Apartheid albanese
I frutti della guerra: come è cambiata (in peggio) la società kossovara. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello (Perugia).
«Prima dell’intervento della Nato il sentimento che dominava nella società kosovara non era l’odio, ma la paura, sia da parte albanese che da parte serba. Al tempo stesso si respirava un clima di grande speranza nelle forze di interposizione non-violenta e negli osservatori dell’Osce. Lo stesso Fehmi Agani ci confermava che l’Uck era, in fondo, una realtà trascurabile dello stato parallelo che i kosovari avevano costituito nell’ultimo decennio».
Herman Barbieri, responsabile dell’Oew, una organizzazione di Bressanone che coordina tutti i gruppi pacifisti dell’Alto Adige, ci spiega com’è cambiata la società kosovara in seguito all’esperienza della guerra. "Dopo la catastrofe questo elemento non-violento è sparito. La maggioranza della gente accetta la violenza come modello di risoluzione dei conflitti. Certo, abbiamo trovato anche persone che la pensano diversamente, ma talmente impaurite da non aver più il coraggio di parlare, tanto il clima è deteriorato. Ci hanno raccontato storie diverse di serbi che hanno pagato addirittura con la vita il tentativo di difendere gli albanesi, per cui lo stereotipo del serbo massacratore, violentatore non sta in piedi. Questi episodi però non possono essere divulgati per il timore di essere scoperti e bollati come atti di tradimento della causa albanese».
La cultura kosovara sta dunque vivendo un ritorno indietro?
"Il pendolo oscilla nella direzione opposta con un parallelismo spaventoso, perfino nelle espressioni e nei metodi. Ora la pulizia etnica è praticata nei confronti dei serbi e di altre etnie; vengono bruciate le case, distrutti i documenti, gli estremisti viaggiano con le divise nere. Insomma, tutto quello che prima gli albanesi hanno subito da parte serba lo stanno rifacendo pari pari ai serbi. E’ un atteggiamento comprensibile, perché la ferita è così profonda e grave che si corre il rischio di sottovalutarla o addirittura di non percepirla, ma non è giustificabile. Io penso che il primo compito di chi va a operare in Kosovo sia quello di avvertire la profondità della ferita per poter lavorare a una riconciliazione fra le due etnie".
Cosa sta facendo in questo momento la popolazione kosovara, sia dal punto di vista della ricostruzione materiale che da quello della ricucitura del tessuto della convivenza?
"La realtà mi appare così complessa che posso fornire solo delle impressioni, senza pretendere di offrire una visuale completa. Quello che balza agli occhi a prima vista è la ricostruzione degli edifici. Quando in agosto è stato varato il progetto dell’Onu di mettere a disposizione di ogni famiglia una stanza invernale riscaldata, i dirigenti della Caritas con cui ho parlato mi hanno detto: ‘È’ un sogno, non ce la faranno mai’. Invece quando sono ritornato in dicembre ho constatato che l’impegno era stato mantenuto. Non so valutare fino a che punto sia merito dell’organizzazione dell’Onu o delle rimesse di familiari emigrati all’estero. Comunque, passando per i villaggi e per le città si vedono questi tetti riparati con teli di nylon e sotto un ambiente dove si può stare al caldo. Anche la distribuzione dei viveri funziona bene, grazie alla lunga esperienza dell’organizzazione e alla struttura capillare dell’associazione Madre Teresa. Ci sono ancora delle sacche di povertà, ma in Kosovo nessuno muore di fame o di freddo".
In Occidente tutti temevano che l’inverno causasse una catastrofe...
"Molti kosovari in inverno si sono rifugiati in Montenegro, per ritornare a primavera. Se l’emergenza della casa e quello del cibo in qualche maniera sono state risolte, per altri servizi essenziali come l’acqua, l’energia elettrica, il telefono, la situazione è diversa. In inverno la corrente elettrica c’era solo per poche ore al giorno e in maniera non regolare, l’acqua non arrivava dappertutto, le comunicazioni telefoniche non erano state ripristinate".
E per quanto riguarda la ricostruzione del tessuto sociale?
"La mia impressione è che ci sia una gran voglia di ricominciare, anche perché non c’è più oppressione e la gente intravede un futuro vivibile. Non bisogna dimenticare, però, che quando si parla di ‘gente’ s’intende solo l’etnia albanese, gli altri non hanno prospettive. Ho molte perplessità sulla possibilità di ricostruire un tessuto sociale solido. Ogni volta che sono andato in Kosovo mi sono reso conto della profondità della ferita e della necessità di parlarne, di elaborarla. A questo livello invece succede pochissimo nelle scuole, fra la gioventù, con le donne. Ci vorrebbe un aiuto tanto massiccio quanto quello umanitario".
Una specie di assistenza psicologica?
"Certamente. Il segretario di una scuola di villaggio dove c’è stato un bestiale massacro mi ha raccontato che al mattino la scuola inizia regolarmente; a un certo punto, in una classe un bambino, per una ragione inspiegabile, comincia a piangere, piange tutta la classe, piange l’insegnante e alla fine tutta la scuola si ritrova in lacrime. E’ già importante avere la possibilità di sfogarsi, ma ci vorrebbe qualcosa di più".
Mi sembra che tu attribuisca una grande importanza alla scuola...
"Nel decennio precedente la scuola, insieme all’assistenza sociale, era uno dei punti qualificanti dell’autogoverno. Subito dopo la fine dei bombardamenti i kosovari, con grande saggezza, hanno ricominciato a riorganizzare l’insegnamento, perché è lì che si elabora il futuro. Se si pensa che gli insegnanti hanno lavorato, almeno fino a dicembre, senza essere pagati, si può capire quanto sia grande la voglia di tornare alla normalità. Ma sempre dentro i confini della propria etnia. A Vitomirica, dove c’è una minoranza bosniaca, è ripreso anche l’insegnamento in serbo-croato. È un piccolo segnale di speranza. Ma proprio poco fa m’è arrivata una lettera di una ragazza bosniaca che vive in Germania, nella quale mi dice che, dopo aver fatto un giro nei villaggi, s’è accorta che le persone hanno paura di parlare serbo-croato perché temono di subire la violenza degli albanesi".
Cosa si aspetta la gente dal futuro? Pensa che sia possibile convivere oppure c’è una specie di ritorno aggressivo verso la propria identità etnica?
"In questa fase si cerca di riorganizzarsi all’interno delle strutture familiari e dei legami di parentela, si torna a vecchie usanze, dando un peso eccessivo alla famiglia e al clan e diffidando della politica. Questo recupero delle radici non è di per sé un male; è piuttosto un sintomo il quale indica che si cerca sicurezza in strutture che già si conoscono. Sul piano più ampio tutto dipenderà da come si riuscirà a mettere allo scoperto le ferite e a dare un nome e un volto ai criminali, per evitare lo spettro della colpa collettiva e della criminalizzazione dell’intera etnia.
Ci vorrà uno sforzo enorme e non mi sembra realistico aspettarselo in questo momento. Bisogna ancora chiedersi di chi parliamo quando diciamo ‘kosovari’. Solo degli albanesi o di tutti i popoli che condividono lo stesso territorio? È una questione aperta alla quale finora nessuno ha dato risposta, meno che gli estremisti, per i quali il Kosovo appartiene agli albanesi e tutti gli altri debbono essere tollerati o cacciati. Insomma la situazione precedente alla guerra si è solo rovesciata; l’apartheid rimane, sono soltanto cambiati i soggetti".
Come sta lavorando il contingente internazionale?
"Quel che io vedo è che i militari fanno i militari, non sono venuti per portare uno spirito di pacificazione o per realizzare un progetto civile. Detto in altri termini, la guerra non è finita, è solo soppressa da una presenza militare che adesso sembra addirittura insufficiente. A Mitrovica esiste ancora un focolaio esplosivo e il progetto multietnico dell’amministrazione Kouchner è limitato alle dichiarazioni verbali. In realtà il protettorato Onu è intrappolato nella situazione che l’intervento Nato ha contribuito a creare. Penso che il lavoro di pacificazione debba cominciare dal basso, con metodi che a prima vista potrebbero sembrare semplicistici, trovando delle persone neutrali che possano stare lì ad ascoltare, a percepire il dolore, a condividere la vita. Ci vorrebbe, insomma, un progetto che non c’è".
Puoi darci un giudizio sulla società kosovara attuale?
"Mi colpiscono due aspetti: da una parte la voglia di ricominciare, di godersi questa nuova libertà perché gli oppressori non ci sono più; dall’altra mi sembra che si tratti di una libertà dai vincoli, ma senza direzione. Una ‘libertà da’, non una ‘libertà per’. La mancanza di un progetto si nota dal diffondersi della criminalità comune, per cui la gente ha paura di uscire di sera, le strade si svuotano...".
La guerra non ha prodotto dunque molti frutti...
"L’attacco Nato, con i bombardamenti e la conseguente pulizia etnica (anche se il progetto Milosevic l’aveva messo a punto da tempo) è stata una follia".