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Un nodo in gola

La convivenza contro la guerra

Avrei voluto scrivere d’altro, della lotta aperta dentro i vertici della Svp, scoppiata fra il presidente della Provincia e l’ex presidente Durnwalder, che gli fa guerra fin da quando il suo successore è stato eletto, incapace di dedicarsi ad attività più adeguate alla sua età e stato. Oppure delle medaglie d’onore tirolese, che quest’anno sono state attribuite a personaggi alternativi o addirittura trattati in passato piuttosto male dall’establishment, come il famoso scrittore Josef Zoderer, o lo scalatore Reinhold Messner, insieme alla giornalista Lilli Gruber. Chissà se prima o poi lo daranno anche a Christoph Franceschini, autore di inchieste scomode per chi comanda in Sudtirolo. Ma da stamattina – dall’alba del giorno in cui scrivo, - mi sembrano argomenti di minore importanza.

“Fare la guerra” ora non è più solo un modo di dire, perché la guerra è ritornata in Europa con la sua terribile materialità, fatta di armi che uccidono e distruggono, prodotte sottraendo dai bilanci pubblici risorse indispensabili ai bisogni dell’umanità, e di angoscia, di sangue e di ingiustizia. Il discorso del presidente della Russia, che ha detto di rispondere alla richiesta di aiuto dei residenti russi in Donbass, non giustifica l’aggressione armata, se mai fosse possibile giustificare una guerra.

In Italia abbiamo sopportato per settimane la fregola di giornalisti, impegnati a farci schierare a favore o contro i fronti decisi da potenti irresponsabili. Nessuno tuttavia credeva che l’esibizione di forza, da taluni ritenuta comprensibile di fronte alla minaccia di piazzare le forze NATO ai confini dello stato, si sarebbe trasformata in invasione e attacco. Nel mondo ci sono tante guerre, sanguinose e dagli effetti strazianti, ma finora erano lontane dall'Europa e dai suoi riti burocratici e gli europei non ne soffrivano un granché.

All’incredulità si è aggiunta l’ansia, perché sono i civili gli obiettivi e le vittime delle guerre moderne. Vittime di armi o di impoverimento che purtroppo non colpiscono mai chi le armi le fa, i quali anche in tempo di Covid hanno potuto continuare a produrle, perché secondo i politici di destra e di pseudo-sinistra si tratta di “prodotti indispensabili”. E le guerre non colpiscono neppure i politici, che usano mandare i figli degli altri a farsi ammazzare per qualche motivo che loro ritengono nobile, mentre uccidere è sempre ignobile.

Il presidente Sandro Pertini (come lo rimpiangiamo! E come nessuno si avvicina neppure di un millimetro alla sua grandezza!) diceva: “Si svuotino gli arsenali e si colmino i granai”. Ecco, l’Ucraina è una grande produttrice di grano, eppure oggi gli arsenali sono strapieni e i granai rischiano di non riuscire a sfamare l’umanità.

Sabato 26 febbraio, in piazza Walther a Bolzano come in tante altre città del mondo c’è stata una manifestazione: c’erano i soliti, tanti ucraini che gridavano “Putin assassino”, ma non tante persone. Numerose bandiere ucraine e dei sindacati, qualche bandiera della pace, e un cartello di cartone, scritto a mano, con le date: “Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Palestina, Siria, Ucraina: le loro guerre, i nostri morti”. La colonna sonora era di canzoni pacifiste.

Tutti condannano la guerra in corso e il dittatore russo, che trascina anche il suo popolo nella rovina e nel disonore. Anche chi aveva forti dubbi sull’allargamento della NATO all’Ucraina (fra cui l’ambasciatore e storico Sergio Romano) o criticava la mancanza di diritti e di autonomia nella regioni che ora si sono dichiarate indipendenti dopo avere atteso inutilmente l’attuazione degli accordi del 2015, ora non può non schierarsi con il paese invaso e bombardato.

Tanti altri non sono innocenti: coloro che vogliono portare armi micidiali sul confine della Russia (la NATO), dopo averla abbandonata nella disperazione durante la crisi seguita al crollo dell’URSS nel 1989; i paesi europei che non hanno mai accettato le proposte di collaborazione di Gorbaciov e perfino dello stesso Putin, e i governi ucraini che non riescono a emarginare i movimenti armati degli ultranazionalisti e a fare rispettare all’interno del proprio stato il diritto alla lingua e alla cultura delle minoranze russofone (e anche delle altre).

Sulle piattaforme e nelle pagine delle lettere dei giornali sudtirolesi è molto forte il dibattito su quest’ultimo aspetto. Accanto ai giovani che fanno appelli affinché questa enorme mobilitazione possa salvare il pianeta dalla crisi climatica, invece che trascinare tutti in un conflitto otto-novecentesco di carattere nazionalista, c’è chi propone di usare i principi e il percorso del nostro Statuto d’Autonomia per affrontare i conflitti fra le popolazioni diverse all’interno di un territorio: creare vie consensuali per costruire convivenze pacifiche. Anche in provincia di Bolzano, al tempo della creazione del “pacchetto”, c’era chi voleva usare l’ascia e chi invece, con un lavoro sottile e faticoso e per niente vendibile sulla piazza dei mass-media, ha contribuito a trovare le soluzioni il più possibile condivise, e perciò solide e durature.

Il micronazionalismo succeduto alla caduta dell’URSS non ha solo frantumato un impero, - il che forse non è stato male, - ma ha abbandonato in decine di nuovi stati, fondati sulla pretesa di omogeneità linguistica e culturale, persone e gruppi di lingua diversa. Nulla si è fatto al livello mondiale per cercare strumenti affinché in quei luoghi si imparasse a convivere. Vendette e umiliazioni hanno causato risentimenti e sofferenze. Ciò che stava succedendo infatti non era ignoto: grandi libri e articoli di veri giornalisti lo hanno previsto e raccontato (per es: Tiziano Terzani, “Buonanotte, signor Lenin” o Frank Westerman, “Ingegneri di anime”). Certo, schierarsi e accusare non richiede assunzione di responsabilità. L’Europa ha taciuto mentre gli USA costruivano anche qui il nuovo-vecchio nemico.

Nelle lettere ai giornali e nei messaggi, si sente l’amarezza di fronte al fallimento delle diplomazie, ennesima prova della pochezza della classe politica e la consapevolezza che questo insuccesso dipende anche dalle ambizioni di due uomini vecchi ai vertici del mondo, che si preoccupano del calo della loro popolarità e sono disposti a tutto. Come l’imperatore austriaco, Franz Josef, che nel 1914 si ritirò a Schönbrunn e rifiutò qualsiasi compromesso proposto dai suoi. Ne andava del suo “onore”.

Su salto.bz una serie di articoli di Fabio Marcotto, con una lunga esperienza di lavoro di insegnante e di vita in Russia e in Ucraina, hanno illustrato la grande articolazione di una difficile convivenza, dalla normalità dello stare insieme fra ucraini e russi agli errori dello stato ucraino verso i parlanti una lingua diversa da quella ufficiale, alle provocazioni e al sorgere dei nazionalismi armati e dell’odio che non risparmia amici e parenti. Di Odessa, città di grande tradizione multiculturale e multietnica (vedi: Isaak Babel, “Racconti di Odessa”), Marcotto, che vi ha insegnato Italianistica all’Università, scrive: “La popolazione di questa città è in grandissima parte russofona. Si scrive a si parla in questa lingua dappertutto, bar, ristoranti, negozi teatri… Ci sono tre eccezioni che mi saltano all’occhio (…): solo in ucraino sono i documenti ufficiali, i film e i foglietti illustrativi dei medicinali”. Ma poi racconta anche che “la Crimea è stata conquistata e abitata da goti, unni, sarmati bulgari, greci, bizantini, romani, veneziani, genovesi e tatari”. E quindi il presidente russo Putin ha torto a dire che “La Crimea è sempre stata russa”.

Naturalmente nei commenti locali si trova anche chi critica i manifestanti pro Ucraina, “perché non lo fanno anche contro l’invasione del Sudtirolo da parte dell’Italia”. I contributi più interessanti sono di coloro che hanno vissuto a lungo o hanno forti legami privati o di lavoro con quei paesi ora coinvolti come aggressore o aggredito. Tutti dicono che le popolazioni sono fortemente intrecciate, con tantissime famiglie miste. Come fu in Jugoslavia. Basti ascoltare le donne che fanno le badanti e tremano per i loro cari.

In Provincia di Bolzano ci sono alcune centinaia di russi e 1500 ucraini (dato del 2019). Frequentano insieme la chiesa ortodossa di Merano, restaurata e restituita alla collettività per iniziativa dell’Associazione culturale Rus’ . Intanto il Centro Borodine per lo sviluppo dei rapporti tra la Provincia di Bolzano e la Russia, ha chiuso le attività. “Dobbiamo ricominciare da zero” ha detto il direttore Lukas Pichler, funzionario della Camera di Commercio, e intende lo strano progetto della Provincia di concedere per 30 anni alla città di Mosca le due ville e la chiesa ortodossa di via Schaffer a Merano. Da tempo il Centro, creato anche insieme a Rus’ (che però poi non ha confermato l’adesione come ha fatto anche la Libera Università di Bolzano) non ha più obiettivi culturali o di amicizia, ma solo di collaborazione economica con ministri del governo russo. Bianca Marabini Zoeggeler, di origine italo-russa, fondatrice e presidente di Rus’, associazione culturale di amicizia con la Russia e profonda conoscitrice di quel paese, della sua storia e arte, è molto addolorata per quanto accaduto. “Ho un nodo in gola - dice - Non avrei mai creduto che Putin avrebbe fatto una cosa simile. Ha deciso di notte quando gli altri dormivano”. È convinta che siano molti in Russia, non solo i coraggiosi manifestanti che vengono arrestati a centinaia, ma alcuni anche nella cerchia del presidente, che non sono d’accordo con la guerra. “Ucraini e russi sono fratelli, ma non si vogliono tanto bene”, dice. Eppure, ricorda con amarezza, sarebbe stato possibile, dopo lo scioglimento dell’URSS, investire in cultura e convivenza, aprendo ad esempio le porte ai/alle giovani russi/e e degli altri paesi dell’ex federazione, facendoli partecipare a una sorta di Erasmus che allargasse il concetto di Europa.

Invece l’investimento è stato fatto in armamenti: gli Usa hanno creato un accerchiamento con decine di paesi accolti nella Nato (e subito riempiti di armi micidiali). Disprezzando e negando l’impegno preso (pubblicato su Der Spiegel) di non far entrare nell’Alleanza militare i paesi confinanti con l’ex Unione Sovietica.

Chi scatena la guerra ha una terribile responsabilità, ma raramente è solo ad avere la colpa. Chi oggi in Italia, Letta, Draghi e tutti quei parlamentari pronti a mandare a combattere nostri soldati (contro la Costituzione) sono moralmente richiesti di mandare per primi i loro figli e nipoti o meglio, di andarci loro stessi. Prima di mandare gli altri a morire, dovrebbero fare il loro mestiere, quello della politica, che è di favorire la pace e non di piazzare il surplus delle armi.