituzione ha resistito sul piano giuridico: è infatti ancora in vigore, nella prima e nella seconda parte; ma è moribonda nel senso comune, avendo perso ogni sacralità nel momento stesso in cui si è detto e ripetuto che era vecchia e bisognava cambiarla. Nel comune sentire la Costituzione vale oggi meno dell’ultima leggina in materia di tariffe telefoniche o petrolifere. Su questo terreno il revisionismo politico ha travolto ogni difesa: dove sorgeva la "polis", orgogliosa delle sue origini, ora c’è il deserto di una individualizzazione esasperata che conosce il suo ‘particulare’, ostile a ogni regola e indifferente a ogni valutazione etica o semplicemente democratica. Alla luce di queste considerazioni si spiega che, nella indifferenza della intellettualità laica, la Chiesa abbia beatificato Pio IX, il Papa del Sillabo, "spostando indietro di un secolo e mezzo le lancette dell’orologio" - come ha detto efficacemente Claudio Pavone.
Non credo sia esagerato affermare che nell’immaginario collettivo i simboli dell’Italia vadano cambiando: al posto de "Il partigiano Johnny" o de "L’Agnese va a morire" si vanno sostituendo i buoni briganti borbonici che onoravano i santi e la Madonna, e il paterno Stato della Chiesa.
Non solo gli intellettuali laici hanno taciuto, salvo poche eccezioni, ma quelli di sinistra sono caduti in una vera e propria letargia tanto che - ha dichiarato Pavone - a un certo punto è parso che a difendere la dignità intellettuale del marxismo contro l’arroganza del neoguelfismo fosse rimasto soltanto un intellettuale del Polo, il filosofo Lucio Colletti: il che è tutto dire.
A questo punto non è ancora possibile dire se il revisionismo politico ha già vinto la battaglia per l’egemonia culturale, ma certo siamo alla linea del Piave.