La luna del Chiapas
A colloquio con Francisco.
Maya: anche l’etimo lo dice, il popolo del mais. Nell’antico libro sacro dei Maya, si dice che i predecessori dell’uomo fossero esseri fatti dapprima di fango e poi di legno. Però, dal momento che questi esseri non avevano né mente né anima, furono annientati; al loro posto, nacquero "hombres y mujeres hechos de maìz", uomini e donne fatti di mais. Il mais è l’elemento primordiale, è la vita, e tutt’oggi è il primo alimento nella dieta degli indigeni del Messico meridionale, bistrattati discendenti degli antichi Maya, gli echi della cui civiltà si trovano nei numerosi ceppi linguistici sopravvissuti: Ch’ol, Tseltal, Tojolabal, Tsotsil...
E'sera. Stranamente, il cielo sereno lascia intravedere gli ultimi sprazzi di rosso là, ad ovest, dove l’astro diurno trova il suo riposo, ma ugualmente una pioggerellina sottilissima e delicata come nebbia appiccica i vestiti sudati alla pelle e lascia tra i capelli una coltre lucente come rugiada. Alla mia sinistra, sul sentiero fangoso, appare a passi lenti il vecchio Francisco, sereno e sorridente nonostante i suoi occhi sempre assorti al punto da sembrare malinconici. Un attimo ancora ed è già al mio fianco, mi stringe la mano e mi saluta nella sua lingua antica, parole che fino a poco tempo fa mi erano sconosciute.
Insieme godiamo per qualche istante il silenzio imperturbabile che indica, come un orologio inarrestabile, la fine di un’altra giornata. Lui guarda la luna, pensieroso, mentre il sigaro stretto nel suo pugno e dimenticato brucia lentamente. Scruta curioso la palla giallo pallido che diviene sempre più visibile sopra di noi mano a mano che il sole dà gli ultimi guizzi di brace. E’ curioso, il vecchio, lo capisco dalla mano con cui si sta arricciando i baffi.
"In Italia - esce ad un tratto - si vede la luna come qui?"
"Certo - gli rispondo - però in questo momento sta per giungere l’alba."
Non capisco ancora cosa lo turbi. Lungo tutti i sessant’anni di vita che si porta sulle spalle, la luna ha continuato a fare il suo corso, ma lui sembra non essersi abituato.
"Sai - gli faccio - ci sono degli uomini che sono arrivati fino lassù."
Non sembra gli interessi; però, dopo un lungo istante, mi rendo chiaramente conto che lo ho colpito. Aspetto.
"Sono arrivati lassù." - lo mormora tra sé e sé, come per trovare una conferma nel suo cuore. Poi, di botto: "Quanto ci si impiega con l’aereo ad arrivarci?"
Sorrido dentro di me, non voglio umiliarlo. Gli spiego che ci vuole un aereo speciale, molto veloce, e che il viaggio è lunghissimo; lui allunga una mano in alto, al cielo, come per dimostrarmi che, in realtà, mi sto sbagliando, perché dopotutto non sembra così lontana.
Con il sigaro puntato alla luna mi chiede ancora: "E cosa c’è lassù?".
"Beh - sono un po’ imbarazzato - c’è... c’è... non c’è aria, tanto per cominciare, quindi non si può respirare. Poi, bisogna tenere addosso un vestito particolare. E poi fa freddo, molto freddo, anche se il sole è pericoloso perché brucia la pelle."
"Cosa hanno coltivato gli uomini che sono arrivati là?". Devo ancora una volta deglutire ingoiando un sorriso.
"Nulla. Non c’è acqua e nemmeno terra buona."
"Chi può vivere in un posto del genere?"
"Nessuno" - gli rivelo.
"Quindi non ci sono campi di mais, vero?"
"No" - gli confermo.
Il sigaro nella sua mano rude e grinzosa rimane sospeso in aria come un prolungamento normale delle dita. Sembra che lo usi come un cannocchiale, per trovare conferma alle mie parole constatando di persona che là, in quelle pietraie asciutte, in quei monti ruvidi, screziati e morti, in quei mari senz’acqua non c’è niente.
Poi, senza fretta, abbassa il suo cannocchiale fumante, mi guarda e strizza gli occhi.
"Che diavolo ci sono andati a fare gli uomini in un postaccio del genere?".
Rimango con la lingua incollata ai denti cercando disperatamente di trovare anche una sola parola da spiaccicargli addosso.
Ora è lui che cerca di nascondere un sorriso che gli nasce dentro, perché si rende conto che mi ha annientato. Lo vedo dagli occhi luccicanti, dal pomo d’Adamo che saltella su e giù in gola.
Volevo dirgli che lassù hanno piantato una bandiera, un simbolo della potenza degli uomini, una mèta simbolica nel percorso infinito della soddisfazione della curiosità scientifica...,volevo dirgli che ora stanno pensando ad altri viaggi su altri pianeti, che lo spazio è pieno di satelliti...
Non gli ho detto nulla. Non era più curioso. Ad un uomo che cerca cibo per vivere non interessa una bandiera piantata per orgoglio in una terra inospitale. Ad un uomo che desidera per i suoi figli una vita degna, in cui possano trovare la libertà di guidare quella frazione del destino individuale che il caso imperscrutabile ha dimenticato in disparte, non riguardano i risultati effimeri della presunzione.
Mi ha disarmato, quest’uomo che a malapena sa scrivere il suo nome, che non ha mai studiato astronomia, scienze, letteratura e che mi ha insegnato che è inutile guardare troppo avanti se non si riesce a guardare il sentiero su cui appoggiamo i nostri passi. Mi ha detto, con le parole più semplici del mondo, che in questo momento lui si trova qui, al mio fianco; mi ha detto che questo è sicuro, il resto non conta nulla. Non un’ombra di malizia nelle sue parole, solo la soddisfazione, tutta personale, di aver affermato che anche lui conta qualcosa, che non è da meno di nessuno.
"Hasta mañana, gringo" - mi ha gridato quando già avevo perso di vista la sua ombra sul sentiero di ritorno.
Sono rimasto così, sospeso nel vuoto della notte, ancora per un lungo momento, torturato nelle narici dall’odore pungente del suo sigaro-cannocchiale mentre la luna, bellissima e splendente nella sua inutilità, mi faceva sberleffi cui non sapevo, né potevo, rispondere.