Il Paradiso di Caracas
“El Paraiso”, una delle carceri della capitale venezuelana: la “migliore” - o la meno peggio, che dir si voglia.
Con questo articolo Aram Cunego, già nostro corrispondente dal Chiapas dove operava come volontario, prosegue la sua rubrica con una serie di corrispondenze da altri paesi dell'America latina.
Alejandro, quarantenne colombiano, accusato per commercio di 300 kg. di coca, è rinchiuso da due anni in attesa della sentenza nel padiglione 8, quello dove si può passare il tempo interminabile con piccole attività di artigianato come decorare vasi rudimentali. Tutti sanno della sua innocenza, il processo è stato manomesso ed il giudice pagato per coprire altra gente; la cattiva fama dei colombiani ha fatto il resto. In Venezuela funziona così: se qualcuno viene accusato, viene prontamente catturato e rinchiuso in attesa del giudizio e della sentenza. Che di solito non tarda più di due o tre anni, ma può anche dilazionarsi per più tempo.
Juanito, di Caracas, ha 18 anni, è un ragazzo magro, pelle molto scura, capelli ricci e corti alla africana, gli mancano due incisivi davanti. Ci abbraccia come vecchi amici. Poi comincia a parlare a bassa voce, mentre tutti gli altri detenuti, dai ragazzi agli omaccioni neri di due metri e il viso cattivo come in certi film, passeggiano attorno, chi fumando marijuana, chi accarezzando la lunga lama del coltello sempre a portata di mano: allungano le orecchie, non si fidano, temono i "sapos" (letteralmente "rospi": nello slang sudamericano sono gli spioni, le cimici umane). Parla concitato, Juanito, l’accento stretto e farfugliato della Caracas delle periferie mi costringe a tendere l’orecchio all’inverosimile: "Tengo en cima muchos muertos" - dice prontamente. Ho sulla coscienza molti morti. Lo dice spaventato, ma non è il rimorso che lo turba - stato d’animo sconosciuto in questo angolo di mondo. Il fatto è che girano voci che lui verrà trasferito in un altro carcere, dove a causa delle sue esecuzioni si è procurato molti nemici. Ha una mano sempre appoggiata nervosamente alla coscia, da sotto i pantaloni sudici emerge malcelata la forma di un pugnale di quindici centimetri. "Por supuesto me van a rematar" (di sicuro mi ammazzeranno appena metterò piede nell’altra prigione). I detenuti si fanno giustizia da soli nel loro piccolo spazio vitale.
Ci si avvicina Erik, magrissimo, in viso i segni della malattia letale, occhi azzurro pallido, cammina ingobbito, capelli radi. Sudafricano, sulla trentina passata, dentro per spaccio di droga, malato di AIDS, è sorridente e malinconico, la vita gli passa addosso ma oramai non gli può più fare nulla. Chiede di metterlo in contatto con un avvocato che sappia almeno un po’ di inglese, parla spagnolo con difficoltà, per un po’ gli faccio da interprete. Spera ancora, dopo più di due anni, di tornare nel suo paese, nelle carceri sudafricane, diritto che gli spetta grazie alla sua malattia. Gli unici amici che qui lo vengono a trovare una o due volte in settimana per qualche ora siamo noi. Dall’ambasciata sembra arrivino buone notizie, forse le sue speranze non si sono perse nel mare della corruzione istituzionale venezuelana.
Idetenuti girano liberi nel padiglione, non ci sono celle. Si dorme tutti insieme, o meglio, chi può si paga due metri quadrati di pavimento, gli altri si arrangiano.
Molte ragazze e prostitute vengono a trovare i detenuti. Sono profumate e fresche, pettinate alla perfezione e con i vestiti attillati, portano dentro il mondo di fuori. Si scambiano un’ora di effusioni, baci rubati, desiderio mal appagato. Copulano frettolosi dietro lenzuola appese alle pareti: è già ora di andare? Fanculo, poliziotti schifosi...
Tutti concordano: chi entra nell’Istituto di rieducazione Il Paradiso" (era proprio necessaria quest’ironia?) esce abbrutito: se prima sei solo sospettato di aver rubato un’auto, lì dentro impari a uccidere, a spacciare, a rubare anche al fratello di prigionia. Poi magari, a processo finito, risulti innocente e vieni risbattuto in strada. Ci si chiederà poi a cosa sia dovuta l’alta percentuale di delinquenza, e i governi saranno inondati di soldi per combattere questa terribile piaga che dilaga (non si discosta molto da questa prospettiva il recente progetto conosciuto come "Plan Colombia" attraverso il quale gli Stati Uniti forniscono aiuti economici e militari al governo colombiano con il pretesto della lotta al narcotraffico).
Forse dovrò rivedere il significato di "rieducazione" applicandolo alle maschere che camminano nei corridoi scuri e maleodoranti di escrementi e tabacco di pessima qualità, tra la musica popolare o underground assordante e le grida dei detenuti.
E’ labile il confine tra il delinquente e la persona "normale", specie se di mezzo ci sono fame, miseria e povertà; e ancor più di fronte ad un sistema perfettamente efficiente nella repressione quanto carente e corrotto nella salvaguardia dei diritti fondamentali. I poliziotti della Guardia Nacional con gli anfibi lucidi, le dita che accarezzano il grilletto dei fucili a pompa e il cinturone imbottito di cartucce che ammazzerebbero un elefante non bastano a garantire nemmeno la sicurezza dei detenuti: preferiscono farsi i fatti propri senza immischiarsi e intascare di tanto in tanto cospicue mazzette per fornire una pistola o un telefono cellulare. Ma l’ambulatorio è una stanzetta di neanche venti metri quadrati per più di mille detenuti, farmaci non ce ne sono (gli infermieri hanno accettato di buon grado quelli scaduti che siamo riusciti a recuperare all’ospedale), e il cibo scarseggia pesantemente.
Poco più di un mese fa sul quotidiano di Caracas La Voz campeggiava la notizia di un massacro fra i detenuti, ennesimo episodio ripreso dalla fredda voce della cronaca: "Un nuovo atto di guerriglia, cominciato nella notte del martedì e terminato all’alba di mercoledì ha devastato il penale di Yare 1. Il saldo è di 5 detenuti morti, fra cui un decapitato, un suicidio e più di 25 feriti di cui 8 gravi. Il tenente colonnello Maggiorani in una conferenza stampa ha informato che la battaglia ha avuto luogo tra i detenuti del padiglione 3 e quelli dei padiglioni 1, 2, 4 e 5. Il leader del padiglione 3, per non venire ucciso, si è suicidato sparandosi alla testa. Durante la battaglia un detenuto della cui identità non si sa nulla è stato decapitato dagli avversari, che per decine di minuti hanno giocato a football con la sua testa. Solo all’alba i militari sono riusciti a entrare nell’istituto penale ed hanno ristabilito la calma. Sono state ritrovate armi da fuoco, granate ed oggetti contundenti. Nel pomeriggio regnava una calma carica di tensione nel penale, che ospita oggi 1.122 uomini, mentre fuori rimanevano decine di famigliari, preoccupati per la sorte dei loro congiunti. Una delle donne presenti, seguita poi dalle altre, ha chiesto le dimissioni del direttore di Yare per non aver compiuto il suo dovere. Ha detto che davanti agli occhi del direttore succede di tutto, ma che lui non fa nulla. La madre di un detenuto ha affermato che preferirebbe che suo figlio fosse morto piuttosto di sapere che deve sopportare quotidianamente le torture all’interno del carcere".
Sui giornali si scrive che sono state ritrovate armi da fuoco e bombe, ma nessuno sembra aver voglia di indagare sul come possano reperirsi tali oggetti in un istituto penale.
Non è difficile congetturare - ed è cosa risaputa - che il clima di terrore è provocato e mantenuto dagli stessi gestori e amministratori del carcere. Le armi in possesso dei detenuti non sono propriamente artigianali, e vengono fornite dagli stessi militari delle forze di sicurezza per poter poi giustificare la repressione sanguinosa cui si dedicano metodicamente.
Forse i fatti parlano da soli. O forse si confondono al ricordo di un volto di bimbo che, in attesa di far visita al padre detenuto, ripeteva tra sé e sé la frase, come fosse una filastrocca: "Ciao papà, sono contento di vederti, è da tanto che ti penso... non preoccuparti per la mamma, ci sono io in casa e quando torno da scuola la proteggo io. La mamma dice che non sa quando tornerai e che non sei tu che decidi. Penso che la mia maestra potrebbe aiutarti, come ha aiutato me quando ho litigato con il mio compagno. Non ti preoccupare, le parlo io".
Per tutto questo, stringendo la mano ad un assassino, non ho potuto fare a meno di dirgli "Cuidate, hermano" (riguardati, fratello), al di là degli schemi che la nostra mentalità perbenista ha preconfezionato per giudicare il bene ed il male.