La mortificazione della fauna trentina
Da uno studio dell'Osservatorio sull'ambiente emerge un dato allarmante: su 7.400 specie esaminate, il 40% corre rischi di estinzione.
L'Osservatorio sull’Ambiente continua le sue iniziative di approfondimento sul tema dello sviluppo sostenibile nel Trentino e più in generale nella regione delle Alpi. Ultima occasione, il 13 maggio scorso, l’incontro a Trento sul tema: "Turismo, Ambiente, Economia", centrato sulle relazioni dell’economista Geremia Gios, del giornalista Franco de Battaglia, dei naturalisti Alvise Vittori e Gino Tomasi. I dati portati dalla relazione di Gino Tomasi sulle mortificazioni della fauna della nostra regione, in particolare di quella minore, sono un aspetto sottovalutato del nostro equilibrio ambientale perduto, che questo giornale vuole approfondire nei prossimi numeri, coinvolgendo gli istituti di ricerca locale. Del documento presentato da Tomasi al convegno diamo qui la parte essenziale, eloquente dei danni che uno sviluppo senza limiti delle attività turistiche e ovviamente non solo di quelle, portano al nostro fragile ecosistema alpino.
Tentare una indagine anche approssimativa sulle alterazioni faunistiche, implica affrontare complessità di problemi e varie metodologie d’indagine spesso indipendenti da quelle riguardanti altri settori fisici e biologici, che avvertono in modo differenziato le turbative ambientali.
Oltre a ciò, l’attenzione di chi ha a cuore la sorte dei nostri popolamenti animali è più orientata a privilegiare la fauna superiore dei mammiferi e uccelli, più nota, più contornata da situazioni dimostrabili, piuttosto che la fauna degli invertebrati, la microfauna delle acque e del suolo, verso le quali si nota una generale disinformazione, anche se l’avvertimento di un disagio biologico è recepito da molti segni che ne manifestano palesemente gli aspetti di profonde turbative in atto.
Queste alcune osservazioni, non pretendono perciò di entrare nello sviluppo delle problematiche proprie di un campo talmente vasto e poco esplorato, ma semplicemente di presidiare questo argomento, mettendone in luce, senza fare terrorismo ecologico, alcuni aspetti veramente inquietanti.
L'attuale necessità di tenere in seria considerazione gli aspetti faunistici nel loro insieme, è anche dimostrato dalla serie di sgomentanti difficoltà che si presentano per giungere ad una diagnosi sufficientemente chiara del loro stato biologico di salute o malattia. Ciò in modo molto più complesso, come accennato, per la fauna minore, che costituisce il maggiore cruccio per i naturalisti.
Vale la pena, anche al fine di sollecitare azioni di riordino concettuale, ricordare alcuni ordini di queste difficoltà.
Il campo di osservazione che bisogna esplorare ai fini di questa ricerca è molto vasto. Va ricordato che le specie animali conosciute a livello mondiale sono circa 1.500.000 delle quali 1.006.650 sono insetti, e di questi ultimi 350.000 sono appartenenti all’ordine dei coleotteri, che si rivela il più numeroso di tutti. Questa sproporzione vale anche per il Trentino, dove il totale di specie animali presenti è circa 35.000 e i coleotteri sono più di 5.000 specie.
In contrapposizione a questa vastità di campi di osservazione, si deve constatare una grande scarsità di competenti ricercatori sia nel versante interpretativo che in quello analitico della conoscenza sistematica, disciplina quest’ultima che ha visto la massima fioritura nell’Ottocento, epoca delle grandi architetture tassonomiche, ma che attualmente è sempre più negletto.
Le ricognizioni quantitative sulla riduzione delle rappresentanze faunistiche effettuate a livello regionale, le cosiddette "liste rosse delle specie minacciate", affrontano coraggiosamente il non facile compito di accertare il declino numerico delle stesse, oppure l’accertamento della scomparsa, che viene ritenuta tale dopo almeno dieci anni di mancato reperimento.
E’ evidente che il giudizio sulla loro contrazione numerica ed areale subisce quei condizionamenti che derivano dall’impossibilità di adottare metodi rigorosamente scientifici nell’impostare le valutazioni e soprattutto nel profilare motivazioni del fenomeno nella ricerca degli agenti fisici o antropici ritenuti responsabili.
Gran parte della gente, ad ogni livello culturale, è poco preparata all’avvertimento dell’allarme, né trova alcun incentivo per approfondire le proprie conoscenze. Disattende così gli esseri viventi non portatori di particolari pregi visivi che li rendano gradevoli (una farfalla sarà sempre più ammirata di uno scarabeo), oppure che rientrino nelle categorie che la vecchia nozionistica divideva in utili o dannose, mangerecci e velenosi, ecc., mortificando in tal modo una equanime concezione della natura nel suo insieme.
Questa disattenzione trova parziale giustificazione nel fatto che l’idea protezionistica, che evidentemente è suscitata dall’accertamento di alterazioni fisiche o biologiche dell’ambiente, è un fatto sociale di recente comparsa e di insufficiente sedimentazione culturale, e perciò suscita ancora scompostezze ideologiche e contrasti interpretativi. Gli stessi naturalisti di 50 anni fa ritenevano che l’unico possibile pericolo per la fauna fosse quello dell’eccessivo prelevamento da parte dei collezionisti.
Anche le prime disposizioni giuridiche a difesa, peraltro tutt’ora vigenti, si sono basate su elenchi di specie in vario modo minacciate. Non deve perciò stupire il fatto che gli attuali frastornanti allarmi, spesso travisatori della realtà, diano luogo a passionalità di giudizio più che ad impegno di maggiore possesso interpretativo.
Nonostante questa barriera di difficoltà connesse con la vastità ed eterogeneità dei campi di indagine, dispersioni metodologiche di ricerca, penuria di cultori, carenza di dati del passato, si profila attualmente la possibilità di attingere a dati quantitativi sufficientemente dimostrati.
In particolare il vicino Alto Adige ha fornito una serie di valutazioni sulla scomparsa o rarefazioni di specie locali, riguardante tutto il regno animale, accompagnata da una ricerca orientativa sulle possibili cause.
Questi dati diventano indicativi anche per la nostra provincia, data l’analogia fisiografica dei due territori finitimi.
Si deve però tener presente che nel Trentino il numero delle specie è ritenibile superiore, data la ricchezza ambientale e varietà climatica della fascia prealpina e insubrica, ma nel contempo la valutazione dei danni può essere superiore, a causa della maggiore rapidità con cui il territorio ha subito pesanti trasformazioni in questi ultimi anni.
Su un totale di 7.400 specie che questo rilevamento ha preso in considerazione:
- 258 sono considerate estinte o non più reperibili
- 255 sono in pericolo di estinzione
- 442 sono fortemente minacciate
- 1.454 sono potenzialmente minacciate
Dunque circa il 40% delle specie animali rientrano nella lista rossa, nonostante che il territorio preso in esame sia generalmente indicato come accogliente vaste aree incontaminate.
Pressappoco la stessa proporzione vale per gli insetti: su 6.350 specie, ben 2.500 sono nella lista, e di esse 235 sono considerabili del tutto estinte. Tra queste ultime è curiosamente riconfermato che le prime a scomparire risultano quelle specie che qualcuno chiama specie carismatiche, perché indicate a particolare attenzione per la loro prestigiosità di aspetto, rarità, dimensioni.
Non è rinunciabile a questo punto affrontare il quesito più pregnante e ricco di incognite, quello delle cause di un così vistoso impoverimento. Cause che vanno cercate in interventi o influenze antropiche di recente effettuazione, come è ben dimostrato dai bilanci faunistici prodotti dai naturalisti di un passato recente e dai primi avvertimenti su situazioni di impoverimento, le cui cause erano generalmente attribuite ad eccessivo prelevamento da parte dei collezionisti, minimamente prevedendo quali avverse situazioni biologiche si stavano profilando.
Sempre secondo la citata indagine altoatesina, che non si differenzia molto da altre dell’Europa media, le specie considerate estinte o minacciate rientrano nella seguente tipologia di fatti alternativi ambientali:
- quasi la metà di esse risente della distruzione dei biotopi naturali, dovuta al cambio di colture, scomparsa di superfici incolte, della vegetazione arborea e arbustiva ripariale, delle siepi, cave di materiali ecc.
- circa il 40% risente della coltivazione intensiva, cioè concimazione, dispersione di pesticidi, regimentazione delle acque ecc.
- un terzo delle specie subisce danni causati dalla contrazione areale dei biotopi dovuta all’urbanizzazione e ampliamento della rete viaria.
- un quinto risente dell’inquinamento delle acque
- un altro quinto è interessato da altri fattori, spesso concomitanti: varie patologie, alterazioni climatiche, carico turistico, prelevamento a fini collezionistici, caccia, pesca ecc.
A questo novero, piuttosto intuibile, di cause basate su concretezze di rilevamenti, va però aggiunta un’altra categoria, di gran lunga più sfuggente ad analisi immediate, onnipresente, di provenienza spazialmente vicina, ma anche molto remota, costituita dalla diffusione nell’atmosfera e nel consecutivo accumulo sul suolo, sulla neve, sulle acque, di elementi chimici provenienti dalle attività antropiche, industriali, agrarie, energetiche, la cui pericolosità è accertata qualora la quantità superi, o si presuppone possa superare in futuro, certe specifiche soglie.
Questo ingresso nell’ambiente di ulteriore turbativa, finora solo ipotizzata, è considerabile particolarmente subdolo sia per la sua dilatazione di presenza, sia soprattutto per la estrema problematicità nello studio e adozione di interventi correttivi.