Contro il proibizionismo
Le droghe fanno meno male dell’alcool: perché non trarne le conseguenze?
Sul numero scorso di questo giornale è comparso un intervento dell’avv. Giorgio Tosi di severissima critica alla mozione sulla droga presentata dalla Sinistra Giovanile al congresso dei DS di Torino (La mozione Ds sulla droga). Una mozione che chiedeva l’avvio di un percorso antiproibizionista, partendo dalla constatazione del fallimento della strategia proibizionista. Tosi propone di discuterne "con serietà e senza preconcetti", giungendo poi alla conclusione che questa strategia è fallita solo perché non la si è condotta in modo adeguato, colpendo il nemico non alla testa (le"multinazionali della droga") ma solo in punti non vitali come i tossici ed i piccoli spacciatori da strada. Sono d’accordo con l’invito a parlarne senza preconcetti, ma questa volta Tosi - che per altro stimo molto - non mi convince. Parliamone dunque, e proprio per cercar di eliminare i preconcetti vediamo di partire dai dati statistici.
Tosi rifiuta "l’assunto fondamentale degli antiproibizionisti[quello che] la droga non è vietata perché fa male, ma fa male perché è vietata"che sarebbe solo"un calembour per gli allocchi".Riconosce che "probabilmente[le droghe] fanno meno danni del tabacco e dell’alcool", ma sembra ritenere la cosa di secondaria importanza, mentre a me questa pare una questione fondamentale, capace di porre la discussione sul giusto binario. Veniamo ai dati quindi, che traggo dall’Annuario sociale 1999del Gruppo Abele (Torino, 1999), una pubblicazione autorevole, basata su dati provenienti da fonti al di sopra di ogni sospetto, o governative o accademiche. L’Annuario(p. 535) conta per il decennio 1989-1998 ben 11.184 decessi per droga in Italia, quindi in media 1.118 all’anno.
Ma quanti sono i morti per alcool e fumo ? Enormemente di più. Per quanto riguarda il tabacco L’Annuariostima per patologie indotte dal fumo"una mortalità di circa 90.000 persone ogni anno, circa il 20 % della mortalità per tutte le cause"(p. 533). Per l’alcool L’Annuarioriporta (p. 532) i dati usciti da una indagine statistica condotta nel 1997 dalGruppo Epidemiologico della Società Italiana di Alcoologia, per la quale nel 1993 (ultimo anno disponibile) le morti alcoolcorrelate sono state 44.000, l’8 % di tutti i decessi. Su questo fronte tradizionale pare che stiamo migliorando : nel 1973 i decessi erano 67.000 (14 %).
Se usassimo il paradigma di Tosi dovremmo dire che quindi la droga non è vietata neanche perché fa male, dato che la nostra società non solo tollera consumi molto più nocivi come quelli del fumo e dell’alcool, ma in qualche modo addirittura li promuove con pubblicità più o meno esplicita.
Perché dunque la droga è vietata e circondata da una emotività demonizzante che non tocca consumi ben più nocivi? Io credo per una ragione originariamente di tipo culturale.
Droghe ed alcool sono sostanze usate per lo sballo: un rituale - potremmo definirlo - di sospensione (ebbrezza) del super-io collettivo, cioè delle regole di comportamento razionale normato in ogni società e che in ogni società è possibile sospendere solo temporaneamente tramite specifici rituali, diversi in ogni cultura, quanto presenti in tutte. Quasi sempre attraverso l’uso di sostanze psico-attive, cioè di droghe. La storia delle droghe attraversa la storia dell’umanità ed è presente in ogni suo stadio. Le stesse pratiche religiose affondano le loro origini in un territorio primordiale informe, in cui si mescolano misticismo primitivo, pratiche terapeutiche, sacrificali, ed estatiche, e nelle quali l’uso di sostanze psico-attive era praticato costantemente come ponte tra l’ordinario e lo straordinario, e ne troviamo tracce - tramite l’agapeo banchetto sacramentale – fin nel nostro rito cristiano più importante : la messa, di cui non a caso è parte il vino. Tutto questo per dire che i dati, che abbiamo illuministicamente citato prima, hanno dietro tutto un loro back-ground antropologico. Hanno a che fare con sistemi culturali formalizzati attraverso percorsi storici complessi. E la ragione della diversa percezione di alcool e droghe nella nostra società è dovuta al fatto che la nostra è una cultura mediterranea della vite e dell’alcool. Questa è la forma di sballo storicamente accettata a fungere da valvola di sfogo per la rigidità sociale.
Ma a questo punto – il punto del rifiuto sociale delle sostanze psico-attive non alcooliche nella nostra cultura, e quindi della loro illiceità che si è tradotta nella loro anche formale proibizione a norma di legge – si innesta qui un altro problema, il vero problema nell’attuale consumo di droghe, quello del controllo del mercato da parte della criminalità organizzata, conseguenza del proibizionismo.
Tutta l’esperienza storica delle società occidentali dimostra che il proibizionismo - la pretesa di intervenire con divieti giuridici per bloccare qualche settore del mercato basato su una robusta domanda reale - ha effetti disastrosi. Non cancella la domanda, solo complica il percorso attraverso cui la stessa trova soddisfazione. Aprendo regolarmente spazi di manovre per la criminalità organizzata, che interviene nel momento della sanzione di illegittimità della domanda a mettere in piedi una rete di approvvigionamento clandestina tesa a soddisfarla ugualmente. La mafia italo-americana come la conosciamo oggi – con il suo enorme potere economico-criminale, con i suoi intrecci letali con i poteri di controllo dello stato ottenuti tramite un’opera sistematica di corruzione, e la sua potente organizzazione, capace di crearsi attorno ampi strati di consenso ed alleanza – prende l’avvio con il salto di qualità permesso dalla promulgazione, negli USA, della legislazione sul proibizionismo di bevande alcooliche nei primi anni ’20. Nel 1933 la legge sul proibizionismo alcoolico viene revocata - prendendo atto del suo completo fallimento - ma le organizzazioni mafiose rigogliosamente cresciute all’ombra di quello, per tenere in piedi con uguale successo la loro macchina criminale, si riciclano nel mercato delle droghe, ancora clandestino.
In Europa e in Italia il consumo diffuso di droghe arriva (in termini culturali) dall’America, e si sviluppa sulla base di due diversi elementi: uno legato alla domanda ed uno all’offerta. L’affermarsi anche nel nostro paese, negli anni ’70, di una domanda sostanzialmente nuova di droga, ha dietro di sé profondi processi di trasformazione culturale dell’Italia post boom economico, in cui c’è spazio per una nuova identità (anche consumistica) autonoma degli strati giovanili e per un rapporto con la vita e la propria soggettività diverso da quello tradizionale : la precedente "cultura del vino", che aveva nell’osteria il suo punto di riferimento, declina, come abbiamo visto anche dai dati statistici, lasciando spazio per un nuovo tipo di ebbrezza connotato generazionalmente. E trova - sul fronte dell’offerta - una mafia pronta a farsene carico, legata com’è già da anni al commercio internazionale della droga a fianco dei cugini americani. Per la mafia italiana le opportunità offerte da un mercato della droga capillarmente diffuso ha rappresentato quello che è stato il proibizionismo alcoolico per quella americana : l’occasione per uno straordinario salto di qualità, un capillare controllo sul territorio, un accumulo di capitali facile quanto strabiliante e quindi anche una "elevazione sociale", una penetrazione in ambienti insospettabili della finanza, insomma una cooptazione (anche se sotterranea) nelle classi dirigenti di questo paese.
Non solo per la droga naturalmente, ma i flussi di denaro sporco da quella proveniente sono stati un formidabile biglietto da visita. Quando, nel corso degli anni ’80, vicende giudiziarie scoperchiano imperi finanziari apparentemente rispettabili come quelli di Sindona e Calvi, ci si trova dentro un verminaio profondamente intrecciato al riciclaggio di denaro sporco, quello della droga in primo luogo. Per questo è così difficile colpire alla testa il commercio della droga, perché in alto è molto ben protetto.
Dagli anni ’70, la droga è entrata anche in Italia stabilmente nella vita sociale. Ognuno di noi ha avuto qualche amico o compagno di scuola finito male : questo fa ormai parte dell’esperienza di vita della mia generazione, e spiega il gap generazionale per il quale guardiamo al fenomeno in modo diverso - per esempio - io e Tosi. Per l’attuale tossicodipendente l’intreccio fra emarginazione sociale e subalternità alla mafia che controlla il mercato è il vero mix letale. Da un lato pian piano salta la rete delle relazioni sociali, i rapporti di lavoro, i legami affettivi, in una progressiva tabula rasa. Dall’altra questo vuoto viene riempito da un progressivo arruolamento nella piccola criminalità come unica via di soluzione ai problemi della sopravvivenza e della tossicodipendenza. E la frittata è fatta. Quello della droga diventa il problema disperante che tutti sappiamo.
Come tagliare un simile disastroso intreccio? Con un aumento continuo di criminalizzazione e repressione? È quanto è avvenuto fino ad ora con risultati controproducenti. È proprio l’emarginazione che mette i tossici in mano alla criminalità. E fa di un problema farmacologico un gravissimo problema sociale. Non è la proibizione che rende nociva la droga, certo, ma è il modo clandestino in cui viene consumata a renderne sfuggenti e quindi difficilmente controllabili i passaggi, gli esiti ed anche la stessa natura delle sostanze consumate. Ed a moltiplicare il potere criminale della mafia sui tossicodipendenti in primo luogo, e poi su tutta la società. Concludendo il suo "Piccola storia delle droghe dall’antichità ai giorni nostri"(Donzelli, 1997), Antonio Escohotado scrive, sulle droghe:"Siccome sono sempre esistite, ovunque e, a giudicare dall’oggi, domani ce ne saranno più di ieri, l’alternativa non è un mondo con o senza di loro. L’alternativa è insegnare il modo corretto di usarle o demonizzarle".
La prospettiva antipriobizionista mi pare l’unica in grado di misurarsi concretamente con questo problema. Da una parte per tagliare l’erba sotto i piedi alla mafia prosciugando una delle sue più ricche fonti di reddito e potere, e dall’altra per ridurre l’uso di droghe ad un problema farmacologico (come quello di alcool e tabacco) e naturalmente psicologico, ma almeno non criminale, meno intrecciato quindi all’emarginazione sociale, più reversibile. Semplicemente meno drammatico insomma, certo non inesistente. Ma solo questi possono essere gli obiettivi di una politica sull’argomento democratica di ispirazione liberale : quelli di una realistica riduzione al minimo del danno, non quelli della lotta contro "il Male" della droga.
È certo una prospettiva di lunghissimo periodo, che si propone nientemeno che di operare una inversione generale di tendenza, di smantellare flussi economici ed equilibri di potere internazionali. E che quindi ha bisogno di una prospettiva assolutamente internazionale e di robuste gambe per poter marciare. E per trovarle deve prima vincere una difficile battaglia culturale.
E’ quanto, nel suo piccolo, tentava di incominciare a fare la mozione della Sinistra Giovanile da cui siamo partiti. Personalmente mi sembra una cosa non solo utile ma necessaria.