Come cambia il lavoro a Rovereto
Un albanese, alla sua prima settimana in Italia, muore in un pozzetto di una fabbrica di Rovereto. La fame di manodopera, la globalizzazione, la precarizzazione, le nuove tecnologie nelle industrie roveretane.
Nello scorso numero abbiamo presentato una ricerca di Gianfranco Betta sul mercato del lavoro nel roveretano, leggendo fra le righe della quale si potevano intravedere anche i profondi processi di ristrutturazione dei rapporti sociali che prendono corpo intorno alle trasformazioni dell’organizzazione della produzione. Avevamo annunciato che ne avremmo parlato con alcuni sindacalisti roveretani, ed è quello che facciamo in questo numero: sono qui nostri interlocutori Luigi Caliari, segretario della FIM (la federazione metalmeccanici della CISL) e Paolo Burli segretario della FIOM (la federazione corrispondente della CGIL).
Iniziando la discussione, Caliari mette subito le mani avanti, segnalando la difficoltà di fare ormai discorsi "locali", roveretani, su un tema come quello dell’industria. Per la dimensione fortemente internazionale dei problemi dell’economia, e quindi del lavoro. Anche l’industria insediata a Rovereto è ormai completamente permeata da questi processi di internazionalizzazione: basta pensare - ci fa notare - alla Master Tools, un’industria produttrice di utensili meccanici, ad organizzazione del lavoro molto avanzata, che è approdata a Rovereto da Göteborg (Svezia), importando dalla Svezia anche i primi dirigenti; alla Merloni, facente parte di un gruppo con sede a Fabriano ma con stabilimenti anche in Cina; alla Pama grandi macchine, di proprietà del roveretano Mario Marangoni ma completamente integrata in una prospettiva internazionale ; alla Luxottica, azienda produttrice di montature da occhiali originaria del bellunese, ma che lo scorso anno ha assorbito addirittura il prestigioso marchio americano Ray Ban. "Di fronte a situazioni del genere, e ad altre simili - ci ripete Caliari - non ha nessun senso parlare di specificità locale. Anche la legislazione sul lavoro è sempre più europea". Ed è proprio a partire da questi punti di vista che, secondo Caliari, si sono attualmente esaurite alcune motivazioni, forti negli anni scorsi, per ulteriori insediamenti nel roveretano. Innanzitutto - punto 1 - sul versante finanziario, perché in virtù della nuova normativa europea sui finanziamenti all’industria, che limita fortemente le possibilità di finanziamenti locali - come quelli distribuiti gli anni scorsi dalla Provincia - tutto il Trentino oggi non è più così attrattivo come un tempo per nuovi insediamenti industriali.
Poi - punto 2 - per la situazione di esaurimento delle aree disponibili: "Basta pensare a quello che era lo slogan anni ’70 della Lotta Continua roveretana di Mario Cossali ‘Giù le mani dai Lavini’ (area di pregio ambientale a sud di Rovereto, n.d.r.) per rendersi conto di quanto l’industria abbia consumato il territorio: i Lavini infatti sono stati già mezzi sbancati per far posto agli insediamenti di Sony, Dana, ecc.".
Nel roveretano di aree disponibili per insediamenti industriali ne è rimasta una sola, quella "alle Casotte" di Mori, rimasta fino ad ora libera perché non infrastrutturata (non ci si arriva in autotreno). Ma adesso che la Provincia ha messo in programma le infrastrutture necessarie, se solo ci si trasferissero Master Tools e Marangoni, che sono alla ricerca di una nuova localizzazione, la cosa sarebbe probabilmente sufficiente per occuparla in buona parte. Infine - punto 3 - per la mancanza di manodopera specializzata: le imprese lamentano la mancanza di figure come programmatori, progettisti (figure non solo esecutive, ma capaci di intervenire sul funzionamento delle macchine con proprie innovazioni, che sono quelle che ti permettono di battere la concorrenza) o montatori disponibili a lavorare in trasferta (ci sono stati casi negli ultimi tempi di trasferte del genere anche in Cina, ma si è visto che i lavoratori roveretani hanno poca attitudine a girare il mondo). E qui insomma bisognerebbe aprire un discorso sulla formazione professionale, attualmente insufficiente: basti pensare che gli studenti del "Centro formazione professionale G.Veronesi"vengono contesi dalle ditte addirittura prima della fine del corso di studi.
Conferma questa difficoltà delle imprese industriali a reperire manodopera specializzata anche Paolo Burli, che però introduce a questo punto anche una nota critica: "Da un lato tutti parlano di formazione continua, di necessità di un ampio bagaglio di conoscenze che dovrebbe portare il lavoratore all’elasticità del sapersi adattare rapidamente all’evoluzione tecnologica. Ma poi di gente davvero interessata a percorsi formativi del genere non se ne vede molta in giro, a partire dai datori di lavoro. C’è solo l’Agenzia del lavoro che sta costruendo percorsi ad hoc. Mentre gli strumenti che le aziende avevano in mano per attrezzarsi in questa direzione, come i contratti di formazione-lavoro, o quelli di apprendistato, sono usati per altri fini, per ottenere una precarizzazione del lavoro e per abbassarne il costo, non davvero per quella qualificazione professionale per cui erano stati concepiti". E dichiara interesse a mettere in piedi un tavolo di confronto permanente sulle questioni della formazione professionale fra sindacato, imprese, ente pubblico e scuola, per monitorare le necessità del mondo produttivo e cercare assieme le risposte migliori. "Ma ci sono dei prerequisiti - ricorda - che sono la qualità delle condizioni di lavoro e la sua sicurezza, senza i quali è difficile pensare davvero ad una qualificazione professionale dei lavoratori. Non si forma un lavoratore atipico, precario. E purtroppo invece sono questi i processi che investono oggi maggiormente il lavoro: quelli della precarizzazione, come ci confermano anche gli ultimi dati di cui siamo in possesso, relativi al 1999, con quasi 83% delle nuove assunzioni che avvengono con contratti a termine".
Questo elemento della difficoltà di reperimento di figure professionali qualificate, che entrambi gli interlocutori ci confermano, sembrerebbe però in contrasto con quanto messo in luce dalla ricerca di Betta: un rapporto di composizione tra figure operaie e figure tecniche ed impiegatizie troppo sbilanciato a favore della componente operaia, che è a Rovereto ancora il 70% contro il 50% delle imprese industriali lombarde. "Questo dato rilevato da Betta - ci risponde Caliari - fotografa un elemento di debolezza del nostro insediamento industriale: il fatto che abbiamo a Rovereto diverse aziende con la testa (l’amministrazione ed i centri direzionali e di programmazione) fuori provincia. La Merloni, per esempio, viene diretta per telefono da Fabriano e quello che abbiamo a Rovereto è in fondo solo un grande capannone. Anche il gruppo Marangoni, pur nato in zona, da alcuni anni ha portato a Verona gli uffici. Inoltre qui non ci sono molte aziende ad alta tecnologia, ecco perché la composizione dei dipendenti è così spostata sul settore operaio. Ma dove c’è sia la tecnologia che il cervello, come alla Pama, i rapporti fra operai e tecnici sono per l’appunto quelli indicati da Betta per la Lombardia: metà e metà. E’ certo un indice di debolezza".
E legato ad un ritardo, sarebbe per Caliari anche il dato degli alti tassi di disoccupazione femminile a Rovereto. Perché l’occupazione femminile tradizionale era quella tessile, ora crollata per il basso contenuto tecnologico di quell’industria, che l’ha messa nella condizione di venir sopraffatta, nella concorrenza, da produzioni del terzo mondo dove la manodopera è a costi stracciati. Anche per la manodopera femminile, quindi, il problema sarebbe quello della formazione professionale.
I dati della ricerca Betta mettevano in rilievo tassi di scolarizzazione rilevanti anche nella disoccupazione femminile di Rovereto. Ma c’è probabilmente un problema di superamento dello stereotipo maschile/femminile nella scelta dei percorsi formativi : quello che manca alle industrie è manodopera specializzata in senso tecnico-industriale e su questo campo è ancora scarsa la offerta femminile. Nell’anno scolastico 1998-99 il "Centro Veronesi" ha fatto nelle scuole medie una campagna di orientamento per l’iscrizione di femmine a corsi triennali per figure tecnico-industriali, frutto di un accordo con alcune imprese meccaniche che si erano impegnate ad una futura assunzione: hanno avuto una sola iscrizione. "Anche se ormai in certe fabbriche non c’è più la fatica d’un tempo ed il bisogno della forza fisica che discriminava le donne" - ci dice Caliari, per poi però aggiungere subito un "ma certo stiamo parlando di punte di eccellenza".
Dalle parole dei sindacalisti sembra dunque delinearsi il quadro di un esaurimento del ciclo di sviluppo "quantitativo" dell’industria roveretana, un elemento che la ricerca di Betta coglieva con la sottolineatura di "vistosi fenomeni di senescenza". Con alcuni poli tecnologicamente ed imprenditorialmente avanzati nelle industrie maggiori, in grado di reggere anche bene la sfida dell’innovazione, inseriti però in un tessuto di unità produttive minori sotto sforzo e con problemi a reggere una fase di necessaria innovazione. In situazioni come queste (ma non solo) la risposta può essere il ricorso a quella precarizzazione del lavoro di cui ci parlava già prima Burli, insieme ad un degrado delle condizioni di lavoro, testimoniato - sempre secondo Burli - da un aumento del numero degli infortuni sul lavoro, per non parlare della tendenza delle imprese a tenere nascosti quelli minori, camuffandoli con qualche giorno di malattia.
Una tragica conferma è arrivata il giorno 23 marzo, con la morte del ventiquattrenne albanese Afrim Zenelli, che appena giunto in Italia e non ancora in regola con il permesso di soggiorno (e quindi di lavoro) già era "in produzione" con la piccola impresa edile Progeci che lo aveva mandato, tutto solo, ad impermeabilizzare un pozzetto nel cortile della Dana, in zona industriale. Solo che il materiale che gli avevano affidato per realizzare l’impermeabilizzazione era tossico, ed Afrim, dimenticato da tutti nel pozzetto per dieci ore, ha prima perso conoscenza, ed è poi morto. Pesano come macigni gli interrogativi rivolti da Antonio Rapanà, responsabile della CGIL per gli emigrati ed i lavoratori atipici, al quotidiano L’Adige del giorno successivo: "Questo ragazzo evidentemente stava lavorando con sostanze pericolose e mi chiedo che formazione aveva per farlo in sicurezza… è possibile lasciare da solo [per dieci ore !, ndr] un lavoratore in una situazione di pericolo?".
Secondo Burli è chiaro che qui siamo ad una forma particolarmente deleteria di precarizzazione; "Ma se non stiamo ben attenti, se non facciamo un lavoro di sensibilizzazione a partire dai lavoratori che rappresentiamo - continua - ci sarà prima o poi una deriva, perché questa precarizzazione, nelle sue forme selvagge, fa passare l’idea che le contraddizioni del sistema produttivo si possono scaricare sul vicino, su quello più debole, su quello di un altro colore, su quello che ha più difficoltà di te ad avere un posto di lavoro fisso anziché precario. Bisogna porre il valore del lavoro al centro della nostra azione, perché se non recuperiamo terreno su questo fronte adesso che di lavoro ce ne è in abbondanza, almeno per le fasce forti e medio-forti, non oso pensare cosa potrebbe succedere in una situazione con un tasso di disoccupazione che aumenta magari di qualche punto".
Quello che sta avvenendo attualmente - secondo Burli - è invece uno scambio fra salario e precarietà, con lavoratori che accettano contratti precari come quelli di apprendistato (che non necessariamente sboccano in assunzioni stabili), consentendo così all’impresa di realizzare risparmi sugli oneri contributivi, ma rifacendosi poi nella trattativa sui superminimi individuali (la parte del salario contrattata personalmente dal lavoratore), sui quali l’impresa può erogare con generosità grazie ai risparmi conseguiti sugli oneri contributivi. Sulla flessibilità Caliari ricorda invece il successo che da un paio d’anni hanno anche a Rovereto le agenzie di lavoro interinale (cioè in affitto) come la Adecco e la Man Power: ci sono imprese come la Biochemie che hanno delegato alla Adecco tutti i nuovi ingressi in fabbrica, anche quelli destinati a tramutarsi in posti di lavoro stabili, grazie al vantaggio che offre un primo periodo di lavoro interinale, quello della prova del lavoratore; altre, come la Gallox, che rimpiazzano sistematicamente tramite il lavoro interinale tutte le mancanze per malattia di proprio personale. Ma per Caliari questo corrisponde anche alle nuove aspettative di una parte (solo una parte) dei giovani, che alle volte non si strappano proprio i vestiti per un posto di lavoro fisso, perché la mobilità corrisponde di più al loro stile di vita. Cosa che - sembra a noi - apre grossi problemi anche per una ridefinizione dello stato sociale e delle forme che devono assumere le sue garanzie, sempre meno legate allo schema contributivo classico, da lavoratore dipendente.
Qui però entriamo in un nuovo campo di problemi rispetto a quelli trattati fino ad ora in questo articolo. Il campo della soggettività della "classe operaia" (mi sia concesso di chiamarla ancora così, in memoria del vecchio Karl). E su questo Caliari ha le idee chiare: "I vecchi lavoratori - ci dice - quelli entrati in fabbrica magari giovanissimi in altri anni, sono oggi frastornati da tutti questi radicali cambiamenti. Mi ricordano la teoria di Alberoni sull’uomo anchilosato. Alle volte manca proprio l’elasticità mentale per comprendere il cambiamento, e così basta che venga variato uno degli elementi che venivano considerati immutabili (per esempio l’orario, o il lavoro in trasferta) e nasce un problema molto complicato. Da qui si origina il dissenso e alle volte anche un risentimento verso noi sindacalisti, che invece non possiamo non confrontarci con le novità che vengono imposte dalle nuove situazioni. Nei confronti di un lavoratore di 47-50 anni, con la terza media, non acculturato, è molto problematico pensare, nel caso di espulsione dalle attività produttive, a corsi di riqualificazione, come chiede l’agenzia del lavoro. Una nuova classe operaia si sta invece formando in altre situazioni, nelle aziende più aggiornate non solo tecnologicamente, ma anche dal punto di vista delle relazioni industriali (ma le due cose di fatto coincidono) : quelle che considerano i lavoratori la loro risorsa umana, che fanno formazione, valorizzano la professionalità. Come la Master Tools (che non a caso è a cultura imprenditoriale svedese), dove si assumono solo diplomati, e poi li si specializza con propri corsi interni.
Capisco bene lo sconcerto dei vecchi operai, quello che è avvenuto negli ultimi anni in fabbrica è una vera rivoluzione culturale. Basta pensare alle forme di salario subordinato ai risultati dell’azienda che sono in vigore da 5-6 anni: è tramontata la possibilità di chiedere un aumento fisso garantito, sostituito dai ‘premi di risultato’: un salario variabile correlato all’andamento aziendale (produttività, qualità, presenza, pronta consegna degli ordini). E questo comporta un coinvolgimento almeno informativo del lavoratore che si terrà aggiornato sul bilancio aziendale, sulle commesse ecc., perché adesso la cosa lo riguarda direttamente. È evidente che si tratta del tramonto dell’idea di conflitto, il primo passo di una democrazia economica il cui passo successivo potrebbe essere quello - teorizzato dalla CISL - del coinvolgimento dei lavoratori nell’azionariato delle fabbriche in cui lavorano. Un vero cambiamento epocale dai tempi della "autonomia operaia", quelli anni ’70 in cui sono entrato in fabbrica io" - conclude Caliari, forse con una vena di nostalgia, non si capisce se per i suoi anni verdi o per l’autonomia operaia.