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QT n. 1, 8 gennaio 2000 Servizi

Soldi e beneficenza

Dopo il servizio sui “professionisti della beneficenza”: il problema generale del denaro nel mondo del volontariato e alcuni esempi di associazioni che utilizzano al meglio i soldi raccolti. In America è considerata “efficiente” un’associazione che riversa sui beneficiati il 50% delle offerte: e in Italia?

Gli interrogativi sollevati dal nostro servizio su I professionisti della solidarietà comparso il 4 dicembre scorso implicavano una verifica dell’operato di altre associazioni attive (con denaro offerto da benefattori privati, ricevuto dall’ente pubblico o fondazioni oppure raccolto con lotterie, vendita di prodotti, organizzazione di spettacoli, ecc.) nel campo dell’aiuto volontario e gratuito a chi ne ha bisogno.

Dopo quell’articolo, infatti, il lettore potrebbe ritenere di aver trovato, a propria giusta discolpa, un buon motivo per mettere fine ad atti generosità di fronte a richieste provenienti da ogni parte. La tentazione di fare di ogni erba un fascio è forte ma, come vedremo, non è il caso di lasciarsi prendere da una diffidenza generalizzata. Certo lascia perplessi la facilità con cui sedicenti agenzie specializzate nella raccolta di beneficenza hanno potuto operare per anni alla luce del sole senza insospettire nessuno - carabinieri, polizia, magistratura, autorità costituite e men che meno le stesse associazioni interessate ai fondi. Uniche vittime accertate, il benefattore ed il mancato beneficiato. A proposito: nessuna reazione, contestazione o mea culpa, né dai truffatori né dai truffati.

Fortunatamente l’amore per il prossimo è un mare molto vasto in cui non nuotano solo associazioni dirette da mascalzoni, ma anche altre che si prodigano per i bisognosi senza considerarli un affare.

Un campionario di queste ultime era presente a Trento tra le 630 bancarelle alla fiera di S. Lucia. Percorrendo via Mazzini, via Garibaldi o via del Simonino, poteva infatti capitare di vedersi corteggiare con richieste di denaro o inviti ad un acquisto da persone sconosciute per conto di svariate associazioni. Tra queste, accanto a quelle conosciutissime come Casa Telethon, l’Unicef e l’Avis con un progetto "Tende di Natale", altre meno note, come l’associazione Arcoiris, l’associazione contro la Fibrosi cistica, l’Ail contro la leucemia, Jugo ’94 insieme per la pace, la comunità Lautari, il doposcuola di Cognola, l’Estuario, SOS bambini romeni, il Cral delle poste per il progetto Matembwe in Tanzania, l’associazione Italia-Tibet, Aiutiamoli a vivere, la Sagrada Familia per le favelas, Luci dell’Est e molte altre ancora.

Per tutte un interrogativo: chi sono? Dove operano? Chi le controlla? Hanno dei bilanci, un nome registrato in qualche tribunale, un’assemblea dei soci cui render conto delle scelte?

Ma soprattutto - e questa è la domanda centrale: quanto costa la loro attività benefica?

In altri termini, ed in via generale: su cento lire spremute al benefattore, quante ne finiscono effettivamente nelle tasche del beneficiando?

Non c’è un’unica risposta: si spazia dalle associazioni "allegre" a quelle serie passando per tutte le sfumature intermedie possibili. Le allegre, di solito, sono soltanto una sigla, un indirizzo, un conto corrente ed una segreteria telefonica che invita a lasciare un messaggio. Si potrebbero elencare centinaia di nomi, ma la quasi impossibilità di un contatto diretto per una verifica ed il rischio di una querela, consigliano prudenza. Infatti non è per niente semplice ficcare il naso negli affari di queste associazioni che, millantando la loro attività con il richiamo alle più diverse ragioni - dai culti della Madonna alla fame e alla malattia, dall’emarginazione all’abbandono - e pubblicizzando la loro attività con giornalini, riviste, trasmissioni radio-TV e convegni, riescono a farsi consegnare denaro.

Chiunque del resto può inventarsi una propria personale associazione di beneficenza: ci si appropria di un bisogno, gli si crea attorno una sigla con un indirizzo, un conto corrente, si stampa un giornaletto pieno di immagini di sofferenza con cui si agisce sui sensi di colpa che i favoriti dalla sorte avvertono. Si spediscono, specie in questo periodo, ventimila richieste a persone che hanno già dato in precedenza o di cui si conosce la generosità e si attendono a domicilio le risposte: ne bastano il 10% a 30.000 l’una per fare 60 milioni.

Le associazioni serie, la grande maggioranza, operano invece alla luce del sole, con un rendiconto dell’operato, elenco dei soci volontari, modalità della raccolta di fondi, situazioni in cui sono intervenute e spese vive sostenute per il proprio funzionamento. Lavorano con lo spirito che ci si aspetta da chi si impegna per certe cause, ossia spontaneità, gratuità e disinteresse: "Nessuno mi obbliga, non ti chiedo nulla e non mi aspetto nulla". Modalità di comportamento che la nostra società, strutturata sulle rigide categorie del dare e dell’avere, dei costi e ricavi, non conosce più.

Quello delle associazioni di volontariato è un fenomeno in continua espansione: oggi sono oltre 9.000 con 4 milioni di iscritti quelle che, a vario titolo - dall’assistenza sanitaria all’accompagnamento, al pronto soccorso, all’aiuto al terzo mondo, all’intervento in aree devastate dalla guerra - operano sul territorio nazionale, dalle più grandi e strutturate alle più piccole. Alcune hanno una lunga storia e 200 sono addirittura nate prima del 1900.

Lo Stato stesso non poteva rimanere estraneo di fronte alla crescente presenza di volontari e con una legge, la 266 dell’11 agosto ’91, ha dato loro un riconoscimento giuridico: prima il nostro ordinamento non ammetteva il lavoro continuativo gratuito che era pertanto illegale.

In realtà, la legge 266 non regolamenta l’associazionismo del volontariato in sé, ma piuttosto i rapporti tra le organizzazioni di volontari e le istituzioni pubbliche, riconoscendone "l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale individuate dallo Stato, dalle Regioni e dagli Enti pubblici". La legge quindi prende in considerazione solo il volontariato associato, e se ne interessa in funzione delle istituzioni pubbliche e più esattamente per integrarne gli interventi.

Allo scopo lo Stato ha stanziato dei fondi, per supportare le associazioni che abbiano un progetto di assistenza o cooperazione. Insomma, il denaro pubblico che integra gli sforzi privati.

Se le organizzazioni vogliono beneficiare di tali contributi e di agevolazioni fiscali ed economiche, devono iscriversi all’anagrafe o al registro regionale delle associazioni di volontariato, anche per evitare che false associazioni abusino delle facilitazioni.

All’ente pubblico resta il compito di controllare e garantire che il servizio prestato ai cittadini sia valido e che il denaro elargito o raccolto da privati sia usato in modo corretto.

Per favorire le associazioni della provincia nella loro azione è stato istituito il "Centro Servizi per il Volontariato" (CSV), con sede aperta dal 1° gennaio a Trento in via Sighele, un organismo avviato da un comitato di gestione nominato con legge provinciale del maggio ’98. È presentato come "il primo passo di una nuova fase". Suo compito sarà offrire a tutte le associazioni consulenze ed assistenze specifiche e la formazione e promozione di personale. La consulenza, in particolare giuridica, prevede analisi degli statuti delle associazioni, predisposizione di verbali e dei libri sociali, rapporti di lavoro e collaborazione, rendiconti periodici.

Si parte il primo dell’anno con un miliardo e mezzo e con la predisposizione di una struttura amministrativa: cercansi impiegati e laureati cui affidare la responsabilità delle aree operativa, fiscale, giuridica e promozionale delle attività del volontariato.

Intenzioni ottime dunque: speriamo solo che, come troppo spesso in passato, il denaro in dotazione non si esaurisca nel funzionamento della struttura lasciando quel che avanza ai veri bisognosi: la vicenda degli aiuti italiani al terzo mondo tradottisi in mega-stipendi, colossali spese per trasferte ed alloggiamento dei volontari (ed anche peggio per la verità) è fin troppo nota.

Dunque, aiutare il prossimo ha un qualche costo rispetto all’intervento predisposto. Questo l’interrogativo: in quale misura esso è accettabile, o diventa spreco? Può essere illuminante l’esempio degli Stati Uniti, paese in cui il ruolo dello Stato in campo sociale ed in materia di salute, pensioni e previdenza è quasi nullo e tutto è lasciato alla logica del privato: il povero, il disadattato o chi per qualsiasi motivo non provvede da sé a crearsi una copertura, corre il rischio di trovarsi, in caso di bisogno, senza tutela sanitaria, privo di pensione e col rischio di divenire un barbone emarginato.

Quando si verifica una circostanza del genere, intervengono in loro soccorso organizzazioni No Profit che provvedono con fondi propri a superare l’indigenza.

E il denaro per tali associazioni? Viene raccolto da veri e propri professionisti, dei manager (dagli adeguati stipendi) che incettano beneficenza, lasciti ed elargizioni da grandi aziende, banche, fondazioni, singoli cittadini, ecc. Le donazioni, detraibili dalle tasse, raggiungono cifre colossali nell’ordine di migliaia di miliardi ed il costo della loro raccolta è considerato accettabile se non supera il 50% delle offerte ricevute.

Considerando questa percentuale un termine di paragone per le associazioni operanti sia a livello provinciale che nazionale, ecco il profilo di alcune di esse, il modus operandi e la loro resa effettiva sul campo.

L'associazione "Il sentiero tibetano", affiliata ad ItaliaTibet, sostiene il lavoro del Dalai Lama. Organizza manifestazioni politiche e culturali per promuovere la conoscenza della realtà del Tibet, sottoposto da 40 anni ai soprusi cinesi. Nel foglio di autopresentazione, l’associazione sottolinea come il modo migliore di dare un aiuto sia fare un versamento da 50 a 500 mila sul loro conto corrente. E’ possibile anche adottare con 35.000 lire un bambino, sostenere gli studi di un ragazzo o contribuire alla costruzione di un ospedale. Ha ricevuto un contributo di 12 milioni dalla Provincia per rendere agibile una struttura di accoglienza. Altri fondi vengono raccolti mediante organizzazione di corsi di Tai-Chi, oppure di yoga "il cui ricavato - recita il dépliant - andrà tutto devoluto in beneficenza" o ancora con spettacoli come quello organizzato all’inizio di dicembre al S. Chiara in occasione della ricorrenza della dichiarazione dei diritti umani: entrata 10.000 lire.

L’associazione si presenta anche alle feste rionali e simili con stand di foto, materiale documentario e vendita di prodotti e oggetti tibetani. Sull’uso delle entrate sentiamo la segretaria, Marina: "Tutto quello che raccogliamo, eccetto il noleggio delle palestre, viene impiegato per coloro a cui nome li abbiamo raccolti. Attualmente siamo impegnati a Sana Je in India, a sostegno di esigenze elementari di profughi dal Tibet, specie bambini".

Stesso impegno da parte dell’associazione "SOS Bambini Romeni". I soci, attingendo denaro direttamente dalle proprie tasche, raccogliendolo a feste o sagre paesane e con un piccolo aiuto dalla Provincia, sono riusciti a realizzare un asilo acquistando, nella zona di Timisoara, una grande cascina di proprietà dello Stato per trasformarla in asilo. Appena riescono a mettere assieme materiale sufficiente per una spedizione, prendono la macchina e corrono in Romania. Un socio: "Se non fossimo arrivati noi sarebbero morti un centinaio di bambini... Lì li fanno e poi li abbandonano. Cosa ci serve? Qualsiasi cosa".

Interessante anche l’iniziativa della parrocchia dei Solteri:
oltre ad aiuti in denaro o in prestazioni di lavoro, don Tarcisio suggerisce ai suoi parrocchiani di effettuare acquisti di alimentari che poi lui provvede a distribuire ai poveri del quartiere che, assicura, non mancano e spesso saltano qualche pasto.

Un ultimo esempio è dato dai ragazzi delle parrocchie cittadine che tra il 27 ed il 31 dicembre hanno girato di casa in casa per raccogliere prodotti alimentari inscatolati (pasta, riso, farina, olio) da spedire con un container in una zona montagnosa e arida del Perù. La richiesta è partita da un padre salesiano da ben 25 anni in zona, che se ne servirà sia per rifornire mense scolastiche e laboratori, sia come forma di pagamento per poveri e disoccupati che parteciperanno a lavori di utilità generale. Unici costi vivi, il noleggio e la spedizione del container.

Questi quattro modi di raccogliere ed impiegare beneficenza sono esempi di massima resa nel rapporto "offerte raccolte - impiego", forse vicino al 100%, visto che i veri volontari e i preti non conteggiano mai il costo delle loro ore di lavoro.

Altro caso, quello degli alpini, sempre presenti là dove servano opere di solidarietà. Dopo il terremoto in Umbria, ad esempio, erano intervenuti nel comune di Valtopina per ricostruire case e servizi sia con fondi propri, sia con denaro ricevuto con sottoscrizioni. Prima di questo Natale un nuovo aiuto: gli alpini di Lizzana hanno inviato ai terremotati altri 12 milioni ricevuti dai correntisti delle banche locali. Altro intervento in Kossovo: il 23 novembre scorso ne sono partiti 14 ed altri sono seguiti l’otto dicembre, accompagnati da esperti del servizio calamità della Provincia. Metteranno a disposizione degli abitanti di Peia-Pec il loro tempo e le loro conoscenze tecniche per ricostruire, con un finanziamento sulla legge provinciale del ’98, i tetti delle case bruciate. L’intervento finanziario pubblico fa parte del programma di aiuti all’ex provincia serba.

Qualche considerazione rispetto a quest’ultimo impegno: è possibile conoscerne il costo totale, il numero di interventi ed il rapporto "costo in denaro pubblico + donazioni private e realizzazioni sul campo"? Questo poiché sorge spontanea un’obiezione: aprendo, con il denaro a disposizione, un conto ai kossovari senza casa, in parte a fondo perduto e in parte a tassi zero ventennali, gli stessi sarebbero stati in grado di fare di più, ricostruendosi da soli i propri tetti?

Chi può rispondere?

Come si vede, il problema beneficenza/denaro, carità/ interessi, è molto complesso e variegato. Nell’attuale società sembrano ampliarsi le divaricazioni. Da una parte l’attenuarsi del welfare, e in ogni caso dell’intervento statale, ampliano il campo d’intervento del volontariato e del no-profit. Dall’altra la caduta di tante idealità, e il prevalere di logiche mercantili, ottundono molte coscienze, e alimentano il desiderio di fare comunque tanti soldi in fretta, come non importa.

Di qui la necessità di disciplinare meglio queste attività, magari - per non impantanarsi in ulteriori impacci burocratici - attraverso un’auto-disciplina, riconoscibile però dai sottoscrittori.

Ad esempio, non sarebbe corretto proprio nei confronti dei sottoscrittori se venissero rese note le direzioni prese dai fondi sul tipo "tanto incassato, tante le spese vive, tanto ai diretti interessati"? Il benefattore avrebbe conoscenza dei frutti della sua generosità. Non occorrerebbe un resoconto specifico, milione per milione; ma almeno al miliardo...

E’ chiedere troppo?