Una débacle sociale lunga trent'anni
Meccanismi, cultura (e responsabilità politiche) che hanno umiliato il lavoro e dequalificato il sistema.
Nello scorso numero abbiamo sottolineato come l’Italia sia l’unico Paese europeo nel quale i salari reali (depurati dall’inflazione) sono più bassi rispetto a quelli di 30 anni fa (-2,9% nel raffronto1990-2020,in base a uno studio dell’OCSE, vedi il grafico che ne raffigura le risultanze). E la differenza col resto d’Europa è abissale: nei Paesi simili al nostro come Germania e Francia vi è stata nello stesso periodo una crescita dei salari superiore al 30%.
I motivi di questa vera e propria sconfitta sociale sono molteplici, primo fra tutti la deregulation del mercato del lavoro, con la giungla di esternalizzazioni e subappalti, precariato e contratti di somministrazione, in un’economia nella quale i lavoratori hanno perso gran parte delle tutele conquistate nei decenni precedenti. Ne parliamo in seguito.
Qui approfondiamo un particolare aspetto che ha contribuito alla riduzione dei salari, e che riguarda quasi tutti i lavoratori: le regole con le quali si fanno i Contratti Nazionali di Lavoro.
Trent’anni di arretramento
Facciamo un passo indietro di 30 anni, che è poi il periodo preso a riferimento dall’OCSE.
Sino al 1992, i salari poggiavano su tre gambe. La prima era la scala mobile, un meccanismo di rivalutazione automatica delle retribuzioni, norma che chi ha i capelli grigi ricorda molto bene. Istituita nel 1945 con un accordo tra Confindustria e Cgil, serviva a proteggere i salari dall’inflazione: si rilevava trimestralmente il costo di un insieme di beni che si ritenevano necessari per il mantenimento di una famiglia-tipo, e ad ogni incremento dei prezzi scattava un automatico incremento dei salari. Detto in modo semplice: con la scala mobile i salari (il loro potere d’acquisto) non scendevano.
La seconda gamba erano i Contratti Nazionali di Lavoro, che servivano per aumentarli, i salari. Se grazie alle innovazioni tecnologiche, a parità di lavoro, si produceva una torta più grande, i lavoratori attraverso il sindacato si battevano per mantenere (almeno) la propria fetta, e quindi avere più torta. Con linguaggio più tecnico: i Contratti Nazionali servivano per redistribuire gli incrementi della produttività.
La terza gamba, infine, erano i contratti aziendali: laddove il sindacato era più forte si riusciva a conquistare, azienda per azienda, un ulteriore pezzo di salario (e spesso di diritti). E molte volte i Contratti Nazionali finivano proprio per raccogliere le migliori esperienze maturate coi contratti aziendali.
Con gli anni‘80 si iniziò a mettere in discussione questo sistema. La prima gamba, la scala mobile, fu ritenuta responsabile, a causa del circolo ritenuto vizioso tra aumenti dei prezzi, aumenti dei salari e nuovi aumenti dei prezzi, dell’elevata inflazione che affliggeva l’Italia, con tassi che si riflettevano sui titoli pubblici e, pertanto, sugli interessi pagati sul debito. Fu così che con l’impennata del debito pubblico, si cominciò a rivedere il meccanismo, e nel 1992, col sofferto accordo tra il Governo presieduto da Giuliano Amato, la Confindustria e Cgil, Cisl e Uil (quello a seguito del quale Bruno Trentin si dimise da segretario della Cgil), la scala mobile fu abolita.
Il modello salariale perse così una delle tre gambe. Apparentemente la prima, la protezione dei salari dall’inflazione, in realtà a cedere fu la seconda, la redistribuzione della ricchezza. Come mai? La protezione dall’inflazione venne infatti affidata, anziché all’automatismo della scala mobile, ai Contratti Nazionali di Lavoro. Come? Il Governo fissava gli obiettivi di contenimento dell’inflazione e poi imprese e sindacati programmavano i conseguenti incrementi salariali.
Funzionò? Sì. L’inflazione crollò, e con essa gli interessi sui titoli di Stato e dunque sul debito pubblico. Il rapporto deficit/Pil scese considerevolmente e l’Italia agganciò i parametri di Maastricht per l’ingresso nella moneta unica europea. E i salari conservarono il loro potere d’acquisto.
Quella che nel 1992 fu invece cancellata era la redistribuzione della ricchezza, che non venne più perseguita (soprattutto) coi Contratti Nazionali, ma venne delegata alla sola contrattazione di secondo livello, quella fatta azienda per azienda.
Funzionò? No. Il potere d’acquisto dei salari non crebbe più. Senza un Contratto Nazionale forte, le aziende che non innovano, che non investono, che non incrementano la propria produttività, possono stare sul mercato e reggere la concorrenza delle aziende più virtuose solo facendo leva su salari più bassi. E se il sistema che ti sta attorno gira con salari bassi, anche nelle aziende più avanzate e sindacalizzate si fa più fatica a contrattare aumenti. Tutto questo, oltre tutto, in un contesto di radicale trasformazione del sistema industriale italiano, con la chiusura delle aziende di grandissime dimensioni, dove maggiore era la forza sindacale, e la proliferazione delle aziende medie e piccole, dove spesso il sindacato non è neppure presente. Si indebolì insomma il Contratto Nazionale proprio nel momento in cui, considerate le trasformazioni del tessuto produttivo, lo si sarebbe semmai dovuto rafforzare.
Tuttavia, per una ventina d’anni, il nuovo modello a due gambe garantì almeno due cose: che il potere d’acquisto dei salari non scendesse e che i lavoratori di tutte le aziende avessero gli stessi diritti.
Evidentemente troppo per la cultura neo-liberista di imprenditori e politici “riformatori”. Che infatti iniziarono a scalpitare per picconare anche quel modello.
L’occasione si presentò nel 2009, col governo Berlusconi e nel mezzo della crisi economica più grave dell’ultimo secolo. Cisl, Uil, Confindustria e governo siglarono, sulla testa dei lavoratori, con la contrarietà del più rappresentativo sindacato italiano, la Cgil, un accordo col quale decisero, di fatto, di programmare una progressiva riduzione dei salari contrattati a livello nazionale, oltreché un indebolimento della funzione del Contratto Nazionale come garanzia di diritti uguali per tutti sull’intero territorio del Paese.
Come?
Si decise che i salari sarebbero stati ricontrattati ogni tre anni anziché ogni due (l’Europa raccomanda durate annuali dei contratti) e che gli adeguamenti all’inflazione dovevano avvenire attraverso indici e calcoli che programmaticamente lasciavano i salari indietro rispetto all’inflazione. Con l’inflazione rimasta per una dozzina d’anni prossima allo zero, nell’immediato non ci si accorse molto degli effetti, ma oggi con l’inflazione a due cifre tutti i lavoratori si accorgono di non avere alcun salvagente efficace contro il carovita.
Riguardo ai diritti, con quell’accordo del 2009 si resero possibili le cosiddette deroghe, ossia la possibilità che i contratti aziendali definissero minori diritti rispetto a quelli stabiliti dal Contratto Nazionale, il tutto peraltro senza alcuna regolamentazione in merito a quali sindacati fossero titolati a siglare i contratti (peggiorativi) valevoli poi per tutti.
Su questo aspetto, il castello franò rapidamente.
Un esempio per tutti? La Fiat di Marchionne. La quale, attraverso quelle nuove norme, tentò di imporre (e in parte ci riuscì) un modello di relazioni sindacali nel quale gli unici sindacati ammessi al tavolo di trattativa erano quelli che giurano sottomissione al padrone e ne accettano supinamente le condizioni. A propria volta, il governo Berlusconi andò in aiuto di Marchionne, con una legge, tutt’ora in vigore, con la quale si stabilì che un contratto aziendale, non importa se firmato da chi non rappresenta nessuno, può prevedere per tutti i lavoratori condizioni peggiori non solo rispetto ai contratti nazionali, ma persino rispetto alle leggi dello Stato. Il modello Marchionne divenne un precedente che finì per contaminare il resto dell’industria italiana. All’unico sindacato che tentò di opporsi, la Fiom, per quanto fosse e tuttora sia il sindacato più rappresentativo, si cercò di impedire di avere rappresentanti sindacali nelle aziende, di convocare assemblee e persino di avere iscritti.
Come andò a finire?
Marchionne passò a miglior vita, evitando così di seguire la sorte dei suoi vice, che in America sono finiti in galera per aver corrotto i locali leader sindacali. In Italia i governi più o meno di sinistra succeduti a Berlusconi si guardarono bene dal cambiare quelle “riforme” e per parte sua l’Università di Trento ha insignito Marchionne della Laurea Honoris Causa. E chi si è battuto per i lavoratori? Ha potuto contare sulle sentenze della Magistratura, ma solo su quelle.
Dalla flessibilità alla precarietà
La seconda faccia della disfatta di lavoratori è quella della precarietà del lavoro, introdotta negli anni ’90 e via via diffusasi, a minare vita e sicurezze delle persone, come pure, paradossalmente, la competitività delle aziende.
Sotto il nome precarietà rientrano innumerevoli modi di lavorare: dal lavoro nero ormai tollerato, ai contratti a chiamata, alle somministrazioni fittizie di manodopera, chi più ne ha ...
La tipologia di precarietà probabilmente più diffusa è quella del lavoro interinale, o, come si dice oggi, in somministrazione. Che funziona così: il lavoratore viene assunto dall’agenzia di somministrazione di lavoro (Adecco, Manpower, GiGroup, Randstad, ecc) e viene mandato in missione presso l’azienda utilizzatrice (presso la quale, molto spesso, viene tenuto il colloquio di assunzione). Però non esiste alcun contratto di lavoro tra lavoratore e azienda, bensì un contratto commerciale tra questa e l’agenzia.
Questa tipologia di lavoro ha visto la luce nel ’97 ad opera del ministro Tiziano Treu (governo Prodi!), “naturalmente” con lo scopo di disciplinare la flessibilità del lavoro.
Di fatto è una sorta di caporalato legalizzato. Il compito dell’agenzia in teoria è quello di svolgere il collocamento, nella banale realtà è soprattutto quello di mantenere una fetta di lavoratori senza diritti. Infatti, nella pratica, con il lavoro interinale il licenziamento non esiste più: quando l’azienda vuole liberarsi del lavoratore, rescinde il contratto con l’agenzia e tutto finisce lì. Non ci saranno sindacati che protestano, lavoratori che si mobilitano, politici che interrogano, giornali che si indignano: episodi che si verificano ancora (anche se sempre meno), ma coinvolgono i lavoratori con contratti stabili, non gli interinali, che quando vengono licenziati se ne vanno a casa e basta: se osano protestare l’agenzia non li chiama più.
Vediamo alcuni esempi trentini: “Con la crisi del 2009 – ci dicono alla Cgil - per i licenziamenti o le chiusure di tutta una serie di aziende (Lowara, Subaru, Gallox ecc), si levava un grande clamore mediatico in quanto i lavoratori, assunti a tempo indeterminato, potevano protestare; nello stesso periodo, negli stessi giorni, c’erano aziende (come Dana, Metalsistem, Ebara, ad esempio) che chiudevano i contratti commerciali con l’agenzia interinale per centinaia di lavoratori, e nessuno se ne accorgeva”. Nessuna Cassa Integrazione, nessuna trattativa, nessun incentivo, come la legge saggiamente prevede per attutire l’impatto sociale dei licenziamenti.
“Il sindacato non viene nemmeno informato, l’ente pubblico non interviene per favorire ricollocazioni, per dar vita ad attività alternative, come ad esempio nel caso Whirlpool dove parte dei lavoratori furono assunti da una nuova fabbrica, la Vetri speciali situata nello stesso capannone, o analogamente la Gallox con la Mariani, la Lange con la Trafileria Ghezzi ecc".
Per il lavoratore stabilizzato l’eventuale licenziamento dà il via a una serie di azioni che in genere riescono a mitigare il colpo; per l’interinale il licenziamento è una catastrofe personale, a tutti ignota.
Questa situazione provoca non solo contraccolpi sociali, rende sempre il lavoratore estremamente ricattabile, la sua posizione sociale sminuita, la qualità del suo lavoro, inficiata. Viene azzerata la grande conquista sociale del 1970, lo Statuto dei Lavoratori, con le sue norme “a tutela della libertà e dignità dei lavoratori”.
"Art. 1: I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero".
"Art. 7: Il datore di lavoro non può adottare alcun provvedimento disciplinare nei confronti del lavoratore senza avergli preventivamente contestato l'addebito e senza averlo sentito a sua difesa".
Con il lavoro interinale tutto questo scompare, compresa la legislazione ante Statuto, che sia pur in misura minore, offriva una certa protezione.
Si semina disagio, disperazione sociale. Lavoratori che hanno lavorato per oltre dieci anni ininterrottamente nella stessa azienda vengono mandati via senza che l’azienda sia obbligata a spiegarne il motivo. Anche le donne in stato di gravidanza vengono tranquillamente licenziate, mentre le lavoratrici con contratto stabile sono completamente tutelate, un eventuale licenziamento tra l’insorgere dello stato di gravidanza e il compimento di un anno di età del bambino verrebbe dichiarato nullo.
Ora, a questo disastro il legislatore ha posto dei limiti quantitativi. La percentuale massima dei lavoratori interinali in un’azienda non può superare il 30% del totale (ma delle clausole consentono di andare fino al 40% sempre del totale, così ci sono aziende in cui tra gli operai la maggioranza sono precari). E allora crolla la capacità contrattuale di tutti.
Il lavoratore interinale infatti non può scioperare, il giorno dopo verrebbe licenziato. Non dice mai di no su turni e carichi di lavoro. Non può ammalarsi. Non può neppure infortunarsi: in caso di infortunio, pena il licenziamento, deve dichiarare di essersi fatto male a casa; così mentre l’azienda evita ispezioni, sanzioni dall’Inail ed eventuali provvedimenti giudiziari, il lavoratore invece, in caso di danni permanenti o invalidità, non prenderà alcuna indennità dall’Inail, né potrà rivalersi sul datore di lavoro. Se donna, non può neppure, come abbiamo visto, mettere al mondo un figlio.
Quando, in quale dibattito, in quale convegno, in quale campagna elettorale, si è discusso di togliere a un terzo dei lavoratori italiani ogni diritto, persino i più elementari?
Ma quanto costa alle aziende un lavoratore interinale? All’interinale viene applicato lo stesso contratto collettivo degli altri lavoratori, all’azienda quindi costa come gli altri, ma poi deve pagare anche la commissione all’agenzia. Se il costo annuo di un lavoratore a tempo indeterminato fosse di 30.000 euro, l’interinale non costerà meno di 35.000. Allora, qual è il vantaggio per l’azienda?
“La flessibilità, dicono, ma invece è soprattutto la ricattabilità – rispondono alla CGIL – Avere una quota di lavoratori che accetteranno tutto e mineranno le capacità contrattuali di tutta la manodopera”.
Un danno al sistema economico
Arriviamo quindi alla considerazione finale: tutto questo ha portato benefici al sistema Italia?
È il famoso discorso della flessibilità del lavoro, tanto caro ai “riformisti”, anche di sinistra. Una volta qualsiasi contratto diverso dall’indeterminato doveva essere motivato dall’azienda (picco di lavoro, sostituzione di lavoratori in maternità, malattia, servizio di leva, lavoro stagionale). Oggi invece le aziende possono utilizzare il precariato come lungo prolungamento del periodo di prova, e già qui è più discutibile. Poi ci sono quelle che ne fanno un uso strutturale, con un utilizzo permanente di lavoratori precari.
Ad essere buoni, si possono trovare giustificazioni al legislatore (governo Prodi) che ha varato il lavoro interinale con il proposito di regolare il mondo del precariato. Ad essere invece realisti, non si può non notare come le successive modifiche e soprattutto le traduzioni nella pratica, abbiano stravolto le buone intenzioni, al punto che la Corte di Giustizia Europea ci raccomanda di abolire la possibilità di un uso non temporaneo del lavoro interinale. E poi il problema è soprattutto culturale: il clima che ha presieduto queste “riforme” ha sdoganato il precariato, anche nelle sue versioni peggiori: un tempo in Trentino il “lavoro nero”, anche solo come parola, era un insulto; oggi è utilizzato e tollerato, come sono tollerate le finte cooperative, le finte partite Iva, le finte esternalizzazioni ecc.
Il risultato è che parte del sistema produttivo finisce col basarsi sullo sfruttamento di un lavoro dequalificato.
Tutte le statistiche ci dicono che questo non ha giovato alla crescita del sistema, anzi. Tanto più si può sfruttare la manodopera, tanto meno si investe in innovazione tecnologica. Se devo aprire una fabbrica in Germania, utilizzerò i robot, in Bangladesh, i bambini.
La precarietà inoltre ferma la società. Finché non ho il contratto fisso non cambio macchina, non compro casa, non metto su famiglia. La precarietà si diffonde dalla fabbrica nel sociale, e ne ferma lo sviluppo.