Mussulmani in Italia: cosa permettere, cosa proibire
Il chador per le bambine, le preghiere alla Mecca, la poligamia... I problemi di convivenza con le culture degli immigrati. E negli altri paesi europei...
Ha suscitato un comprensibile scalpore nei giorni scorsi, l'intervento su L'Adige del sociologo prof. Enzo Rutigliano, a proposito di alcune richieste delle comunità islamiche, come il poter mandare le figlie a scuola in chador. Sono seguite vivaci lettere, di vibrata protesta o di plauso, alcune con vaghe venature razziste. Però, al di là delle argomentazioni di Rutigliano, che in nome dei valori di tolleranza della civiltà occidentale oppone netti rifiuti ad alcune innocue richieste di un'altra cultura, si pone seriamente il problema di come rapportarsi con queste culture: su quali punti la nostra comunità deve essere inflessibile, su quali conciliante? Come declinare i principi di laicità nel rapporto con religioni come quella islamica? Questo il tema del nostro dibattito, al quale hanno partecipato Piergiorgio Rauzi, sociologo, Romano Oss, segretario dell'Associazione Italiana Atei, Agnostici e Razionalisti, e Massimo Giordani, direttore dell'Atas (Associazione Trentina Accoglienza Stranieri).
Per semplificare la discussione, cerchiamo di considerare le diverse, possibili richieste che cittadini di altra cultura e di altra religione immigrati in Italia potrebbero rivolgere alle autorità del nostro Paese. Alcune di queste richieste (come la possibilità per le ragazze di venire a scuola col chador) non contrastano con alcuna norma dei nostri codici e non sembrano comportare concrete difficoltà di sorta. Altre ad esempio la presenza di insegnanti che sappiano l'arabo, ma anche mense scolastiche e aziendali che tengano conto delle prescrizioni islamiche, o ancora il permesso ai musulmani di assentarsi dal lavoro per le cerimonie del venerdì necessitano invece di aggiustamenti organizzativi e in certi casi anche di un qualche impegno finanziario.
Infine esistono delle consuetudini, come la poligamia, che contrastano decisamente col nostro codice penale.
Come atteggiarsi di fronte a ciascuno di questi tre diversi tipi di possibili richieste? Dico "possibili" perché non ci risulta che finora le comunità islamiche, piuttosto prudenti come sono, abbiano mai avanzato richieste di questo terzo tipo...
Oss: Io credo che le leggi dello Stato ospitante vadano rispettate; e non solo le leggi, ma anche i protocolli internazionali che questo Stato ha firmato, come la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e la Dichiarazione universale dei diritti del bambino. Per quanto invece riguarda le richieste diciamo sociali e aziendali, non vedo perché, una volta osservato l'orario di lavoro nel suo complesso, a un lavoratore islamico non si possa concedere un permesso al venerdì. Non vedo perché non possano esse rei mense che rispettino le loro prescrizioni, così come vengono rispettati i vegetariani, i non fumatori, ecc. Perché queste concessioni dovrebbero spaventare?
Ancor più pacifica mi sembra la questione del chador: lo portino pure le studentesse, ed anche le insegnanti, un domani, lo non ho paura del chador come simbolo: l'importante è che l'insegnante di scienze islamica non si metta a insegnare secondo il Corano, che prevede il creazionismo.
Le difficoltà di fronte a richieste tanto ovvie derivano secondo me dalla paura che venga intaccato il nostro integralismo cattolico. Noi però i simboli della nostra religione li mettiamo dappertutto...
Giordani: Sul piano giuridico, lo scoglio più grosso nei nostri rapporti con l'Islam è il fatto che la società occidentale concepisce il diritto come un dato negoziale fra i cittadini, modificabile nel corso del tempo dall'attività legislativa. La fonte del nostro diritto, insomma, è la Costituzione. Nei Paesi islamici, invece, la fonte del diritto è il Corano, il diritto è diritto divino e come tale immutabile. Se una norma collide col Corano, la norma è illegittima. E' ben vero che esiste anche una attività interpretativa del Corano che punta a distinguere fra il diritto civile e quello religioso. Ma il problema rimane, tanto che con altre religioni lo Stato italiano è riuscito a stabilire regimi concordatari, e le firme per l'otto per mille si moltiplicano, mentre con l'Unione delle Comunità Islamiche in Italia non c 'è ancora un accordo, perché una delle condizioni è che loro accettino la Costituzione come elemento fondante del diritto italiano. Ricordo anche che l'Islam non ha ratificato la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo: lo scoglio più rilevante è il ruolo sociale della donna e la parità uomo-donna. E' questo il conflitto culturale più grosso fra Occidente e Islam. Di fronte a questi problemi, sembra comunque logico permettere tutto quanto non proibito dalla legge.
La preoccupazione che le richieste avanzate dalla Comunità islamica hanno provocato in alcuni - compreso Rutigliano - è che queste non siano altro che i primi passi, le 'prove tecniche di un prossimo tentativo di sopraffazione. In Francia, la polemica di qualche tempo fa a proposito del chador nelle scuole, non riguardava tanto il diritto di manifestare la propria fede religiosa, ma il diritto o meno di 'ostentarla '. Anche se per nessuno è mai stato un problema se preti e suore, fuori dai conventi, vanno vestiti col saio e col crocefisso in vista...
Per finire, mi sembra pericoloso quel relativismo etnico del diritto sostenuto da qualcuno, ossia una diversa applicazione del diritto ai cittadini a seconda della loro cultura (ad esempio, la poligamia consentita solo ai musulmani). E questo è un problema che si pone già oggi nella tutela dei minori. Le convenzioni internazionali che stabiliscono i diritti del fanciullo non sono state del tutto ratificate dall'Islam, che comunque considera i minori sotto la responsabilità del padre e non della coppia; tutto questo pone i nostri giudici in difficoltà nel risolvere i conflitti interfamiliari, sicché normalmente le soluzioni adottate sono le due più traumatiche: o ignorare questi conflitti, oppure risolvere la situazione con la revoca della potestà genitoriale.
Oss: Giordani ha delineato perfettamente il problemi dei rapporti fra Occidente e mondo islamico in tema di diritto: ma ricordiamoci che i Paesi musulmani che pongono il Corano come fonte del diritto sono quattro cinque, non di più; e sono Paesi da cui non arrivano immigrati verso l'Italia. I musulmani che vengono da noi, di solito vivono la religione soprattutto come desiderio di appartenenza alla propria terra, alle proprie tradizioni, e non hanno in mente lo scardinamento del nostro Stato. Del resto lo vediamo nella nostra esperienza quotidiana: la madre viene a udienza a scuola col chador, ma la figlia porta la minigonna.
Quanto alla laicità: con l'articolo 7 della Costituzione vi abbiamo rinunciato da un pezzo...
Rauzi: E' chiaro che noi dobbiamo essere gelosi della nostra capacità di distinguere fra peccato e reato, categorie che invece in certe parti dell'Islam sono ancor oggi identificate, per cui l'adultera viene lapidata. Certo, la situazione è complessa. Ma non si può neanche semplificare agendo sotto l'impulso della paura, della irrazionalità. A monte di tutte le difficoltà che sorgono dal nostro incontro con culture diverse esiste infatti una crisi d'identità che questo rapporto interculturale induce in noi. E allora si tende a difendersi chiudendosi nel proprio guscio. La cosa che più mi ha impressionato anche nel dibattito che è seguito all'intervento di Enzo Rutigliano è la quasi esibita ignoranza dell'altro, del musulmano; al quale vengono attribuite delle consuetudini che nulla hanno a che fare con quella civiltà. Esempio classico, l'infìbulazione, che non è una pratica islamica a dispetto di quanto si sente dire continuamente. La stessa poligamia è praticata con numerose regole restrittive: le mogli successive alla prima, ad esempio, devono essere accettate da questa e in genere gli ulteriori matrimoni hanno una funzione sociale, nel senso che spesso si tratta di vedove che, risposandosi, riacquistano uno status sociale che avevano perduto. Voglio dire: bisogna approfondire le questioni, non si possono risolvere con una battuta.
E' un'ignoranza che viene giustificata con la superiorità della nostra cultura, che ci dispensa dal conoscere le altre culture considerate arretrate.
Forse però potremmo essere ottimisti: certi valori disuguaglianza e tolleranza e quel processo di laicizzazione che ha così fortemente investito i Paesi di religione cristiana finirà per toccare anche gli immigrati. Purché questi siano integrati: l'immigrato escluso, sospinto nel ghetto, cercherà invece proprio nelle sue radici più tradizionali una possibile identità che la società italiana gli nega. Dunque, l'integrazione è proprio la difesa migliore contro le legittime preoccupazioni che sorgono di fronte a situazioni complesse come quelle prima evocate.
Giordani: La laicità dello Stato dovrebbe consistere nel riconoscere pari dignità alle varie espressioni religiose, imponendo come elementi regolatori la non conflittualità in queste espressioni e la superiorità ordinativa, della laicità dello Stato. Occorre saper governare il fenomeno con imparzialità. La laicità dello Stato italiano, invece, è una sorta di indifferenza nei confronti del problema. E' un dire: ognuno s'arrangi. Poi, siccome io una cultura ce l'ho, quando quello che si arrangia mi fa paura, tirerò fuori che le sue manifestazioni di religiosità contrastano con la mia laicità, e allora ecco il divieto del chador come in Francia, col pretesto che è una ostentazione eccessiva della propria fede. Le istituzioni dovrebbero avere una laicità più consapevole della propria funzione di arbitro.
Quanto alle modifiche agli assetti organizzativi per venire incontro alle richieste islamiche, io credo che la negoziazione (riguardante i pasti, il venerdì, ecc.) debba avvenire sostanzialmente fra i lavoratori e le imprese, fatti salvi i diritti fondamentali.
E' chiaro che non è compito dello Stato dare una normativa su questi temi. Si tratta però di favorire un clima culturale all'interno del quale le facilitazioni a queste altre culture vengano vissute normalmente dalla popolazione italiana.
Giordani: Normalmente però il clima culturale è anticipato dalla convenienza economica. Ci sono industrie in Emilia che ormai hanno capito che giocando sull'utilizzo del venerdì come giorno di riposo, permettendo certe frammentazioni dell'orario per la preghiera e consentendo di accumulare le ferie per rendere possibile il rientro in patria ai lavoratori immigrati, sono riuscite a conseguire un migliore utilizzo degli impianti ed anche lavoratori più soddisfatti di lavorare lì.
Quanto alle manifestazioni individuali dell'appartenenza religiosa, dovremmo rovesciare la nostra visuale. La ricerca svolta dalla Provincia nel '95, come pure la nostra esperienza al Mas, dimostra come, di fronte a una società che accetta l'immigrato solo nella misura in cui non si vede che è straniero, l'immigrato tende a una sorta di schizofrenia: da un lato mantiene certi rapporti estremi obbligatori in modo formalmente corretto, senza manifestare la propria cultura e questo è compito quasi esclusivo dell'uomo; dall'altro, si manifesta per quello che è all'interno del gruppo e della famiglia. Risultato: la donna, in particolare, si trova più isolata che non nel paese di origine, dove invece aveva un suo ruolo e un suo ambito di frequentazioni (nel vicinato, nel quartiere...). Qui tutto è più difficile: andare a far la spesa col chador è imbarazzante, e andarci senza significa rinunciare totalmente alla propria cultura.
Rauzi: Su dieci coppie che abbiamo intervistato per una ricerca, ben sette avevano l'antenna parabolica, il che non significa apertura al mondo, ma vuoi dire che la donna sta in casa e vede la televisione del Paese di origine. E' una situazione di isolamento molto più rigida di quella che la donna viveva nel suo contesto di origine. In questa ricerca che abbiamo svolto sulla realtà trentina (sulle coppie islamiche e sulle donne), abbiamo avuto enormi difficoltà di approccio: per fortuna ad intervistare c'era una donna, ma nonostante questo, era necessario passare attraverso il consenso del maschio.
Altra difficoltà: andando alla moschea di Trento per individuare i soggetti da intervistare, ci siamo accorti che era come andare in Curia volendo intervistare dei cattolici: trovi quelli Doc, che corrispondono perfettamente a un modello ideale, al loro modello ideale. Non erano esattamente gli "immigrati medi ".
L'impressione che si ha a volte è che esista un netto stacco fra due diversi "tipi" di immigrati: da un lato quello fortemente legato al Paese di origine e alla propria identità religiosa: il musulmano Doc, come dice Rauzi. Dall'altro, sembra che l'integrazione consista soprattutto in una adesione acritica ai modelli occidentali più deteriori (e non parlo solo di spacciatori e prostitute...). In mezzo, quasi una terra di nessuno. E' così?
Giordani: Di fronte a noi abbiamo due modelli, quello francese e quello tedesco, entrambi fallimentari. Nel modello tedesco l'integrazione dipende dal lavoro, dopo di che, in casa, ognuno può fare quel che vuole, e così si è mantenuta forte una certa identità, che però non è stata accettata come paritetica dai tedeschi e dunque ha portato ad una contrapposizione. In Francia, il veicolo di integrazione vuoi essere invece la laicità, la cittadinanza. Questo ha portato le seconde generazioni a rinnegare totalmente l'esperienza del Paese di origine, con uno sradicamento tremendo. Il solo veicolo di integrazione è il successo economico; dove questo manca, e 'è solo conflittualità sociale: contro i genitori percepiti come dei falliti, contro il quartiere... lo mi domando: in che modello siamo, in Italia?
Rauzi: Da quanto ho visto all'ultimo festival del cinema di Venezia per quello che il cinema può testimoniare pare che nella seconda generazione, particolarmente in Francia, il tasso di patologie individuali (malattie mentali, alcolismo, suicidi...) indotte da questa crisi sia molto elevato.
Giordani: C'è poi anche il modello americano, che però è molto diversificato a seconda delle varie zone (metropolitane, rurali, ecc.). Gli Usa sono un Paese dove ancora la setta religiosa può costruirsi un villaggio tutto per sé. Dunque, c'è una maggiore possibilità di autonomia.
Rauzi: Anche la secolarizzazione, in America, ha connotati diversi. In America il Presidente giura ancora sulla Bibbia. Ma questo frequente riferimento a Dio è così generico da garantire la pacifica compresenza di qualunque confessione religiosa.
Giordani: Negli Stati Uniti c'è il nero che è capo di Stato Maggiore della Difesa o il cinese che possiede una catena di ristoranti, ma non si può dire che ci sia stata una rivitalizzazione dei dati culturali e tradizionali dei cinesi o dei portoricani all'interno della società. Troviamo invece Chinatown, Little Italy, ecc. Io credo che le cose possano evolvere in direzione positiva solo se si permette agli immigrati un minimo di manifestazione sociale delle proprie peculiarità culturali. Anzi, se in questo li si agevola. Pensiamo ai ragazzini nati in Italia, che hanno meno parametri propri per collegare le due culture: vivono la cultura del Paese di origine solo tramite la televisione o i racconti dei genitori e vivono la nostra cultura prevalentemente attraverso la scuola e il rapporto con i compagni. Questa è l'integrazione tramite la Coca Cola e il motorino, che crea deflagrazioni familiari impressionanti. Non esiste possibilità d'integrazione diversa, attraverso la curiosità, le reciproche diversità anche di abbigliamento, di costumi alimentari...
Da qui l'importanza di venire incontro a certe necessità e richieste degli immigrati, che darebbero qualche garanzia per un più positivo futuro delle seconde generazioni.
Rauzi: lo vedo che questi problemi sorgono nei rapporti fra le religioni del "Libro", come appunto cristiani e musulmani. Non mi sembra che nascano nei rapporti con le religioni orientali, come il buddismo, l'induismo o il confucianesimo, che mi pare abbiano un tasso di integralismo molto inferiore.
Giordani: Nel mondo indiano, ad esempio, c'era il problema delle caste, che però è stato superato dallo sviluppo stesso della società. Anche il contatto con l'ombra di chi appartiene a una casta inferiore ti può contaminare: il sistema può funzionare all'interno di un villaggio, dove tutti si conoscono, ma in un contesto urbano, dove non conosci quasi nessuno e non puoi riconoscere a quale casta appartengono le persone che incontri o il medico che ti cura, il problema viene meno. Rimane magari la consapevolezza interiore dell'importanza delle caste, ma le manifestazioni esteriori di questo costume tendono a scomparire. Ne deduco che una pressione sociale, se condivisa, tende a sistemare le cose...
Rauzi: ho la sensazione che da un lato stiamo percorrendo una strada irreversibile (la società multietnica è sicuramente il nostro futuro), mentre sul versante dell'integrazione ci saranno difficoltà e oscillazioni: il futuro insomma è incerto. E poi mi interrogo su questa integrazione, che non vorrei avvenisse come perdita completa di identità, ma come un contributo di originalità che ognuno di questi elementi può dare, in modo che ci sia una crescita da entrambe le parti. La mia paura è che invece i meccanismi di difesa e la paura della perdita di identità producano delle chiusure sia fra gli immigrati che fra gli italiani: vedi certi fenomeni deteriori pilotati dalla nostalgia, come da noi il richiamarsi a Cecco Beppe.
Giordani: In Trentino, rispetto ad altre realtà d'Italia, abbiamo una duplice peculiarità: da un lato questa ideologizzazione dell'autonomia come protezionismo localistico, cosa che nello stesso Sudtirolo è meno forte, forse perché il Pacchetto ha definito la situazione. L'altra particolarità riguarda il modo in cui si sono insediati gli immigrati. In certe zone la loro presenza raggiunge percentuali altissime: nelle zone di Storo e Condino ci si avvicina al 10% della popolazione; un fenomeno che dipende dallo spopolamento degli abitanti e dalla presenza di occasioni di lavoro. E' la stessa cosa accaduta in Alto Adige, dove in certe zone -ad esempio nella Venosta- i genitori italiani iscrivono i figli alla scuola tedesca, perché le classi di lingua italiana sono massicciamente frequentate da figli di stranieri.