Perfido: i colletti bianchi
La Cassazione certifica che proprio di mafia si tratta, e smonta le interpretazioni negazioniste. In parallelo avanzano le richieste di rinvio a giudizio per politici a Carabinieri.
In questi giorni sono stati resi pubblici due provvedimenti dell’autorità giudiziaria in merito all’indagine Perfido: la condanna, definitiva, in Cassazione, di Saverio Arfuso, “partecipe dell’associazione criminale con ruolo di rango elevato”; e la richiesta di rinvio a giudizio di 15 persone, tra cui spiccano quattro carabinieri, un senatore, due sindaci.
Entrambi i provvedimenti sono molto importanti, in quanto delineano la gravità dell’infiltrazione e sbugiardano – speriamo definitivamente, ma non ci scommetteremmo – la favola dell’inchiesta-montatura, destinata ad essere smantellata dalla stessa magistratura.
Partiamo da questo secondo aspetto, a nostro avviso sconcertante e grave. E’ stato dal Tribunale, da alcuni avvocati difensori che hanno interpretato con particolare zelo il proprio ruolo, che si è diffuso il giudizio negativo prima sull’inchiesta, poi sui giudizi di primo, poi anche di secondo grado: non c’è mafia, sono tutte storie, non c’è stata droga, non si sono trovate armi, non ci sono morti, è tutta una burletta che non potrà reggere alle contestazioni in aula.
Questa lettura è legittima da parte dei difensori (anche se poi nel dibattimento non hanno saputo concretizzarla, incapaci di contestare le prove schiaccianti portate dall’accusa). Preoccupa invece che sia stata fatta propria da altri nel Tribunale e soprattutto nella società civile. Al punto che nessuno (a parte i 5 Stelle) dei nostri tremebondi partiti ha mai pronunciato la parola “mafia” in campagna elettorale, neanche nei comizi in Val di Cembra.
Come mai ha attecchito questa lettura riduzionista, quando non apertamente negazionista? Può essere perché il processo si è svolto a porte chiuse e i giornalisti si informavano dagli stessi avvocati (eppure avrebbero anche potuto leggersi gli atti; costa tempo e fatica, d’accordo, ma l’ingresso della mafia da noi, non è un tema abbastanza importante per dedicarvi un po’ d’impegno?).
Oppure, soprattutto, perché i trentini stoltamente ritengono di non poter essere intaccati dai fenomeni criminali provenienti dal sud (avevano ragione i boss mafiosi che, passando sull’Autobrennero dicevano: “Qui sono innocenti, e i nostri fanno affari della Madonna”).
Come che sia, ora la Cassazione, ultima spiaggia del partito “Non è mafia”, ha chiuso il discorso, ha respinto, e con durezza, il ricorso di Saverio Arfuso. Notiamo che Arfuso non era imputato di alcun reato, se non di associazione mafiosa. Era infatti a capo della locale di Cardeto (Reggio Calabria), da cui era provenuta gran parte dei nostri imputati; ne era stato rimosso (aveva troppo allargato le maglie dell’organizzazione, facendovi entrare persone non pienamente affidabili) e spedito in Trentino, presso la locale cembrana di Innocenzio Macheda e del cognato Pietro Battaglia, con la quale anche da Cardeto intesseva rapporti. E in Trentino curava i collegamenti con la Calabria. Sono tutti rapporti rigidamente gerarchici: per esempio, a Cardeto anni addietro Macheda aveva partecipato all’elezione di Arfuso come capo della locale di laggiù, ma quando poi Arfuso viene rimosso dall’incarico e ripara in Trentino, subito si sottomette al capo di qui Macheda (che fece anche il furbo e lo umiliò, probabilmente per ribadire la propria primazia).
Una montagna di intercettazioni certifica questi rapporti. E la Cassazione vi ha messo il sigillo: “Rigetto totale” del ricorso di Arfuso, conferma definitiva della condanna, e in più pagamento non solo delle spese processuali sostenute dallo Stato, ma anche di quelle delle Parti Civili, sindacati, Libera, Provincia.
I colletti bianchi
Le dinamiche processuali possono ora andare più a fondo nello svelare i meccanismi che hanno legato la locale calabrese alla società civile trentina. La Procura ha infatti chiuso le indagini e chiesto il rinvio a giudizio di tutta una serie di personaggi per scambio elettorale politico-mafioso, art. 416-ter del Codice Penale. Si tratta delle elezioni provinciali del 2018 e di quelle del Comune di Lona Lases dello stesso anno: da una parte ci sono i politici Mauro Ottobre, senatore e candidato alla presidenza della Pat, Bruno Groff, sindaco di Frassilongo e candidato alle provinciali del 2018, il sindaco Roberto Dalmonego, candidato alle amministrative di Lona Lases; dall’altra nove dei sodali della locale, da Macheda, Arfuso, Morello, Pietro Battaglia ai soldati semplici e picciotti che promettono i voti, magari chiarendo subito che “se poi, quando noi bussiamo, voi ci voltate le spalle, vedi che non va bene".
Su questi fatti molto abbiamo scritto, e la richiesta di rinvio a giudizio non porta ulteriori approfondimenti, che ci aspettiamo invece in sede processuale. L’infiltrazione a livello politico, seppur circoscritta a livello molto locale o a personaggi di secondo piano, è un segnale d’allarme sulla pericolosità sociale già in atto della consorteria cembrana.
Il secondo livello di penetrazione riguarda i carabinieri della stazione di Albiano. QT l’aveva rilevato un anno e mezzo prima dell’operazione Perfido: quando avevamo iniziato la nostra inchiesta, c’eravamo subito imbattuti nell’anomalo, anzi sospetto comportamento dei locali carabinieri nel caso del bestiale pestaggio dell’operaio cinese Hu-Xupai. Era fortissima l’impressione che le forze dell’ordine avessero operato – come oggi scrive la Procura - non a tutela dell’aggredito, ma degli aggressori. Fatto che ridisegnava tutto l’approccio all’intreccio criminalità\porfido: quando parti dello Stato stanno dalla parte dei violenti, non si tratta più di episodi singoli, ma di un’organizzazione criminale che sta assumendo il controllo di un territorio.
La magistratura, sia pur con i suoi tempi, ha nel frattempo lavorato, ed oggi siamo alle richieste di rinvio a giudizio della Procura. Per reati non solo gravi, ma emblematici. I tre carabinieri implicati – il comandante della stazione CC maresciallo Roberto Dandrea, i due agenti di polizia giudiziaria Nunzio Cipolla e Alfonso Amato – sono imputati di omissione di soccorso, omessa denuncia di reato, favoreggiamento personale, con tutta una serie di aggravanti, tra cui quella di “aver così agito al fine di agevolare l’attività dell’associazione criminosa di tipo mafioso operante in Lona Lases nel settore del porfido”. Non solo: “Aiutavano Mustafa Arafat, Hasani Selman e Durmishi Bardul (i tre picchiatori dell’operaio ndr) a eludere le investigazioni dell’autorità dopo che avevano commesso i delitti di sequestro di persona e lesioni gravi pluriaggravate... il comandante Dandrea denunciava invece, in modo scientemente parziale, il solo Hu Xupai per il reato di danneggiamento” e così via, il documento prosegue nella serrata analisi delle attività dei tre CC tese a scagionare i picchiatori e incriminare invece l’operaio cinese. Il tutto “al fine di agevolare l’attività dell’associazione criminosa di tipo mafioso”.
La richiesta della Procura analizza poi un altro fatto, a prima vista meno grave, eppure estremamente indicativo della sudditanza dei Carabinieri rispetto alla locale calabrese. Si tratta dell’episodio in cui alcuni giovinastri della Valle dell’Adige (ignari delle situazioni cembrane) andavano, come in un brutto thriller, a campeggiare in località Dossi-Grotta in una cava di Macheda, si ubriacavano con sostanze varie, operavano danneggiamenti e furti, stipavano la refurtiva nella loro macchina, e poi si mettevano a dormire il sonno degli stolti nella tenda rizzata lì vicino. Al mattino venivano svegliati da Macheda e una quindicina di soci, tutti armati di nodosi bastoni.
Allertato da Macheda, interviene il maresciallo Dandrea assieme all’agente Luca Mattevi (che la Procura stranamente qui non nomina ma che aveva tartassato in uno stringente interrogatorio durante il precedente processo, e che QT conosce bene, perché nel dicembre 2021, subentrato a Dandrea come comandante della stazione di Albiano, aveva tentato di sabotare un pubblico incontro organizzato al teatro di Lona da noi e dal CLP). I due carabinieri assistono al pestaggio: “Schiaffi, pugni ed anche alcuni colpi di bastone” scrivono poi nella relazione inviata alla Polizia giudiziaria, “senza però – scrive la Procura – fornire alcuna indicazione degli autori dei predetti comportamenti violenti”. “L’ulteriore attività di indagine veniva solertemente svolta per ricostruire le responsabilità dei furti e dei danneggiamenti e non per verificare le condotte aggressive ritorsivamente poste in essere dai titolari delle imprese”.
E non solo. C’è un fatto solo apparentemente secondario: “Allo stesso Macheda era affidata di fatto la ‘custodia’ sul proprio veicolo dei beni trafugati e recuperati e la restituzione agli aventi diritto, con delega al ‘privato’ di atti tipicamente di polizia giudiziaria, e con effetto di sostanziale avvallo della primazia di Macheda”.
Per questo insieme di comportamenti Dandrea viene accusato di essere “concorrente esterno dell’associazione criminale” e di aver “asservito il proprio ruolo di comandante della stazione di CC agli interessi degli associati e dell’associazione operante sul suo territorio”. Conclusione: la “massima benevolenza ed aiuto nei confronti degli associati” e per converso “l’estremo rigore nei confronti degli avversari” ha incrementato sul territorio “la percezione della posizione di ‘forza’ e di ‘potenza’ degli imprenditori calabresi e macedoni operanti in forma criminosa associata con metodo mafioso”.
Questa è 100% mafia.
Questa richiesta di rinvio a giudizio è stata depositata il 22 novembre del 2023. Il Tribunale non ha fatto finora gli ulteriori passi: l’eventuale accoglimento e la fissazione del processo. Auspichiamo che lo faccia quanto prima, è inutile che ribadiamo noi (lo ha già fatto il Consiglio Superiore della Magistratura) la grande importanza sociale, per il nostro territorio, della conoscenza e chiarezza su questi argomenti.
C’è un’ulteriore esigenza di chiarezza: nell’ordinanza non sono citati altri due colletti bianchi implicati: il generale Dario Buffa e il cavalier Giulio Carini. E, se il generale è un personaggio soprattutto pittoresco (da un’intercettazione sembra sia arrivato a millantare di essere agente dei servizi segreti) Giulio Carini è centrale: “Figura di cerniera... esercita un ruolo di raccordo e collegamento con la Calabria e con le istituzioni politiche, economiche, amministrative nonché con la magistratura” attraverso le mitiche “cene di capra” che hanno finito con il terremotare il Tribunale di Trento. E’ il personaggio che, a stretto colloquio con le più alte cariche dello Stato in Trentino, indica un livello di penetrazione dell’associazione ben oltre Cembra e il porfido. Aspettiamo la chiusura delle indagini.